La costituzione che ha "fatto gli italiani"
I –Genesi della Costituzione nella II Guerra Mondiale
Mi
si consenta una premessa che – in proporzione alla durata complessiva del mio
intervento – non sarà breve.
Mi
domando: donde è nata la Costituzione italiana entrata in vigore il 1 gennaio
1948? Qual è la sua radice più profonda?
Alcuni
pensano che la Costituzione sia un fiore pungente nato quasi per caso da un
arido terreno di sbandamenti post-bellici e da risentimenti faziosi volti al
passato.
Altri
pensano che essa nasca da un'ideologia antifascista di fatto coltivata da certe
minoranze, che avevano vissuto soprattutto da esuli gli anni del fascismo.
Altri
ancora – come non pochi dei suoi attuali sostenitori – si richiamano alla
Resistenza, con cui l'Italia può avere ritrovato il suo onore e in certo modo
si è omologata a una certa cultura internazionale.
E
così si potrebbe continuare a lungo nella rassegna delle opinioni o sbagliate o
insufficienti.
In
realtà la Costituzione italiana è nata ed è stata ispirata – come e più di
altre pochissime Costituzioni – da un grande fatto globale, cioè i sei anni
della seconda guerra mondiale.
Questo
fatto emergente della storia del XX secolo va considerato, rispetto alla
Costituzione, in tutte le sue componenti oggettive e al di là di ogni
contrapposizione di soggetti, di parti, di schieramenti, come un evento enorme
che nessun uomo che oggi vive o anche solo che nasca oggi, può e potrà
accantonare o potrà attenuarne le dimensioni, qualunque idea se ne faccia e con
qualunque animo lo scruti.
Che
cosa è stata la seconda guerra mondiale?
Scusate
se richiamo dati elementarissimi, che sono o dovrebbero essere presenti a tutti.
La seconda guerra mondiale è stata anzitutto, sul piano oggettivo e fisico –
di fronte ai nove milioni di morti della "grande guerra" (1914-1918)
–, ben più di cinquantacinque milioni di uccisi da azioni belliche; e ha
segnato un coinvolgimento mai visto delle popolazioni civili, massacrate dai
bombardamenti aerei (si pensi che il solo bombardamento di Dresda fece più di
100.000 vittime!) oppure deportate in massa, oppure esposte continuamente al
rischio dei rastrellamenti e delle rappresaglie.
Inoltre,
sempre sul piano oggettivo, la seconda guerra mondiale ha portato a un mutamento
mai verificatosi nella mappa del mondo: in Europa, in Asia, in Africa. Anzitutto
ha avviato il deciso declino delle tradizionali grandi potenze europee e anche
dell'Europa nel suo complesso; e ha dato vita a due blocchi mondiali
contrapposti guidati, con ideologie antitetiche e con schieramenti militarmente
paurosi, dalle due nuove superpotenze. E parallelamente essa ha portato al
rivelarsi della debolezza intrinseca e della insostenibilità morale dei grandi
imperi coloniali, e perciò ha dato l'impulso decisivo a una quasi totale
decolonizzazione, e alla conquista progressiva dell'autonomia di molti paesi
nuovi in Africa e in Asia, e per contro al simultaneo affacciarsi di due vecchie
entità in passato apparse dormienti ed ora avviate a rivelarsi come
protagonisti mondiali, cioè la Cina e l'India, con un totale di due miliardi di
soggetti.
E
ancora, sul piano delle idee, la seconda guerra mondiale è stata la sconfitta
di tutta la cultura romantica e di molti dei suoi derivati, e per contro
l'affermazione, in larga parte dell'umanità, del "marxismo
realizzato".
Come
pure è stata l'inizio e il progresso di costumi e di modi di vita, individuali
e collettivi, radicalmente mutati, assai più di quanto non sia avvenuto in
proporzione con la "grande guerra"; costumi e modi di vita permeanti
ovunque, dalle metropoli ai villaggi, dall'America all'Africa e all'Asia, in
conseguenza dei nuovi mezzi di comunicazione sociale, la televisione
soprattutto.
