Spazi comuni

Pensare e vivere in modo planetario.
Sapersi orientare in tempo di globalizzazione.
Utili consigli per una Chiesa che sogna l’integrazione di popoli e culture.
Bruno Amoroso

Il terzomondismo è un fenomeno che fino alla fine degli anni Settanta ha assunto in Europa due posizioni prevalenti. Il terzomondismo della borghesia colta, descritto con grande acutezza da E.W. Said nel suo studio del 1991 Orientalismo. È una visione buonista e di simpatia umana verso il colonizzato, soprattutto perché il suo modo di essere e i suoi modi di vita ricordano all’europeo pezzi e frammenti del suo passato e il mito del “buon selvaggio”.Tuttavia, il colonizzato resta un essere residuale, strutturalmente inferiore alla sapienza e bontà dell’uomo bianco.

Il terzomondismo, di sinistra e cattolico, costituisce una reazione etica e politica al materialismo ozioso e satollo dell’Occidente, alle forme evidenti di sfruttamento e di razzismo, e compie un gesto di rottura mettendosi dalla parte degli “altri”, in nome della solidarietà i primi e dell’amore i secondi. Queste scelte hanno sempre una forte componente etica e di testimonianza e agiscono sulla spinta dell’analisi fornita da J. P. Sartre nel 1968: “Voi sapete bene che siamo degli sfruttatori. Sapete bene che abbiamo preso l’oro e i metalli, poi il petrolio dei continenti nuovi e li abbiamo portati nelle nostre vecchie metropoli. Non senza risultati eccellenti: palazzi, cattedrali, città industriali; e poi quando la crisi minacciava, i mercati coloniali eran lì per estinguerla o stornarla. L’Europa, satura di ricchezze, accordò de jure l’umanità a tutti i suoi abitanti: un uomo, da noi, vuol dire un complice, giacché abbiamo approfittato tutti dello sfruttamento coloniale” (Introduzione a I dannati della terra di F. Fanon, Einaudi 1962, p. XXI).

Verso la mondialità

La frase di Sartre fu particolarmente lancinante per coloro che in Europa avevano prodotto l’immagine di uno stato del benessere costruito sulle nostre fatiche, sulle nostre battaglie e sulla nostra cultura. Sartre svela che abbiamo confuso il “bottino” delle rapine coloniali con il profitto aziendale, e la spartizione interna che abbiamo raggiunto riguarda soprattutto il secondo e non il primo. Il terzomondismo che ne deriva è quindi soprattutto il tentativo di restituzione del maltolto e di sostituzione di un rapporto di discriminazione e di sfruttamento con quello di solidarietà e di amore. Il rapporto tra noi e gli altri, tra il Nord e il Sud, tra Paesi industrializzati e non, era un rapporto strutturalmente conflittuale, e l’unico modo di uscirne era di saltare il fosso, passare dalla parte degli sfruttati, dalla parte del Sud.

Di queste testimonianze ne abbiamo numerose e la forza del loro messaggio ha influenzato la cultura politica critica e giovanile per decenni: il mito del Che, i focolai di guerriglia nel mondo, i grandi movimenti di massa e contadini dei Paesi del terzo mondo, l’ideologia della liberazione in America Latina e le numerose testimonianze di missionari nelle zone più sperdute e derelitte del pianeta. Poi, con gli anni Settanta, si è diffusa la consapevolezza della Mondialità, cioè della crescente interdipendenza della vita delle comunità, degli Stati e di tutti i viventi sul pianeta terra. Il primo a segnalare questo problema fu il Club di Roma con il suo rapporto sui Limiti alla crescita che le risorse del pianeta ponevano a causa del loro sfrenato sfruttamento. Anche se con i limiti di ogni proiezione statistica, non era difficile calcolare che, con l’estrapolazione ai 7 miliardi di persone che di lì ad alcuni decenni avrebbero popolato il pianeta del modo di produrre e di consumare adottato dai 700-800 milioni di persone dei Paesi ricchi, si sarebbe giunti al collasso.

