Poveri e flessibili
Invertire
la tendenza che sembra condannare i giovani a prospettive di lavoro e di vita
sempre più incerte e precarie e i lavoratori meno giovani a una costante
erosione del potere d’acquisto dei propri salari e stipendi. È questa una
delle sfide che il Governo insediato da poche settimane sembra avere innanzi.
Non è una sfida da poco dal momento che il tema della precarietà del lavoro si
è affermato in maniera prepotente nel dibattito pubblico, riverberando (sebbene
con un po’ di ritardo) una percezione di insicurezza assai diffusa tra i
giovani italiani e le loro famiglie.E non si tratta di una sfida solo italiana:
se si guarda a com’è cambiato il lavoro in Europa negli ultimi lustri, il
tratto della precarietà appare dominante. Il ciclo iperliberista degli anni
Novanta, infatti, si è caratterizzato per una diffusa e generale convinzione,
mai dimostrata, che disoccupazione e ciclo economico negativo si potessero
combattere solo “flessibilizzando” il più possibile il lavoro e riducendo
il suo costo. Quest’orientamento è stato fatto proprio da molti governi
europei che, lungo tutto il decennio 1980-1990, si sono affrettati a varare
norme che offrissero alle imprese una vasta gamma di tipologie contrattuali (dal
lavoro interinale ai contratti a termine, passando per i contratti di formazione
e le collaborazioni più o meno continuative) tutte caratterizzate da un minor
costo per l’impresa e una maggiore onerosità sociale. Infatti l’apposizione
di un termine ai contratti di lavoro, se da un lato ha alleggerito le imprese da
impegni di lunga durata con i propri lavoratori, dall’altro ha scaricato sui
singoli e sulle loro comunità l’incertezza e il rischio di un mancato rinnovo
contrattuale.
Cosa
accade in Italia
In
Italia questo processo ha visto due tappe fondamentali: la prima, a fine anni
Novanta, con l’introduzione del cosiddetto “Pacchetto Treu”, e la seconda
nel 2003 con l’entrata in vigore della legge 30 promossa del Governo
Berlusconi. Il primo provvedimento, tra le altre cose, ha introdotto il lavoro
interinale nel nostro Paese e ha definito le condizioni e i limiti di utilizzo
del lavoro a termine. La legge 30, varata dallo scorso Governo, ha proseguito
sul solco tracciato dal Pacchetto Treu eliminando le causali per l’utilizzo
del lavoro a termine e introducendo svariate altre tipologie contrattuali, tanto
che oggi si contano, nel nostro ordinamento, più di 40 forme di contratti
utilizzabili dalle imprese, alcune delle quali (come il lavoro ripartito, lo
staff leasing, il lavoro accessorio) sembrano avere più un sapore simbolico di
iperframmentazione del lavoro che una reale utilità: infatti sono pochissime le
aziende che ricorrono a queste tipologie di assunzione. Oggi il ciclo
iperliberista, che ha fortemente promosso flessibilità e frammentazione del
lavoro, sembra vivere, in Europa, una battuta di arresto. Questo sotto la
duplice spinta delle pressioni sociali e della concorrenza dei Paesi emergenti
di fronte alla quale la compressione del costo del lavoro, da sola, non può
bastare (nessun lavoratore europeo può competere sul costo con un lavoratore
cinese o indiano, né questo sarebbe socialmente desiderabile: piuttosto
bisognerebbe promuovere un’armonizzazione verso l’alto di salari e
condizioni di lavoro). Il Governo francese è stato costretto, poche settimane
fa, a fare un passo indietro di fronte alle grandi mobilitazioni studentesche
che hanno contestato l’introduzione del CPE, il contratto di primo impiego
volto a indebolire le tutele del lavoro per i giovani nei primi anni di impiego.
Nello stesso modo il Governo spagnolo di Zapatero ha promosso una legge volta a
limitare l’utilizzo indiscriminato dei contratti a termine (la Spagna è
infatti il Paese europeo con il più alto tasso di questa tipologia di impiego),
prevedendo l’obbligo di assunzione per il lavoratore che abbia lavorato con
contratti “atipici” per 24 mesi su 30.