E
infine la seconda guerra mondiale è stata l'eccezionale incremento di nuove
tecnologie e quindi l'inizio di un balzo incommensurabile negli oggetti, nella
intensità e nelle forme della produzione industriale, con complesse, sempre più
complesse conseguenze nella trama e nell'ordito dell'economia e della finanza
delle nazioni e in quelle internazionali.
Ma
correlativamente non sono mancate anche novità decisive che la seconda guerra
mondiale ha implicato o avviato sul piano delle grandi religioni: anzitutto, con
un fatto ancora di incalcolabile importanza, spalancando la strada al
"sionismo realizzato" e al ritorno di milioni di ebrei alla terra dei
padri e alla loro lingua e cultura; e, ancora, innestando nuovi fermenti critici
e dinamici nel cristianesimo; e, infine, determinando, con certe premesse
economiche (petrolio) e sociali e nuove ideologie, il risveglio dei popoli arabi
e il conseguente rialzarsi mondiale dell'Islam.
Infine,
proprio sulla soglia del suo termine, la seconda guerra mondiale ha lasciato in
eredità al futuro due oggetti che hanno condizionato l'ultimo mezzo secolo e
che ancora condizioneranno gli anni a venire: cioè il V2, il missile lanciato
sull'Inghilterra a partire dal settembre 1944, costruito dal giovanissimo
ingegnere Wernher von Braun (che alla fine della guerra si consegnò agli
americani e che concorse in modo decisivo alla costruzione dei missili
intercontinentali e del missile Saturno che consentì lo sbarco sulla luna); e
l'altro: la bomba atomica, esplosa per la prima volta a Hiroshima il 6 agosto
1945. La congiunzione di questi due oggetti ha tenuto il mondo sotto
l'equilibrio del terrore.
Tutte
queste cose, se pure in diverse proporzioni di sviluppo, sono comprese o almeno
sono iniziate tra il 2 settembre 1939 (invasione tedesca della Polonia) e il 2
settembre 1945, cioè quando – dopo i due roghi atomici di Hiroshima e di
Nagasaki – il Giappone accettò la resa senza condizioni agli americani, e la
guerra ebbe allora davvero termine. In questo enorme evento globale sono incluse
anche le conseguenze che esso ha provocato per l'Italia: più di 400.000 morti
tra militari e civili; stragi e deportazioni senza limiti; incalcolabili
distruzioni e rovine (nel 1945 la produzione industriale era ridotta al 30% di
quella del 1938; la produzione cerealicola a 41 milioni di quintali di fronte
agli 81 milioni del 1938); l'inflazione era salita spaventosamente (da 22
miliardi di lire circolanti nel 1938 a 319 miliardi nel '45, che arrivarono nel
'49 a 869 miliardi); e ancora, e soprattutto, l'aggravarsi culturale ed
etico-sociale, oltre che economico-politico, dello squilibrio tra il sud
(occupato dagli alleati) e il nord (occupato per quasi due anni dai tedeschi); e
infine la distruzione di ogni tessuto e istituzione civile e politica. Ma
queste, che furono le conseguenze per noi italiani, vanno incluse nell'evento
"seconda guerra mondiale": e non dovevano essere, nel 1945, e non
possono neppure oggi essere considerate a parte, ma vanno inquadrate e
potenziate dalla considerazione dell'evento mondiale in cui sono
inseparabilmente iscritte.
II – L'animus dei Costituenti
E
di diritto e di fatto questo evento mondiale fu ben presente, sin dagli inizi,
ai lavori precostituenti e costituenti.
