L’insostenibile peso delle minoranze
Porrò
la mia Torah nel loro animo, la scriverò nel loro cuore. / Allora io sarò il
loro Dio ed essi il mio popolo: / Non dovranno più istruirsi gli uni gli altri
dicendo: “Riconoscete il Signore”, /perché tutti mi conosceranno, dal più
piccolo al più grande. (Ger 31,33-34) Il testo di Geremia sull’alleanza nuova
offre nuovi percorsi e confini di appartenenza al corpo ecclesiale.La Chiesa è
il popolo adunato dall’azione del Cristo e dello Spirito, popolo in cui tutti
– “dal più piccolo al più grande” – sono portatori di una parola di
conoscenza e di relazione profonda con Dio e la sua rivelazione nella
storia.Tutti i battezzati sono soggetti costituenti la comunione, tutti attivi e
responsabili nella dinamica di annuncio costitutiva della Chiesa, nella quale
tutti vivono un sacerdozio comune, della vita prima ancora che dei riti. Se
questi sono punti fermi della figura di Chiesa neotestamentaria, riaffermati con
forza nella visione ecclesiologica del Vaticano II, la realtà quotidiana
ecclesiale ci pone sotto gli occhi, e affida alla nostra considerazione,
prospettive di strutturazione effettiva delle relazioni ecclesiali ben diverse.
La realtà della Chiesa appare segnata dalla presenza di “minoranze”, le cui
parole e azioni non sono sufficientemente considerate in ordine alla vita della
chiesa come popolo di Dio.
Di
fatto esclusi
Quello di “minoranza” è certamente un concetto da precisare. Da un lato, infatti, si tratta di “minoranze” sul piano quantitativo: persone che hanno storie e caratteristiche comuni (per cultura o per condizione esistenziale), che ci permettono di parlare di loro come gruppo specifico. In altri casi si tratta di gruppi o categorie di credenti che sono di per sé maggioritari sul piano quantitativo (penso alle donne) o per lo meno rilevanti sul piano dei numeri (e il pensiero va ai bambini), ma che non sono riconosciuti di fatto come soggetti ecclesiali in pienezza. Dietro all’idea di “minoranza”, nel senso inteso in questo dossier, stanno perciò situazioni molto diverse le une dalle altre, accomunate dall’essere oggi nella Chiesa cattolica in condizione di “marginalità”. Si tratta di persone (e gruppi di persone) che, pur godendo di uno status ecclesiale, sul piano formale e sostanziale, analogo a quello degli altri battezzati (cf. Gal 3,28), occupano una posizione che si colloca in un punto esterno o marginale al sistema sociale “Chiesa” e contribuiscono solo parzialmente ai suoi processi partecipativi e costitutivi, al discernimento e alle decisioni, che danno direzione al corpo ecclesiale. Sono componenti “reali” del soggetto ecclesiale, e come tali vengono riconosciuti, ma non sempre sono partecipi di esso in forma attiva; sono portatori di appelli specifici, ma le loro parole non contribuiscono che limitatamente all’orientamento e alla vita dell’insieme.
Di
per sé la Chiesa cattolica non decide secondo criteri di deliberazione
democratica parlamentare, nelle logiche di maggioranza/minoranza, anzi la
tradizione ecclesiale ha sempre riconosciuto – nei processi consultivi – il
valore dell’apporto della sanior pars rispetto alla maior pars. Con
“minoranza” si vuole quindi indicare – con uso analogico – quella parte
del popolo di Dio la cui parola non gode di autorevolezza, la cui presenza e
apporto specifici non sono considerati di fatto “necessari” per
l’edificazione della comunità. Sono coloro che non sono soggetti attivi nei
processi di comunicazione della fede; gli interrogativi e le questioni da loro
Signore,
noi siamo i muti della terra;
coloro che non abbiamo mai avuto il diritto o il coraggio di parlare;
coloro che abbiamo sempre subito la parola degli altri.
Sarà vero, Signore, che la nostra parola è inutile e infeconda?
Io, Signore, sento la vita passare su di me come una violenza continua.