Oltre
la legge 30
In
Italia, l’attuale coalizione di Governo si è impegnata, in campagna
elettorale, a un “superamento” della legge 30 su almeno due direttrici: la
razionalizzazione e limitazione delle tipologie contrattuali attualmente
presenti, e l’armonizzazione delle aliquote contributive tra i contratti a
tempo indeterminato e i contratti “atipici” (questo al fine di eliminare
l’anomalia che rende più conveniente per le imprese l’utilizzo di lavoro
atipico risparmiando sul futuro previdenziale dei lavoratori così impiegati).
Si tratterebbe di un primo passo verso la direzione giusta, sebbene forse non
ancora sufficiente. La fotografia del lavoro che emerge dall’ultimo Rapporto
dell’Istat, infatti, sembra segnalare problemi assai profondi che
probabilmente richiederebbero una riscrittura e un ripensamento radicale delle
regole su lavoro e formazione. Il dato forse più preoccupante è quello che ci
segnala una mobilità sociale bloccata: negli ultimi anni il livello di
istruzione ha smesso di rappresentare un fattore decisivo di mobilità.
Nonostante l’aumento della quota degli occupati con diploma di istruzione
post-secondaria (dal 9,6% al 14,4% tra 1995 e 2005) soltanto per tre quarti
degli occupati (16,6 milioni di persone) c’è corrispondenza tra titolo di
studio conseguito e professione esercitata. Nella media dell’Europa a 25,
livelli di istruzione più elevati assicurano ai giovani maggiori probabilità
di occupazione e minori rischi di disoccupazione. In Italia, invece, il tasso di
occupazione dei giovani di età tra i 20 e i 29 anni con un livello di
istruzione secondario è pari al 53,3% (tra i più bassi d’Europa), mentre
quello dei giovani laureati si riduce al 50,2% (il più basso in assoluto,
inferiore di oltre 25 punti percentuali a quello medio europeo). Questo dato
segnala un’incapacità del sistema produttivo italiano di impiegare
adeguatamente le professionalità e le competenze prodotte. Il problema è
quindi strutturale: a lungo andare, l’inseguire una competizione giocata sulla
compressione dei costi e sulla flessibilità del lavoro ha fatto scivolare il
sistema produttivo su un sentiero di bassa specializzazione produttiva, di
scarsa innovazione e di poca tecnologia. Fino al punto che i giovani con alta
formazione stentano a essere impiegati per le loro competenze.
Redditi
sempre più bassi
Di
fianco alla mancata mobilità sociale (è la prima volta dal dopoguerra che le
giovani generazioni registrano un’aspettativa di crescita sociale ed economica
inferiore rispetto ai propri padri), l’altro dato preoccupante (strettamente
connesso alla precarietà del lavoro) è l’erosione di redditi e salari.
Sempre secondo l’Istat, oggi in Italia ci sono oltre 4 milioni di lavoratori a
basso reddito (al di sotto dei 700 euro mensili), di cui circa 1,5 vive in
famiglie in condizioni di disagio economico. Si tratta in prevalenza di giovani
con redditi da lavoro autonomo; ma bassi redditi da lavoro sono anche presenti
tra i dipendenti con orari standard e a tempo determinato. Nel lavoro
“atipico” si registrano le maggiori concentrazioni di lavoratori
sottoinquadrati e di redditi bassi. Il 43,8% degli occupati a termine, il 34,5%
di quelli in part time e il 31,1% dei lavoratori con rapporti di collaborazione
è impiegato in lavori poco qualificati. Per i giovani fino a 34 anni
l’incidenza dei lavoratori sottoinquadrati nell’occupazione a termine
raggiunge il 47,4%.Possedere un diploma o una laurea non modifica le possibilità
di trovare un lavoro a termine adeguato al titolo di studio. Viceversa, per i
contratti di collaborazione il 45,5% dei laureati svolge un lavoro poco
qualificato, mentre ciò è vero solo per il 22,0% dei diplomati. Questi dati ci
suggeriscono che, insieme a una riscrittura delle norme sul lavoro, l’attuale
Governo ha di fronte a sé la sfida del ripensamento di un sistema di Welfare
veramente inclusivo. E tutto ciò mentre si tratta di ricondurre il Paese su un
sentiero “alto” di sviluppo, dove l’innovazione si possa sostituire alla
compressione del costo del lavoro come fattore di crescita.