I
lavori preparatori guidati dal Ministero della Costituente (ministro Nenni) non
potevano non risentire di questa atmosfera globale: in particolare, nella
cosiddetta Commissione Forti sulla Riorganizzazione dello Stato, insediatasi il
21 novembre 1945, cioè a pochissimi mesi dalla fine della guerra e dal suo
ultimo episodio, le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki. I lavori della
Commissione Forti non rimasero chiusi e sigillati nel Ministero della
Costituente, ma ne fu dato regolarmente conto in un apposito bollettino di
informazione, cosa che ci si augurerebbe ancora oggi per la cosiddetta
Commissione Speroni.
Perciò
il clima della Commissione Forti, almeno nelle sue idee essenziali, non poteva
non trasmettersi all'Assemblea Costituente eletta a un semestre di distanza (il
2 giugno 1946) che, con il contemporaneo referendum istituzionale, metteva fine
alla monarchia e dava inizio alla repubblica.
Anche
il più sprovveduto o il più ideologizzato dei costituenti non poteva non
sentire alle sue spalle l'evento globale della guerra testè finita. Non poteva,
anche che lo avesse cercato di proposito in ogni modo, dimenticare le decine di
milioni di morti, i mutamenti radicali della mappa del mondo, la trasformazione
quasi totale dei costumi di vita, il tramonto delle grandi culture europee,
l'affermarsi del marxismo in varie regioni del mondo, i fermenti reali di novità
in campo religioso, la necessità impellente della ricostruzione economica e
sociale all'interno e tra le nazioni, l'urgere di una nuova solidarietà e
l'aspirazione al bando della guerra.
Quindi
l'acuirsi delle ideologie appena ritrovate e l'asprezza dei contrasti politici
tra i partiti appena rinati, e lo stesso nuovo fervore orgoglioso determinato
dalla coscienza resistenziale non potevano non inquadrarsi, in certo modo, in più
vasti orizzonti, al di là di quello puramente paesano, e non poteva non
inserirsi anche in una nuova realtà storica globale a scala mondiale.
Insomma,
voglio dire che nel 1946 certi eventi di proporzioni immani erano ancora troppo
presenti alla coscienza esperienziale per non vincere, almeno in sensibile
misura, sulle concezioni di parte e le esplicitazioni, anche quelle cruente,
delle ideologie contrapposte e per non spingere in qualche modo tutti a cercare,
in fondo, ai di là di ogni interesse e strategia particolare, un consenso
comune, moderato ed equo.
Perciò,
la Costituzione italiana del 1948 si può ben dire nata da questo crogiuolo
ardente e universale, più che dalle stesse vicende italiane del fascismo e del
post-fascismo: più che dal confronto-scontro di tre ideologie datate, essa
porta l'impronta di uno spirito universale e in certo modo transtemporale.
È
qui il luogo di ricordare che questa base di largo consenso – nonostante i
dibattiti assai vivaci lungo il corso di tutti i lavori e gli antagonismi che
dividevano allora il paese – portò a una votazione finale del testo della
Costituzione che raggiunse quasi il 90% dei componenti dell'Assemblea
costituente.
Non
solo emblematicamente ma effettivamente la triplice firma apposta alla sua
promulgazione il 27 dicembre 1947 sta a significare in modo causativo la
coscienza unitaria dalla quale nasce: la firma di Enrico De Nicola, capo
provvisorio dello Stato, erede della tradizione liberale; la firma di Umberto
Terracini, presidente dell'Assemblea Costituente e fondatore, con Gramsci e
Togliatti, del Partito Comunista Italiano; e la firma di Alcide De Gasperi,
presidente del Consiglio e già primo successore di Sturzo alla segreteria del
Partito Popolare.
III
– La
Costituzione, legge prima e suprema
Le
premesse fatte erano necessarie per ben comprendere e motivare il carattere,
spettante alla nostra Costituzione, di legge prima e suprema di tutto
l'ordinamento repubblicano, dal 1948 in poi. Questo carattere è a un tempo:
-
estrinseco, cioè relativo alle circostanze eccezionali che hanno maturato e
fatto adottare la nostra Carta fondamentale, circostanze ben difficilmente
riproducibili o equiparabili a qualunque altro evento-matrice della nostra
storia;
-
e insieme intrinseco alle disposizioni che la compongono, particolarmente, ma
non solo, quelle della prima parte, che concerne le garanzie dei diritti
fondamentali di ogni cittadino.
