Liberi di reprimere
Se
dovessimo cercare un’immagine metaforica per sintetizzare i contenuti più
importanti del Rapporto Annuale di Amnesty International, sarebbe sicuramente
quella di un bicchiere riempito a metà. Nel corso del 2005 ci sono stati
importanti sviluppi nel campo della tutela dei diritti umani che lasciano ben
sperare per il futuro, e questa è la parte di bicchiere che è stato riempito.
Tanto, tantissimo rimane da fare per sanare situazioni inaccettabili, e questa
è la parte di un bicchiere scandalosamente mezzo vuoto. Per la prima volta
dall’11 settembre 2001 e dalla successiva offensiva nei confronti dei diritti
umani, i protagonisti della cosiddetta “guerra al terrore” si sono visti
costretti a restare sulla difensiva; in più casi, le istituzioni dei Paesi i
cui governi si sono distinti nel palese tentativo di erosione del sistema di
protezione dei diritti umani, hanno preso posizioni forti nella direzione
opposta; alcuni organismi internazionali si sono pronunciati in maniera chiara e
inequivocabile così come l’opinione pubblica ha iniziato a mettere in dubbio
l’efficacia e l’impatto delle strategie antiterrorismo. Il Governo Blair ha
conosciuto le sue prime sconfitte in Parlamento, dopo nove anni, proprio sulla
legislazione antiterrorismo. La Camera dei Lord ha bocciato il progetto di legge
del Governo che avrebbe reso ammissibili le prove estorte con la tortura e altri
organi di giustizia britannici hanno dichiarato illegale la detenzione senza
accusa né processo di cittadini stranieri. Queste novità, se da un lato
mostrano quanta strada si sia percorsa a ritroso rispetto a quanto realizzato
nei decenni precedenti, danno anche una chiara indicazione su quanto
l’intervento delle istituzioni e la sensibilizzazione della società civile
possano essere determinanti nel fermare questo processo di smantellamento del
sistema internazionale di protezione dei diritti umani. Speculare la situazione
negli Stati Uniti, dove il Congresso ha intrapreso un vero e proprio braccio di
ferro con l’amministrazione Bush sulla legittimità o meno dell’utilizzo, da
parte del personale americano, di trattamenti crudeli, inumani o degradanti nei
confronti di cittadini stranieri accusati o sospettati di attività
terroristiche.
Buchi
neri
I
nomi che sono diventati i simboli della cancellazione dello stato di diritto li
conosciamo bene: Guantánamo, Abu Ghraib, Bagram. Accanto a questi ve ne sono
altri che non conosciamo, sono quelli che rientrano nella denominazione di
“buchi neri”, i “black sites”, luoghi di detenzione segreta situati
presumibilmente in alcuni Paesi dell’Asia Centrale e dell’Europa Orientale.
In questo quadro, l’Europa è stata colpevolmente assente, rendendosi spesso
anche complice di questi abusi. Nel corso del 2005 è emerso il tema delle “rendition”,
i trasferimenti illegali e al di fuori di ogni controllo giudiziario di persone
sospettate di terrorismo, verso Paesi terzi quali Yemen, Arabia Saudita, Egitto,
Siria, noti per le torture che si praticano nelle loro carceri. Difficile
credere che a fronte di ciascuno di questi trasferimenti siano state fornite
garanzie riguardanti il rispetto dei diritti umani da parte di chi ha preso in
consegna i detenuti. Amnesty International ha documentato più di 1.600 voli
organizzati dalla CIA, molti dei quali hanno utilizzato lo spazio aereo e scali
europei, ricorrendo a compagnie aeree private, a volte esistenti solo sulla
carta, in modo da eludere eventuali richieste e controlli sulle destinazioni e
su chi si trovasse a bordo. Impossibile dare cifre precise su quanti detenuti
siano stati trasferiti con queste modalità, ma in base alle ammissioni di
alcuni governi e di funzionari statunitensi si tende a quantificare il numero di
prigionieri “consegnati” in diverse centinaia. Non si tratta soltanto di
trasferimenti illegali ma di arresti arbitrari, detenzione a tempo indeterminato
senza accusa né processo, mancanza di assistenza legale, tortura e
maltrattamenti, condizioni di detenzione inadeguate, “sparizioni”. Qualcosa
però si sta muovendo: le indagini del Consiglio d’Europa e del Parlamento
Europeo sul coinvolgimento dei Paesi europei nelle “rendition”, la condanna
delle Nazioni Unite alle modalità di detenzione nel carcere di Guantánamo e la
esplicita richiesta di chiuderlo, l’emissione di 22 mandati di cattura nei
confronti di agenti della CIA coinvolti nel sequestro, avvenuto a Milano e nella
successiva sparizione di Abu Omar evidenziano i dubbi sempre più diffusi
sull’impatto delle strategie antiterrorismo.