Quella previsione, poi ripresa e confermata da altri studi (il Gruppo di Lisbona, il Gruppo di Lugano, i Rapporti sullo Sviluppo Umano dell’UNDP), ha prodotto due tipi di reazione. Quella dei poteri forti, finanziari e tecnologici, che hanno scelto di mantenere la “sostenibilità” del pianeta restringendo la crescita ai ceti sociali ricchi dei Paesi forti e bloccando quella degli altri ceti e Paesi, sia a Nord sia a Sud. È nata così la globalizzazione, che con il suo progetto di apartheid globale ha esteso le sue forme di dominio economico e culturale a tutti i Paesi e comunità, non per promuoverne lo sviluppo ma per strozzarlo. Lo slogan politico mediante il quale si legittima questo orientamento è che “il modo di vita dell’Occidente non può essere messo in discussione e non è negoziabile”.Per questa ragione il risveglio economico e culturale di grandi aree e Paesi che con la loro crescita minacciano la supremazia politica, economica e culturale del mondo ricco dell’Occidente va bloccato e respinto. Gli effetti devastanti di questo riarmo culturale, economico e politico non riguardano gli “altri” ma anche noi, tutte le comunità del mondo.

La mondializzazione

Una diversa risposta al fenomeno della mondialità è quella della mondializzazione, e cioè di una presa di coscienza di tutte le comunità e Paesi del mondo sulla interdipendenza esistente a livello planetario. Questa avviene con il “risveglio delle comunità”, cioè non con la “crescita” o lo “sviluppo”, come ci insegna Raimon Pannikar, ma riscoprendo a livello locale i fattori di sostenibilità. Ma la mondialità significa anche che ogni comunità/Paese si apre agli altri, stabilisce rapporti di cooperazione, di solidarietà e di amore verso le altre comunità e culture.

Quindi due sistemi a confronto. Da un lato il progetto di integrazione della modernità e del progresso senza limiti, con il seguito di competizione e di guerra tra i popoli e le culture sostenuto dalla globalizzazione. Dall’altro l’aspirazione al rispetto della vita di tutti i viventi in un sistema policentrico di cooperazione e di convivenza tra comunità e Stati. Il “vivere insieme” nel rispetto delle autonomie, e identità di tutti i popoli, basato su economie sostenibili e di pace è lo slogan che legittima questa scelta.

Quali implicazioni ha tutto questo sui percorsi politici europei? Anzitutto si tratta di abbandonare il metodo della competizione tra Stati, della standardizzazione su criteri eurocentrici (Paesi guida e centri di eccellenza non esistono) per tornare a una idea policentrica della costruzione europea costruita su una confederazione di mesoregioni: l’Area Baltica, l’Area Mediterranea, l’Area dell’Europa Centrale, e quella Occidentale dei Paesi di vecchia industrializzazione. Sistemi policentrici economici e istituzionali che possono fare da ombrello protettivo e di valorizzazione delle comunità e degli stati di appartenenza. Si tratta di tornare a una concezione positiva della complessità, con i suoi contenuti di diversità, di storia, di tempo e di mistero, che la globalizzazione continua invece a considerare fattori di disturbo e anomalie da eliminare.

Per una reale integrazione

La base teorica di questa costruzione è quella della mesoregione di Braudel, che individua e delimita lo spazio di integrazione non sulla logica dei mercati della globalizzazione, ma sull’insieme dei fattori che costituiscono la vita delle comunità (fattori culturali, religiosi, politici, economici, linguistici ecc.) Un insieme fatto non di corpi sociali amputati, ma da Paesi che fondano la propria esistenza sulla presenza simultanea dei quattro caratteri distintivi propri di ogni comunità: il territorio, le istituzioni, la popolazione e i sistemi produttivi. Quindi ripartire non da un progetto elitario e dall’alto, ma dal basso: da un sistema di anelli di solidarietà tra popoli costruiti come cerchi olimpici uniti da forme di cooperazione basate sulla pace. Un sistema europeo di cooperazione tra popoli diversi, così come venne pensato alla fine del secondo conflitto mondiale prima che la guerra fredda facesse deviare questo progetto verso una dimensione eurocentrica e occidentale. Una idea diversa di benessere quindi da quella della globalizzazione, una idea di Bene Comune che parte dal basso, che si muove a piccoli passi secondi i tempi della storia, e che sostituisce alla strategia omologante della globalizzazione “pensare globale e agire locale” quella emancipatoria del “pesare locale e agire globale” secondo i dettami e i bisogni delle comunità.

 

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