Questo
carattere di legge superiore è rafforzato dalla speciale disposizione (art.138)
che ne assicura (come si dice) la rigidità. Rigidità che non vuol dire
immodificabilità assoluta, ma che è una modificabilità speciale, cioè
ottenibile solo con un procedimento tutto particolare, rafforzato rispetto al
procedimento richiesto per qualunque altra legge o deliberazione degli organi
dello Stato.
Per
essere ancora più concreti e più espliciti, si può convenire sulla opportunità,
oggi, di certe modifiche nelle funzioni e nella struttura delle Camere, nel
rafforzamento della figura del Presidente del Consiglio nei confronti dei
partiti e dei singoli ministri, nell'ampliamento anche forte dei poteri delle
regioni ecc.
Ma
è importantissimo essere ben chiari sul principio rigoroso che tali modifiche
non possono avvenire altro che con la piena osservanza della procedura legittima
prescritta dall'art. 138.
E
questo tanto più va detto e ribadito perché la cultura superficiale e facilona
che si è andata formando negli ultimi anni sta perdendo questa coscienza e
tende pian piano ad ammettere, almeno implicitamente o surrettiziamente, uno
snervamento di principio (cioè indipendentemente, ripeto, dalle possibili e
opportune riforme attuabili con l'iter prescritto), snervamento che
implicherebbe ulteriori gravi affievolimenti di tutto il nostro ordinamento
giuridico e sociale: con le ovvie conseguenze di una labilità generale dei
diritti e dei doveri personali e comunitari, e di uno sviamento aggravato della
coscienza etica collettiva.
IV
– I principi
fondamentali della Carta Costituzionale
Ed
ora possiamo passare in rassegna alcuni principi fondanti della nostra Carta,
che sono espressione del grande evento in cui essa si radica e che sono tuttora
adeguati ai bisogni e ai caratteri della nostra società di oggi e a quelli che
si intravedono per il futuro.
1)
Primo principio: quello della unità e indivisibilità del popolo italiano, e
per conseguenza della sua espressione statuale, cioè della Repubblica Italiana
(artt. 1 e 5).
Nel
momento costituente, non erano ignote spinte tendenzialmente secessionistiche:
non solo di qualche minoranza etnica al confine settentrionale od orientale, ma
anche di una grande regione dell'estremo sud.
L'indipendentismo
siciliano aveva anzi una sua rappresentanza all'Assemblea Costituente.
Perciò
fu quella un'occasione per prendere coscienza approfondita delle cause storiche,
remote e recenti, e delle motivazioni in atto, sul piano sociale e politico, di
queste tendenze secessioniste. E fu anzi l'occasione di incominciare, per quel
che vi poteva essere di giusto, a dare loro soddisfazione, provvedendo con gli
statuti regionali speciali, che ne soddisfacevano le esigenze più vere, ma a un
tempo ribadivano con ben meditata e pacata fermezza e con rinnovate motivazioni
l'unità e indivisibilità di tutto il popolo italiano.
Di
fatto il nostro popolo era uscito dalla seconda guerra mondiale,
dall'occupazione straniera, dalla prolungata divisione in due tronconi e dalla
Resistenza, era uscito, dico, cementato – al di là di tutti i problemi e gli
squilibri vecchi e nuovi – e più consapevole della sua fondamentale coesione
nazionale, etnica e culturale e sociopolitica.