Nel consorzio di quelli che parlano, che decidono, che dicono di vivere,
per me non c’è posto.
[...] Quando, Signore, noi muti, troveremo la forza di urlare al travaglio
che ci portiamo nel cuore da secoli?
La mia preghiera a te, Cristo, non può essere altro che la richiesta di aiuto a
scoprire la mia dignità di uomo frustrata da tutti i poteri, da tutte le istituzioni
compresa quella che doveva farmi conoscere il tuo messaggio di liberazione.
[...] Devo trovare il coraggio di parlare con ogni uomo.
Devo trovare il coraggio di lottare con ogni uomo che crede non solo in te ma
che crede come te in me per far udire la voce di tutti coloro che continuano a
essere muti per paura o per strapotere di alcuni pochi.
La mia parola dopo tanto silenzio è solo questa: ed è anche la mia unica possibile
preghiera a te, la Parola fatta liberazione:
“Basta alla paura, basta alla rassegnazione, basta all’ingiustizia, che ha seminato
il mondo di tanti poveri muti come me”.
Teoria
e prassi
Anche
a rischio di indebite semplificazioni si rileva che, dopo il Vaticano II,
l’esperienza ecclesiale è segnata da una lucida ripresa dell’idea di popolo
di Dio (cfr. Lumen Gentium, II cap.), dal riconoscimento della
soggettualità laicale, da un’ecclesiologia della communio, come pure
da una nuova teologia del ministero ordinato, con un superamento di riduzioni
sacrali del ministero al solo sacerdozio e al solo dato sacramentale; una nuova
visione di Chiesa a fronte però di una forma ecclesiale e di una prassi
pastorale diverse. I processi comunicativi sono ancora spesso unidirezionali
(dal clero ai laici), permane una visione “gerarchizzata” degli stati di
vita: sono fattori che indeboliscono la vitalità del soggetto ecclesiale e
creano marginalità. Se la communio ecclesiale è communio hierarchica
e richiede una differenziazione funzionale, non possiamo prescindere dalla
logica tratteggiata in Dei Verbum 8 e dalle affermazioni su una Traditio
che cresce non solo per l’apporto dei vescovi e dei teologi, ma anche per
quello di ogni cristiano. La presenza di minoranze marginalizzate e di
maggioranze marginali è frutto di una incompiuta recezione di questa visione
ecclesiale, che ha in Dei Verbum 8, Lumen Gentium 12, Gaudium
et spes 16 i suoi capisaldi. La gerarchia (che solo quantitativamente appare
“minoranza”) sembra ricoprire quel ruolo che la sociologia definisce
“classe dominante”: dispone dei mezzi per orientare – da sola – le linee
comuni del corpo sociale, per affermare sul lungo, medio e breve periodo la sua
visione del reale e del bene ecclesiale.
La
gerarchia, nel momento in cui non si fa promotrice di una sinodalità allargata,
sembra non garantire a sufficienza al corpo collettivo, al servizio del quale è
posta, la possibilità di un apporto di tutti i suoi membri, attraverso un
flusso pluridirezionale di informazioni e risorse sociali, che coinvolga tutti.
Il problema è quindi quello della forma di gerarchizzazione e di strutturazione
delle relazioni sociali intraecclesiali. Considerare il modo in cui ci si
rapporta alle minoranze mostra il volto di una Chiesa che ha solo cominciato a
rendere effettiva – sul piano della forma ecclesiale e delle strutture – la
coscienza di sinodalità, che il Vaticano II aveva intuito. È in gioco una
forma di Chiesa che sia profezia nel mondo di un modo “altro” di vivere
l’autorità e il potere. Quella che è in gioco è la fedeltà della Chiesa
alle sue radici, alla pericolosa – perché sovvertitrice – memoria di Gesù,
di colui che ha annunciato la venuta del Regno a coloro che ne erano esclusi
dalla Legge. Ai discepoli che gli chiedevano posti di onore e autorità,
straordinari rispetto agli altri, Gesù ha risposto indicando la via maestra
della signoria di Dio, dove il potere non è “su”, ma “per”, dove il
potere essenziale è quello della liberazione e dell’umanizzazione.