Mi racconto
In
serate come queste, quando lo smarrimento prende un po’ il sopravvento sarebbe
bello che le persone che “amo” e che mi aiutano nel difficile cammino di
fede fossero vicine. Un prete che la sua vocazione ha portato a migliaia di
chilometri e un monaco distante solo un centinaio di chilometri da Torino. E io
quasi ventinovenne, cattolico, comunista e per finire anche omosessuale, stasera
proprio non riesco a trovare la quadra. Sono settimane che devo scrivere questo
articolo, un amico grande e sincero me lo ha chiesto, e queste righe sono
diventate pretesto per tirare un po’ le fila rispetto alla mia vita – fatta
di lavoro, di impegno, d’amore, di sesso – e soprattutto rispetto verso la
mia fede. Arrivo da anni di grande attivismo in gruppi cattolici impegnati nel
sociale e nella difesa dei più deboli, anni di animazione, di campi estivi, di
ritiri e di preghiera. Anni di lavoro nel sociale, a coronamento di un bel
percorso di studi.
Una
storia
Poi
un anno di vita in un’altra città, Firenze, una bella esperienza di servizio
civile, allora ancora obiezione di coscienza, e la completa maturazione e
accettazione della mia sessualità. L’anno si chiude con un pensiero che
diventa quasi uno slogan della mia vita: amerò anche un altro uomo, ma sempre
amore sarà e Dio non potrà che essere felice del mio amore. Con la serenità
di una persona che non ha nulla da nascondere, non ho mai messo manifesti sulla
mia vita sessuale ma neanche ho fatto della mia esistenza una sequenza di
sotterfugi. Nella vita privata, con gli amici, sul lavoro, nel mondo pubblico mi
sono sempre presentato per quel che sono, con garbo, con il sorriso. Sarò stato
fortunato, ma non mi sono mai sentito discriminato per il mio amare
“diverso”. Mai reazioni negative, di esclusione, di aggressività. Sarò
stato fortunato, o forse il mio vivere serenamente il mio essere, si trasmette e
Diritti
civili
E
proprio da questi primi pensieri parte una prima considerazione. Credo
profondamente che sia venuto il momento che anche l’Italia riconosca una serie
di diritti civili alle coppie omosessuali. Pur ritenendomi cattolico, credo che
uno dei valori assoluti da proteggere del nostro Stato sia la laicità. In una
società in trasformazione in cui le diversità finalmente non temono di
manifestarsi, in cui molte culture si incontrano, è importante difendere il
valore della laicità. In suo nome penso sia giunto il momento di riconoscere
che se due persone decidono di compiere un percorso di vita insieme, abbiano il
diritto di poter stare accanto anche in momenti di malattia, di condividere
patrimoni, di poter lasciare le proprie ricchezze all’altro. Il riconoscere
questi diritti non va a ledere in nessun modo l’idea della famiglia, l’idea
del matrimonio. La coppia eterosessuale o il matrimonio è in crisi, non perché
due uomini o due donne si amano e chiedono che vengano riconosciuti i propri
diritti.
Le
ragioni sono complesse a specchio della complessità della nostra società e
delle nostre vite. Come si può additare parte della crisi della famiglia
proprio a chi chiede a gran voce di poter essere riconosciuto come famiglia? Due
persone che si amano sono una famiglia, si sentono una famiglia, vivono come una
famiglia indipendentemente da sesso, età e colore della pelle. Spesso a questi
pensieri senti risposte del tipo: “Io non ho nulla contro... vivete... ma
perché richiedere un riconoscimento?”. Perché non richiederlo, auspicarlo
come il segno dell’ennesimo passo di civiltà della nostra società? È vero,
pur senza riconoscimento la vita della mia “famiglia” continuerà, ma dovrò
pregare che mai una malattia, un momento di crisi economica, o ancora peggio una
morte improvvisa mi colga, perché so che se dovesse capitare qualcosa del
genere probabilmente il mio compagno non potrà condividere e starmi vicino al
pari di una qualsiasi coppia eterosessuale. Da qui potrebbe partire un lungo
dibattito su quale tipo di riconoscimento sia auspicabile. Io mi fermo un
gradino prima: l’importante è che ci sia almeno un passo che vada in quella
direzione. Penso che la formula dei Pacs potrebbe essere la risposta giusta per
i nostri tempi. Credo che l’apertura alla possibilità che una coppia gay
possa adottare un figlio sia troppo. Non mi pongo il problema se la coppia gay
possa o non possa essere meglio o peggio di una coppia etero, ma credo
fermamente che un bambino che va in adozione abbia diritto a una vita protetta e
tutelata il più possibile. Già la sua storia che ha portato alla dichiarazione
della sua adottabilità sarà un grosso zaino con cui fare i conti e da cui
scrollarsi quantità più o meno grandi di dolore e sofferenza. In quello zaino
oggi non sarebbe giusto aggiungere ulteriori discriminazioni e sofferenze per il
fatto di avere due papà o due mamme. Probabilmente la nostra società, che ha
già corso così tanto non è ancora arrivata a tanto.
