Spazi comuni
Sapersi orientare in tempo di globalizzazione.
Utili consigli per una Chiesa che sogna l’integrazione di popoli e culture.
Il
terzomondismo è un fenomeno che fino alla fine degli anni Settanta ha assunto
in Europa due posizioni prevalenti. Il terzomondismo della borghesia colta,
descritto con grande acutezza da E.W. Said nel suo studio del 1991 Orientalismo.
È una visione buonista e di simpatia umana verso il colonizzato, soprattutto
perché il suo modo di essere e i suoi modi di vita ricordano all’europeo
pezzi e frammenti del suo passato e il mito del “buon selvaggio”.Tuttavia,
il colonizzato resta un essere residuale, strutturalmente inferiore alla
sapienza e bontà dell’uomo bianco.
Il
terzomondismo, di sinistra e cattolico, costituisce una reazione etica e
politica al materialismo ozioso e satollo dell’Occidente, alle forme evidenti
di sfruttamento e di razzismo, e compie un gesto di rottura mettendosi dalla
parte degli “altri”, in nome della solidarietà i primi e dell’amore i
secondi. Queste scelte hanno sempre una forte componente etica e di
testimonianza e agiscono sulla spinta dell’analisi fornita da J. P. Sartre nel
1968: “Voi sapete bene che siamo degli sfruttatori. Sapete bene che abbiamo
preso l’oro e i metalli, poi il petrolio dei continenti nuovi e li abbiamo
portati nelle nostre vecchie metropoli. Non senza risultati eccellenti: palazzi,
cattedrali, città industriali; e poi quando la crisi minacciava, i mercati
coloniali eran lì per estinguerla o stornarla. L’Europa, satura di ricchezze,
accordò de jure l’umanità a tutti i suoi abitanti: un uomo, da noi,
vuol dire un complice, giacché abbiamo approfittato tutti dello sfruttamento
coloniale” (Introduzione a I dannati della terra di F. Fanon, Einaudi
1962, p. XXI).
Verso la mondialità
La
frase di Sartre fu particolarmente lancinante per coloro che in Europa avevano
prodotto l’immagine di uno stato del benessere costruito sulle nostre fatiche,
sulle nostre battaglie e sulla nostra cultura. Sartre svela che abbiamo confuso
il “bottino” delle rapine coloniali con il profitto aziendale, e la
spartizione interna che abbiamo raggiunto riguarda soprattutto il secondo e non
il primo. Il terzomondismo che ne deriva è quindi soprattutto il tentativo di
restituzione del maltolto e di sostituzione di un rapporto di discriminazione e
di sfruttamento con quello di solidarietà e di amore. Il rapporto tra noi e gli
altri, tra il Nord e il Sud, tra Paesi industrializzati e non, era un rapporto
strutturalmente conflittuale, e l’unico modo di uscirne era di saltare il
fosso, passare dalla parte degli sfruttati, dalla parte del Sud.
Di
queste testimonianze ne abbiamo numerose e la forza del loro messaggio ha
influenzato la cultura politica critica e giovanile per decenni: il mito del
Che, i focolai di guerriglia nel mondo, i grandi movimenti di massa e contadini
dei Paesi del terzo mondo, l’ideologia della liberazione in America Latina e
le numerose testimonianze di missionari nelle zone più sperdute e derelitte del
pianeta. Poi, con gli anni Settanta, si è diffusa la consapevolezza della
Mondialità, cioè della crescente interdipendenza della vita delle comunità,
degli Stati e di tutti i viventi sul pianeta terra. Il primo a segnalare questo
problema fu il Club di Roma con il suo rapporto sui Limiti alla crescita
che le risorse del pianeta ponevano a causa del loro sfrenato sfruttamento.
Anche se con i limiti di ogni proiezione statistica, non era difficile calcolare
che, con l’estrapolazione ai 7 miliardi di persone che di lì ad alcuni
decenni avrebbero popolato il pianeta del modo di produrre e di consumare
adottato dai 700-800 milioni di persone dei Paesi ricchi, si sarebbe giunti al
collasso.
