La Chiesa lievito del mondo
Il titolo proposto per questa mia riflessione è una affermazione, ma è anche una domanda e una provocazione: in che misura e rispetto a quali problemi la Chiesa cattolica può dirsi oggi lievito del mondo? L’affermazione ha un innegabile fondamento nella realtà: abbiamo visto e sentito la Chiesa in tutti i suoi componenti, dal Papa a tanti suoi fedeli, farsi portatrice di esigenze di giustizia, proclamare con forza le ragioni della pace, difendere la causa dei deboli e degli oppressi. E questa sua funzione ha assunto, nell’ultimo secolo, dimensioni planetarie e ha rappresentato una denuncia e una sfida nei confronti degli egoismi nazionali e delle ideologie che hanno violato la dignità dell’uomo. Ma lievito è più che denuncia: è partecipazione intensa, è coinvolgimento, è un esser dentro i processi storici per farne emergere tutte le potenzialità positive, è un mescolarsi alla pasta sempre ambigua della storia umana per farla crescere, per lievitarla appunto in senso evangelico.
Dottrina contro lievito
In questo senso più profondo e impegnativo la Chiesa è stata ed è lievito del mondo? La risposta è complessa perché più volte la preoccupazione della purezza dottrinale ha spinto la Chiesa a frenare iniziative generose di sacerdoti e laici dirette a partecipare a condizioni umane di sofferenza e sfruttamento per essere appunto lievito di liberazione e di giustizia: penso alla vicenda dei preti operai o alla più recente esperienza di partecipazione allo sforzo di riscatto dei popoli del Sudamerica, che ha dato luogo alla tormentata vicenda della teologia della liberazione, al martirio del vescovo Romero, ma anche a una grave condanna teologica. Ecco allora la domanda inquietante: fino a che punto l’imperativo evangelico a essere lievito è compatibile non dirò con la purezza dottrinale in sé, ma con la purezza dottrinale interpretata da congregazioni romane, lontane e talvolta poco sensibili, ai drammi umani e alle sofferenze sempre inevitabilmente congiunte alla esperienza di essere lievito dentro la pasta della storia umana?
Non
si tratta a mio avviso di scegliere, di schierarsi per la purezza dottrinale o
per il coinvolgimento nei processi storici o di contestare le scelte
dell’autorità, ma di essere lievito nella realtà storica e nella Chiesa
stessa, la quale a sua volta come realtà umana e istituzionale ha bisogno di
Laicità
non é il livello zero, la zona amorfa, lo spazio neutro, l’aria della
insignificanza ecclesiale. Il laico non è un “non prete”, non è il braccio
secolare, né la longa manus, né l’appendice del clero. Il
laico non è una protesi del presbitero! È
invece colui che, chiamato a far parte del popolo di Dio mediante il Battesimo,
ha il compito di annunciare che Gesù è il Signore, con un modulo tutto suo:
trattando le cose temporali e orientandole al Regno. Questo
modulo dell’annuncio, proprio del laico, potrei esprimerlo con una frase ad
effetto: il laico è colui che porta la veste battesimale nei cantieri e la tuta
di lavoro in Chiesa. Don
Tonino Bello
La secolarizzazione
Ma vorrei accennare a un problema specifico: quello della posizione della Chiesa di fronte alle società secolarizzate, le nostre società, oggi, dell’Occidente ricco, che saranno probabilmente, domani, le società dei Paesi in via di sviluppo. È un tipo nuovo di secolarizzazione, quella di oggi, che non nasce per lo più dalla iniziativa di uno Stato portatore di una ideologia ostile alla Chiesa, è piuttosto una secolarizzazione di tipo molecolare che nasce dal basso, dal profondo della società e si manifesta in stili di vita, in comportamenti estranei se non ostili a una ispirazione evangelica. Ebbene come si risponde a questo tipo di secolarizzazione? Nel mondo cattolico si manifestano spontaneamente due tipi di risposta difficilmente compatibili tra loro.Da un lato c’è la risposta dei movimenti giovanili portatori di modelli specifici ed esigenti di cristianesimo, difficilmente comunicabili: in questi gruppi il modo di vivere e di praticare la fede diventa elemento di identità collettiva, di una identità forte ed esclusiva che si contrappone a ogni altra identità, anche ad altre identità interne alla Chiesa stessa. È innegabile il merito di questi gruppi di conservare forti identità cattoliche talvolta anche in ambienti difficili o ostili. Ma è evidente il rischio della possibile progressiva riduzione della Chiesa a una specie di federazione di sette.