A
questa fondamentale unità, nelle intenzioni dei Costituenti e nel dettato della
Costituzione, non si oppone – anzi si potrebbe dire che la convalida e la
rende più piena e più ricca – il riconoscimento e ancor più il
promuovimento delle autonomie locali (art. 5 e 114ss). (Anche se poi occorre
soggiungere subito che questa parte della Costituzione ha trovato di fatto
lenta, faticosa e ancora incompleta attuazione da parte del nostro legislatore).
Ma
insieme occorre riconfermare in questa sede quanto ha scritto Giorgio Napolitano
su "La Repubblica" del 13 maggio 1994, e cioè che "il discorso
del federalismo va collocato all'interno del principio dell'unità e
indivisibilità della Repubblica: questo infatti è uno dei principi
costituzionali che non solo da parte delle sinistre, ma da nessuna parte non si
possono mettere in gioco".
2)
Il principio personalistico: garantito per tutti i cittadini. In ognuno la
Costituzione riconosce il valore insopprimibile e inviolabile della persona
umana, e quindi della pari dignità sociale ed eguaglianza davanti alla legge,
senza nessuna distinzione di sesso, di lingua, di religione, di opinioni
politiche, di posizioni personali e sociali (art.3).
Da
questo principio supremo la Costituzione deriva, prima di tutto, il diritto al
lavoro (e perciò appunto la Repubblica è detta fondata sul lavoro, art. 1), e
tutti gli altri diritti civili: libertà personale, inviolabilità del
domicilio, libertà e segretezza della corrispondenza, libertà di circolazione
e di soggiorno, libertà di riunione, di associazione, di professione religiosa,
di propaganda e di culto, di pensiero, di stampa (tit. I).
Al
medesimo principio si riconnettono anche tutti i rapporti sociali e le relative
libertà (tit. II, e in particolare il diritto alla famiglia e alla salute e
alla scuola), e i rapporti economici (tit. III, e in particolare la libertà
sindacale e la libertà di sciopero).
Tale
garanzia costituzionale dei diritti civili, sociali, economici, politici è
concepita dalla nostra legge fondamentale non come un riconoscimento statico, ma
come una realtà dinamica, in via di sviluppo, cioè i diritti fondamentali
devono essere assicurati dalla Repubblica:
-
in modo negativo, rimovendo gli ostacoli di ordine economico-sociale che possono
ridurre di fatto la libertà e l'eguaglianza;
-
in modo positivo, favorendo il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva
partecipazione di tutti ai vari livelli della vita del paese (artt. 3 e 4).
Di
più, si deve aggiungere che per non pochi di questi diritti e libertà, secondo
l'opinione oggi del tutto prevalente tra i costituzionalisti (meno una piccola
minoranza), non si può dare rivedibilità costituzionale restrittiva, neppure
nella forma prescritta dall'art. 138. Può essere messa in dubbio solo la
delimitazione delle disposizioni sottratte alla rivedibilità costituzionale, ma
la immodificabilità assoluta è stata riaffermata da varie sentenze della
Corte.
Prima
di tutto affermando, a proposito dell'art.7 (che introduce il riconoscimento dei
Patti Lateranensi), che questi patti non potessero comunque violare le libertà
fondamentali e i principi supremi della Costituzione.
Poi,
a proposito dell'art. 11, riaffermando lo stesso concetto a proposito
dell'ordinamento comunitario europeo.
Infine,
nella sentenza n. 1146/1988, la Corte ha affermato che "la Costituzione
italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o
modificati nel loro contenuto essenziale, neppure da leggi di revisione
costituzionale o da altre leggi costituzionali. Tali sono tanto i principi che
la stessa Costituzione esplicitamente prevede come limiti assoluti al potere di
revisione costituzionale, quali la forma repubblicana (art. 139), quanto i
principi che, pur non essendo espressamente menzionati fra quelli non
assoggettabili al procedimento di revisione costituzionale, appartengono
all'essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione(...). Non si
può pertanto negare che questa corte sia competente a giudicare sulla conformità
delle leggi di revisione costituzionale e delle altre leggi costituzionali,
anche nei confronti dei principi supremi dell'ordinamento costituzionale".
