Dov'è la parresia?
Ritorno
in Europa, precisamente in Italia, e respiro gli echi degli ultimi avvenimenti
politici. Un gioco sottile di ombre e di luci. Ancora una volta un Paese salvato
da una strana tradizione democratica. Ma certamente questa democrazia ha colori
molto pallidi, deboli; i suoi movimenti e i suoi gesti sono confusi. Non
sappiamo se ciò che la rende indecisa è il suo essere troppo attaccata a un
passato, a una “tradizione”, a ideologie e modelli già prestabiliti,
togliendole tutta la voglia di ripensarsi e di riprovare, in altro modo,
cercando nuovi protagonisti. Forse qualcuno, profondamente deluso, pensa a
questa tradizione democratica come al “meno peggio” o come al “male
minore”. Forse qualcuno la segue, ma con un lamento nel cuore che noi potremmo
identificare con il lamento degli esiliati biblici: “Non abbiamo più
principi, né profeti, né capi; né olocausti, né sacrifici, né offerte, né
incenso, né un luogo dove poterti offrire le primizie e ricevere la tua
misericordia” (Dn 3,38). Una certa delusione: nostalgia di ispirazioni, di
profeti, di spazi. Altri, invece, lanciano anatemi e risvegliano vecchi
fantasmi, perché tutti si spaventino, senza rendersi conto che questi fantasmi
non esistono più da tempo, e che, più che fantasmi, si tratta delle loro
stesse ombre.
Cammini
alternativi
I
cittadini comuni continuano a essere spettatori annoiati, anche perché devono
vedere sempre le stesse facce, oltre che ascoltare gli stessi toni di voce, le
stesse parole e le stesse idee. Nasce allora una domanda: è ancora possibile
cambiare? O forse abbiamo diviso per sempre la vita quotidiana da quella
istituzionale, la fede dal sogno, l’arte politica dalla creatività poetica di
donne e uomini liberi? Tutto si muove in uno strano equilibrio e questo sembra
bastarci; anche se a volte malediciamo l’individualismo postmoderno, in realtà
appena possiamo ci rifugiamo in questo spazio privato che ci garantisce una
certa sopravvivenza. Anche la fede cerca i suoi spazi privati per non essere
disturbata, o per lasciare tutto in mano ai suoi rappresentanti gerarchicamente
più autorevoli e garanti della proprietà privata e dei suoi illimitati
diritti. La parola a rischio ancora una volta soggiace, o forse grida nelle
piazze e agli angoli delle strade, arrangiandosi come può. A questo punto ci
facciamo un’altra domanda: è inevitabile, per donne e uomini credenti,
pensare il mondo dividendolo in due: buoni e cattivi? Non esisteranno cammini
alternativi senza portarci a scappare dal mondo?
Alla
ricerca di un mondo adulto
Mi
ritornano in mente le parole di Dietrich Bonhoeffer: “La comunità la formano
i figli della terra che non la isolano, che non hanno progetti speciali per
migliorare il mondo, che non sono nemmeno migliori del mondo, ma che perseverano
nel centro, nella profondità, nella monotonia e nella prostrazione del
mondo”. Forse Bonhoeffer, quando scrive questi pensieri, pensa a quel mondo
che lui stesso chiamava e riconosceva come adulto, mentre noi in questo momento,
per differenti motivi, sentiamo che coloro che ufficialmente pensano la storia
politica, sociale ed economica, non rispecchiano questa maturità. Lo stesso
potremmo dire degli atteggiamenti della comunità credente che rivelano il vuoto
e l’assenza di un sogno, mentre lasciano che la fede appaia come un miraggio o
semplicemente un “rifugio”. Il modello biblico, molto eloquente, di un
popolo in costante ricerca di liberazione, sembra essere rimasto paralizzato,
aspettando altri tempi, oltre ad aspettare profeti e messia che lo rendano
attuale. La ricerca di una città dove abitare – come canta il Salmo 107 –
si è svuotata di tutto il suo contenuto più storico. Il nomadismo postmoderno,
anche se molto eloquente, non riesce a risvegliarci.
Così
il Salmo 107 risuona – nella maggioranza delle nostre assemblee religiose –
come il sogno dicotomico che esalta la città divina, della teologia agostiniana
e pensa alla “città terrena” come un inevitabile luogo di rifugiati, che
hanno solo il diritto a essere assistiti, perché anche qui, come nelle loro
terre, continuano a essere poveri e stranieri, mentre i cittadini ufficiali e
“nativi” delle città terrene, si possono permettere di discutere ancora gli
stessi temi di prima, per riequilibrare la loro precaria abbondanza economica e
fare, ancora una volta, della politica un solo gioco di forza e il centro del
mercato. Così che, per i credenti, ancora una volta, la separazione tra le due
realtà: quella terrena e quella celeste, storia e meta-storia, sembra
riconfermarsi e mantenersi immobile. Ormai siamo già abituati: i processi
storico-politici quasi sempre si realizzano ai margini dell’anelito della fede
e del sogno. In nome di ideologie sconfitte, o di modelli politici decaduti che
identifichiamo ancora con la caduta di un muro... la fede non sembra
sintonizzare molto con i sogni umani che si creano più o meno coscientemente,
lungo il cammino della gente. In alcuni casi, quando le Chiese si sentono
toccate o coinvolte più da vicino, la fede riappare ma semplicemente come
criterio di giudizio etico, o come semplice rivendicazione di ambigui privilegi,
come se solo la religione fosse l’unico spazio con il diritto e il desiderio
di custodire la vita nei suoi più segreti movimenti e aneliti. Mentre
l’ambito socio-politico continua a essere oggetto di sospetto, la sua
vulnerabilità e i suoi limiti non attraggono i nostri sguardi e nemmeno i
nostri sogni; con esso già non siamo più esigenti. Ancora una volta lo spazio
e la vita si rompe tra pubblico e privato, e noi lasciamo che la fede giochi
silenziosamente nelle sfere più private.
Accompagnare
il sogno
Nella
Poi
c’è la A di “Audacia”, che non significa spericolatezza, temerarietà, ma
parresia, cioè libertà, franchezza di parola, capacità propositiva di dire le
cose, proprio nel nome del Vangelo. Non significa ovattare il Vangelo, metterlo
nel “cellophane”, edulcorarlo, annacquarlo al punto tale che non dice più
nulla di nuovo. [...] C’è
un’espressione molto bella negli atti degli Apostoli, là dove si dice così:
“Pietro andò, si alzò in piedi, insieme con gli undici e parlò ad alta
voce”. Questa è la parresia: alzarsi in piedi, avere il coraggio di parlare,
insieme con gli altri, non come battitori liberi, non come frombolieri
d’assalto che vanno avanti, ognuno per conto proprio. Il coraggio consiste
soprattutto nel coinvolgere gli altri a parlare, come gruppo, come associazione,
come Chiesa, come diocesi, come parrocchia.Don
Tonino Bello