D’altra parte per un paradosso già altre volte verificatosi nella storia della Chiesa queste forme chiuse e integralistiche di cattolicesimo sono le più facilmente permeabili alla utilizzazione da parte di forze che cercano nel cattolicesimo non l’esperienza di fede, ma una istituzione forte da utilizzare per i loro disegni politici. I cattolici integralisti si incontrano così con quelli che si sono definiti cattolici non cristiani (Mussolini si definiva così ) e che oggi più spesso vengono definiti gli atei devoti. All’estremo opposto vi è nella Chiesa la posizione di quanti cercano di comprendere la complessa realtà della secolarizzazione e si sforzano di stabilire un confronto e un dialogo con il mondo dei non credenti o degli indifferenti e che perciò vengono a farsi carico e in qualche misura a condividere i loro dubbi, le loro difficoltà di fronte alla fede. Il loro pericolo e la loro costante tentazione è quella di una perdita o quantomeno di una crisi della loro stessa identità cristiana.
La realtà è naturalmente assai più complessa di questi sommari accenni, ma è evidente il duplice rischio che la Chiesa corre: da un lato quello di chiudersi in se stessa in atteggiamento di difesa della sua identità, lasciandosi portare per così dire dalla spinta dei movimenti giovanili di tipo integralistico, con una sostanziale rinuncia a essere lievito di una società secolarizzata; dall’altro quello di un isolamento elitario sulla scia delle esperienze di avanguardia di gruppi intellettuali di minoranza, con il rischio di identificarsi e di perdersi nella pasta piuttosto che esserne il lievito.
La via del Concilio
Penso sommessamente che, in questo quadro così difficile e per molti aspetti contraddittorio, sarebbe necessaria e urgente una pastorale della Chiesa di grande respiro, attenta alla realtà dei fenomeni del nostro tempo e al tempo stesso alla varietà delle sensibilità e degli orientamenti che nella Chiesa si manifestano. In sostanza io credo che non ci sia nulla da buttar via ma tutto da comprendere e da orientare verso grandi obiettivi comuni. Questo significa superamento degli esclusivismi, impegno attivo dei vertici a favorire il dialogo e il confronto dentro la Chiesa delle diverse tendenze, significa in sostanza esercizio di una autorità che, più che decidere e imporre, sappia ascoltare e proporre valorizzando tutte le energie presenti nella realtà della Chiesa.
È evidente che tutto ciò è possibile solo sulla linea indicata dal Concilio Vaticano II e perciò nella piena valorizzazione dell’evento conciliare, come momento profondamente innovativo nella vita della Chiesa, oltreché nella fedeltà ai suoi contenuti. Richiamarsi al Concilio significa oggi, fra l’altro, un forte ricupero del ruolo dei laici nella Chiesa e una inversione di tendenza rispetto alla linea che si è sviluppata durante il pur grande e glorioso pontificato di Giovanni Paolo II. Il tema è stato già molto discusso e basterà qui un cenno. Abbiamo in sostanza assistito nel corso di quel pontificato a un processo di progressiva identificazione fra la Chiesa e la figura stessa del Papa. Ne hanno sofferto le immagini delle Chiese locali, delle diverse scuole teologiche, ne ha pesantemente sofferto il laicato rimasto troppo spesso senza voce in una posizione, particolarmente in Italia, di passiva obbedienza. Si è instaurata, come tutti sanno, nel nostro Paese una prassi di intervento diretto della autorità ecclesiastica sul terreno della politica che vanifica il ruolo del laicato proprio in quel campo al quale il Concilio nella Gaudium et spes lo ha chiaramente chiamato. Ritengo – ma non è questa la sede per affrontare il problema – che il ruolo della Chiesa nella politica italiana dopo la fine della Democrazia cristiana debba essere radicalmente ripensato e ridefinito.
Ora mi sembra particolarmente difficile se non impossibile parlare di Chiesa lievito del mondo senza un ricupero pieno, non formale, non dichiarato, ma realizzato nei fatti del ruolo del laicato perché evidentemente è attraverso i suoi fedeli attraverso i laici che la Chiesa è presente nella pasta della storia umana oggi più bisognosa che mai del lievito cristiano. Dunque la Chiesa è lievito del mondo come il titolo di questa riflessione suggerisce, ma l’appello evangelico a essere lievito rimane un sfida sempre aperta e un compito mai adeguatamente soddisfatto.