E
un'altra sentenza, la n. 366/1991, ha affermato: "In base all'art. 2 della
Costituzione, il diritto ad una comunicazione libera e segreta è inviolabile,
nel senso generale che il suo contenuto essenziale non può essere oggetto di
revisione costituzionale".
3)
Terzo principio: è la consistenza costituzionale attribuita a corpi intermedi
– fra la persona e lo Stato, territoriali e non territoriali – quali la
famiglia, il Comune, le Province, la Regione, le confessioni religiose, le
scuole di vario ordine e grado, le università e le accademie, i sindacati, gli
ordini professionali, i partiti, le libere associazioni di opinione, di
assistenza, di volontariato ecc.
Anzitutto
va fatta qualche osservazione a proposito dei corpi intermedi territoriali: i
Comuni, le Province, le Regioni (artt. 5 e 114ss.). Ho già accennato che in
materia si deve constatare una grave carenza nella volontà politica, nei
decenni passati, di attuare la Costituzione in tutte le sue virtualità, sicché
giustamente, da varie parti, si profilano proposte per modificare la
Costituzione, nel senso del riconoscimento di una più larga e approfondita
autonomia soprattutto delle regioni: in particolare con le proposte avanzate
dalla Lega Nord e con le proposte della sinistra, oggi formulate nel solco della
Commissione bicamerale della scorsa legislatura.
Nelle
proposte della Lega, soprattutto quella relativa a pochissime macro-regioni, a
parte la non dissimulabile tendenza secessionista, si deve rilevare
l'irriducibile contraddittorietà costituzionale al principio dell'unità della
Repubblica. Inoltre potrebbero portare – come già ha rilevato Stefano Rodotà
– a una discriminazione dei diritti fondamentali dei cittadini, secondo l'area
in cui si trovano a vivere: specie il diritto alla salute, il diritto al lavoro,
il diritto all'istruzione.
Ma
ancor più sono contraddittorie nei confronti dello stesso principio da cui
pretendono di muovere, cioè di esaltare le autonomie locali, perché
porterebbero ad affievolire o ad alterare l'autonomia già raggiunta sinora da
corpi intermedi (soprattutto le singole regioni già ben individuate,
differenziali e funzionanti che verrebbero comunque da un lato incorporate, e
dall'altro gravemente pregiudicate nelle attuali loro relazioni paritarie con
altre regioni incluse in una diversa macro-regione).
Al
progetto della bicamerale si può per lo meno obiettare che, spingendo – come
è detto nella relazione che l'accompagna – il "regionalismo ai limiti
del federalismo", non pare che abbia tenuto conto di una norma che è nella
Costituzione tedesca (che oggi molti citano, forse senza averla letta), cioè
l'art. 72, che attribuisce allo Stato federale il compito di mantenere l'unità
politica ed economica del paese e l'eguaglianza delle condizioni di vita dei
cittadini "prescindendo dai confini territoriali di ogni singolo
Land".
Questa
o altra analoga norma non è detta esplicitamente nel progetto della bicamerale
per fornirne il senso profondo e la chiave di interpretazione generale. Quanto
invece ai corpi intermedi non territoriali, data la loro grande varietà di
scopi, di funzioni, di maggiore o minore immediatezza con la sfera di sviluppo
della persona, può essere difficile fare un discorso unitario generale. Ma va
almeno detto che alcuni di essi presentano una insurrogabilità nativa che si
connette strettamente ad alcune delle prerogative più inviolabili della persona
(esempio precipuo la famiglia, ma anche la scuola, e anche le associazioni
volontarie per certe forme particolarmente qualificate di assistenza), e perciò
si ricollegano a un altro principio fondamentale della nostra figura di Stato,
che appunto stiamo per illustrare.