Il
peso delle parole
E
da qui parte la seconda considerazione. Le alte sfere della Chiesa in questi
ultimi mesi hanno più volte ribadito l’opposizione a qualsiasi forma di
riconoscimento civile, si sono alzati i toni del dibattito. Ogni volta che da
Roma si sente parlare di omosessualità, di Pacs o di riconoscimenti civile,
inevitabile l’associazione alla disgregazione della famiglia, del matrimonio,
alla loro crisi e distruzione. Adoro le mie guide spirituali e i grandi
religiosi incontrati in questi anni proprio per l’immagine che ho di loro. Di
persone, illuminate da Dio, che a braccia aperte corrono verso il prossimo
chiunque sia. Le parole hanno un peso, ancora di più quelle di un cardinale o
di un papà. E da quelle parole, da quella continua chiusura mi sento così
lontano. Ogni volta che si sottolinea una separazione netta fra un noi e un voi,
la sensazione che profondamente sento è quella di esclusione. Forse quel dolore
o il desiderio di costringermi a interrogarmi sempre di più, forse la ricerca
profonda di Dio, mi ha portato da qualche mese a decidere di non avvicinarmi più
alla comunione. Sto riscoprendo il valore della Messa come momento di preghiera
comune e di comunità, cerco di pregare con il cuore durante il ricordo
dell’ultima cena, chiedo al Signore al momento della comunione di starmi
vicino. Lo chiedo con il cuore. Vivo tutto questo come una grande rinuncia, non
mi sento in colpa per nulla, ma obbedisco alle indicazioni “ufficiali”. Non
fa parte di me credere al valore dell’obbedienza. Ma forse non spetta a me
“farmi sconti”!.
E
così chiedo al Signore di starmi vicino, perché lo desidero con il cuore. E
gli chiedo di aiutarmi a vivere quel non ricevere la comunione, come un ennesimo
stimolo alla ricerca più profonda di Lui. La preghiera è fatica. In questo
periodo prego molto. Prego per le persone che amo e che non ci sono più, prego
per la mia fatica quotidiana. Sto riscoprendo la dolce figura di Maria e anche
questo è un bel dono. Mi sento parte della Chiesa? La risposta è sì. Sento
che c’è una Chiesa che mi vuole bene, che mi ama. Fatta di persone, di
azioni, di lavoro, di amore. Sento una Chiesa lontana, fredda, oscura, che
faccio così fatica a capire, fatta di lettere, di encicliche, di dichiarazioni,
così lontana dalla nostra vita e dalla nostra gioia e fatica quotidiana. La mia
vita in quest’ultimo anno mi ha portato grandi cambiamenti. Un lavoro
artistico sognato da tempo, il continuare a lavorare con la gente ma da
un’altra prospettiva, una persona cara che sta lottando ogni giorno per
sconfiggere una terribile malattia. E poi due grandi doni: una fede ritrovata e
un compagno. Lui ha qualche anno in più di me, non è nato in Italia, non è
cattolico bensì di religione ebraica. E proprio nel confronto con lui mi rendo
conto di quanto mi senta ancora facente parte di quella Chiesa “dalle braccia
aperte”. Questo è il Simone, ventinovenne, artista, cattolico, comunista,
gay... Ti prego Signore stammi vicino!