Dubbi
ci sono anche sulla loro efficacia: secondo il rapporto annuale del Dipartimento
di Stato Usa sul terrorismo internazionale, nel 2005 ci sono stati 11.000
attentati terroristici nel mondo, che hanno causato oltre 14.600 vittime, delle
quali 8.300 in Iraq. Oggi il mondo non è certamente più sicuro dalle minacce
di gruppi armati che colpiscono deliberatamente la popolazione civile in una
sequela di attentati che ha insanguinato diversi Paesi. Il fallimento di questa
strategia oggi è forse più evidente nei due Paesi: l’Iraq, affogato in un
vortice di violenza settaria, e l’Afghanistan, dove povertà, illegalità e
insicurezza hanno continuato ad affliggere le vite di milioni di persone. I
governi, da soli e collettivamente, hanno paralizzato le istituzioni
internazionali, dilapidato risorse pubbliche per perseguire obiettivi di
sicurezza limitati e di corto respiro, sacrificato valori in nome della
“guerra al terrore” e chiuso gli occhi di fronte a violazioni dei diritti
umani su scala massiccia. Ne è diretta conseguenza la perdita di autorevolezza
della comunità internazionale che si trova a essere sempre più inefficace
nell’affrontare crisi umanitarie. Così come è avvenuto nel Darfur, dove la
flebile azione delle Nazioni Unite e dell’Unione Africana si sono dimostrate
pateticamente inadeguate rispetto a quanto sarebbe occorso fare, consentendo la
prosecuzione delle atrocità nei confronti della popolazione civile, con altre
migliaia di morti e milioni di persone costrette ad abbandonare le proprie case
e i propri villaggi, o in conflitti sempre più dimenticati come quelli in Costa
D’Avorio, Cecenia, Uganda o Colombia.
Contemporaneamente
la grave situazione in Israele e nei Territori Occupati è scomparsa
dall’agenda internazionale: un conflitto che non sembra avere vincitori, ma
solo vittime. Da una parte un popolo che vive costantemente con la minaccia di
attentati indiscriminati e vede ancora oggi la legittimità del proprio stato
messa in discussione da dichiarazioni vergognose come quelle del presidente
iraniano Ahmadinejad; sul fronte opposto un altro popolo che vede negati i più
elementari diritti, sottoposto ad abusi e umiliazioni, che sta pagando un prezzo
inaccettabile non solo in vite umane ma anche in termini di qualità della vita
e della possibilità di migliorare il proprio futuro. Oltre a essere uno
schiaffo per il sistema di protezione dei diritti umani, le modalità di
gestione della lotta al terrorismo hanno un “effetto domino” su molti altri
Paesi, che trovano legittimazione nella loro opera di “pulizia interna”. Il
caso forse più eclatante e drammatico è quello dell’Uzbekistan: nella notte
del 13 maggio 2005 le forze di sicurezza hanno aperto il fuoco sulla folla che
protestava contro il Governo del presidente Karimov nella città di Andijan,
nella valle di Fergana. Centinaia di persone sono state uccise, centinaia sono
state arrestate e molte altre sono state costrette a fuggire nel vicino
Kirghizistan, con il rischio di venire rimandate indietro. I pochi testimoni
oculari che hanno osato sfidare la “versione ufficiale” su quanto accaduto
ad Andijan, sono stati condannati a lunghe pene detentive.
Accanto
a tutte queste ci sono poi le storie di “ordinaria repressione”, della
soppressione del dissenso, della libertà di espressione, di associazione e di
religione, delle minoranze etniche o linguistiche, dei difensori dei diritti
umani, di persone con orientamenti sessuali non accettati. Sempre più spesso
nel mondo, una persona viene presa di mira per la sua identità, per ciò che è
e non per ciò che ha fatto o si sospetta abbia fatto. Questo accade anche in
Italia, come dimostra la sequela di violazioni dei diritti umani ai danni di
migranti e richiedenti asilo nel nostro Paese. Chi denuncia le violazioni dei
diritti umani e chi si batte per la loro tutela subisce la rappresaglia del
Governo. In Cina la repressione si caratterizza sempre di più nel colpire i
difensori dei diritti umani: sindacalisti, contadini che protestano per
l’esproprio delle loro terre, per la corruzione o per le tasse troppo pesanti
che vengono loro imposte e gli avvocati che li difendono, diseredati che
rimangono esclusi dal miracolo economico cinese. Ma la vera nuova frontiera
della repressione in Cina è internet.Particolarmente inquietante è la
collaborazione che le autorità cinesi ricevono da aziende occidentali: Yahoo,
Google e Microsoft hanno adattato i loro prodotti al mercato cinese impedendo di
accedere a siti non graditi alle autorità attraverso i loro portali e ai loro
motori di ricerca. Eclatante il caso del giornalista Shi Tao, condannato a 10
anni di reclusione in aprile per aver diffuso una direttiva del Partito
Comunista via e-mail: stando agli atti processuali, Yahoo avrebbe fornito alle
autorità cinesi informazioni sul possessore dell’account.
Il
Rapporto Annuale 2006 presenta uno scenario pressoché immutato di continue
violazioni dei diritti umani drammaticamente uguale a se stesso da anni. Nelle
carceri della Siria, dell’Iran, di Cuba, del Myanmar, dell’Eritrea, del
Sudan, della Corea del Nord, della Tunisia e di molti altri Paesi, si trovano
dissidenti, giornalisti, difensori dei diritti umani, spesso incarcerati solo
per aver pacificamente espresso le loro opinioni, imprigionati con lo scopo di
metterli a tacere. Sono le tante persone alle quali Amnesty dà e continuerà a
dare la propria voce, e per le quali le attività dell’associazione continuano
a rappresentare la speranza.