4)
Quarto principio: che potrebbe essere detto il principio non soltanto della
separazione dei tre poteri secondo la dottrina classica dopo Montesquieu
(legislativo, esecutivo, giudiziario), ma piuttosto il principio della
diffusione del potere fra una pluralità di soggetti distinti, e dei reciproci
contrappesi, e perciò di un più garantito equilibrio complessivo. Come
recentemente ha confermato Sabino Cassese di fronte al pericolo di una dittatura
elettiva (quale quella che potrebbe immaginarsi da certi sprovveduti membri
della maggioranza) o per contro di un certo tipo di rafforzamento incontrollato
dell'esecutivo, cioè del governo, il potere nelle democrazie contemporanee, e
così anche nella nostra Costituzione, tende a una razionalizzazione e a
distribuirsi in una pluralità di soggetti veramente di estrazione diversa e tra
loro indipendenti.
Si
hanno così:
-
poteri elettivi: il Parlamento, di una o due camere, elette in modo diverso, cui
compete la funzione legislativa vera e propria;
-
ancora poteri elettivi concorrenti con i precedenti, ma in modo differenziato,
per estrazione e per competenze, cioè le Assemblee regionali, che si devono
integrare con l'apporto delle Province e dei Comuni;
-
poteri non elettivi, ma designati solo in base alla loro competenza tecnica,
accertata con pubblico concorso, assunti e soggetti a un ordine autonomo da ogni
altro potere, per la sola funzione giudiziaria, ed espressi e coordinati dal
Consiglio Superiore della Magistratura (di estrazione mista);
-
altri poteri, per aree sottratte, nel loro specifico più proprio, all'indirizzo
del governo, e costituzionalmente garantite nella loro indipendenza: per esempio
la scuola (art. 33);
-
infine la stessa gestione amministrativa (non nel suo indirizzo e nel suo
controllo) che è compito proprio della burocrazia;
-
da ultimo vi è il potere di garantire la Costituzione, affidato a un organo, la
Corte Costituzionale, che si potrebbe dire un vero e proprio contropotere: che
può perciò annullare persino decisioni del Parlamento (organo proveniente esso
pure da un'investitura mista: il Capo dello Stato, la Magistratura e il
Parlamento).
Orbene,
tale razionalizzazione del potere, cioè questa distribuzione del potere fra
soggetti adeguatamente distinti e contrappesati, è forse uno dei pregi più
raffinati e delicati della Costituzione italiana, ne costituisce un risultato
positivo e davvero meritevole della più gelosa salvaguardia, al di là di ogni
riforma possibile.
È
anche un condensato perfettamente sintetico di tutta la nostra vicenda storica e
dell'evoluzione istituzionale dell'ultimo secolo in Europa: potrà esigere
qualche perfezionamento (al massimo una figura più stabile ed effettivamente
coordinatrice del Primo Ministro) ma assolutamente non può essere giocata
sull'onda di avventati presidenzialismi che precipiterebbero il nostro alto
livello costituzionale in una regressiva catastrofe. Come pure non può essere
messa in pericolo da qualunque riforma che intacchi la totale indipendenza e
unità (comprese le Procure) dell'ordine giudiziario.
Fra
l'altro, può tornare a proposito una smentita energica di un bugiardo e
incomponibile abbinamento oggi di moda nelle fantasie riformatrici di certe
parti politiche e nei discorsi più superficiali dei media – cioè
l'abbinamento del federalismo-presidenzialismo. Come se avesse un minimo di
razionalità. Non si avverte che o si dà un federalismo reale e forte, e allora
non può esservi neppure l'ombra di un presidenzialismo efficiente, ma solo una
specie di vago direttorio collegiale delle cosiddette macro-regioni; o si dà
presidenzialismo effettivo, e allora non si dà che una facciata di federalismo,
destinata, o prima o poi, a mostrare la sua insostenibilità reale, cioè a
sparire e ad essere inghiottita dal potere accentratore dell'unico Presidente
eletto dal popolo. (...)