Quella
previsione, poi ripresa e confermata da altri studi (il Gruppo di Lisbona, il
Gruppo di Lugano, i Rapporti sullo Sviluppo Umano dell’UNDP), ha prodotto due
tipi di reazione. Quella dei poteri forti, finanziari e tecnologici, che hanno
scelto di mantenere la “sostenibilità” del pianeta restringendo la crescita
ai ceti sociali ricchi dei Paesi forti e bloccando quella degli altri ceti e
Paesi, sia a Nord sia a Sud. È nata così la globalizzazione, che con il
suo progetto di apartheid globale ha esteso le sue forme di dominio
economico e culturale a tutti i Paesi e comunità, non per promuoverne lo
sviluppo ma per strozzarlo. Lo slogan politico mediante il quale si legittima
questo orientamento è che “il modo di vita dell’Occidente non può essere
messo in discussione e non è negoziabile”.Per questa ragione il risveglio
economico e culturale di grandi aree e Paesi che con la loro crescita minacciano
la supremazia politica, economica e culturale del mondo ricco dell’Occidente
va bloccato e respinto. Gli effetti devastanti di questo riarmo culturale,
economico e politico non riguardano gli “altri” ma anche noi, tutte le
comunità del mondo.
La
mondializzazione
Una
diversa risposta al fenomeno della mondialità è quella della mondializzazione,
e cioè di una presa di coscienza di tutte le comunità e Paesi del mondo sulla
interdipendenza esistente a livello planetario. Questa avviene con il
“risveglio delle comunità”, cioè non con la “crescita” o lo
“sviluppo”, come ci insegna Raimon Pannikar, ma riscoprendo a livello locale
i fattori di sostenibilità. Ma la mondialità significa anche che ogni comunità/Paese
si apre agli altri, stabilisce rapporti di cooperazione, di solidarietà e di
amore verso le altre comunità e culture.
Quindi
due sistemi a confronto. Da un lato il progetto di integrazione della modernità
e del progresso senza limiti, con il seguito di competizione e di guerra tra i
popoli e le culture sostenuto dalla globalizzazione. Dall’altro
l’aspirazione al rispetto della vita di tutti i viventi in un sistema
policentrico di cooperazione e di convivenza tra comunità e Stati. Il “vivere
insieme” nel rispetto delle autonomie, e identità di tutti i popoli, basato
su economie sostenibili e di pace è lo slogan che legittima questa scelta.
Quali
implicazioni ha tutto questo sui percorsi politici europei? Anzitutto si tratta
di abbandonare il metodo della competizione tra Stati, della standardizzazione
su criteri eurocentrici (Paesi guida e centri di eccellenza non esistono) per
tornare a una idea policentrica della costruzione europea costruita su una
confederazione di mesoregioni: l’Area Baltica, l’Area Mediterranea, l’Area
dell’Europa Centrale, e quella Occidentale dei Paesi di vecchia
industrializzazione. Sistemi policentrici economici e istituzionali che possono
fare da ombrello protettivo e di valorizzazione delle comunità e degli stati di
appartenenza. Si tratta di tornare a una concezione positiva della complessità,
con i suoi contenuti di diversità, di storia, di tempo e di mistero, che la
globalizzazione continua invece a considerare fattori di disturbo e anomalie da
eliminare.
Per
una reale integrazione
La
base teorica di questa costruzione è quella della mesoregione di Braudel, che
individua e delimita lo spazio di integrazione non sulla logica dei mercati
della globalizzazione, ma sull’insieme dei fattori che costituiscono la vita
delle comunità (fattori culturali, religiosi, politici, economici, linguistici
ecc.) Un insieme fatto non di corpi sociali amputati, ma da Paesi che fondano la
propria esistenza sulla presenza simultanea dei quattro caratteri distintivi
propri di ogni comunità: il territorio, le istituzioni, la popolazione e i
sistemi produttivi. Quindi ripartire non da un progetto elitario e dall’alto,
ma dal basso: da un sistema di anelli di solidarietà tra popoli costruiti come
cerchi olimpici uniti da forme di cooperazione basate sulla pace. Un sistema
europeo di cooperazione tra popoli diversi, così come venne pensato alla fine
del secondo conflitto mondiale prima che la guerra fredda facesse deviare questo
progetto verso una dimensione eurocentrica e occidentale. Una idea diversa di
benessere quindi da quella della globalizzazione, una idea di Bene Comune che
parte dal basso, che si muove a piccoli passi secondi i tempi della storia, e
che sostituisce alla strategia omologante della globalizzazione “pensare
globale e agire locale” quella emancipatoria del “pesare locale e agire
globale” secondo i dettami e i bisogni delle comunità.