Un Romero africano
Oggi più che mai la riconciliazione è termine
raro e valore irrinunciabile e necessario per una vera pace per tutti.
Pubblichiamo di seguito una riflessione di mons. Bowling pronunciata alla Uca
(San Salvador) il 1 aprile 2005. Anche se datata, la riflessione del “Romero
africano”, testimone di una Chiesa che parla ai poveri di una terra martoriata
quanto simbolo di liberazione quale è il Sudafrica, merita di essere oggetto di
lettura e meditazione. Per prepararci al Sinodo africano.
L’anno
scorso sedevo in una baracca fatta con pezzi di legno, zinco ossidato e cartone.
Era tremendamente caldo e il tetto di zinco era distante pochi centimetri dalla
mia testa. Dopo pochi minuti grondavo sudore. Tutt’intorno a me c’erano più
di cinquemila baracche simili a quella, appena uno dei tanti insediamenti
costruiti in quel modo nella diocesi di cui ero ministro in Sudafrica. È in
posti come questi che i poveri dei poveri cercano di sopravvivere, ma molto
spesso muoiono.
In quella baracca, su una panca, di fronte a me,
sedeva una giovane ragazza madre, Agnese; vicino a lei il suo unico figlio, un
bambino di pochi mesi. Entrambi stavano morendo di AIDS. Sul volto di lei
correvano gocce di sudore, tanto era malata. Non c’era niente da bere né da
mangiare. Lei puntava i suoi occhi su di me e io vedevo ciò che avevo visto già
tante volte da quando ero in quella diocesi. Vedevo ancora una volta lo sguardo
della paura e, più che altro, della disperazione. […] Mentre guardava il suo
bambino morente, scendevano lacrime sul suo volto…e anche sul mio.
La donna aveva ragione. In un Paese relativamente
sviluppato, come il Sudafrica, ci sono più di otto milioni di persone che
vivono in condizioni di miseria raccapricciante; più di ventidue milioni
cercano di sopravvivere con meno di un dollaro al giorno. E non c’è speranza,
soprattutto perché è il sistema sociale, culturale, economico, religioso e
politico di questo mondo che condanna una madre come Agnese a una morte
terribile, nella povertà e nella malattia.
Chiesa di speranza?
[…] Guardando negli occhi quella giovane madre,
io mi ponevo le stesse domande che andavo meditando nel mio cuore da tanto
tempo. Penso alla nostra Chiesa, e ancor più ai vertici della nostra Chiesa:
quale messaggio, quale parola rivolgiamo a questi “piccoli” della nostra
società, qui in Centro America, in Africa e in qualsiasi luogo dove sia la
miseria, la povertà, la malattia e la disperazione? Il messaggio della Chiesa,
la nostra parola, è veramente vissuta dai poveri come parola di speranza,
parola di liberazione, parola che sia in grado di lanciare una sfida contro la
loro terribile realtà? La nostra parola rivela la parola di Dio? Rivela cioè
che la promessa di Dio della vera vita, di quella liberazione che ci permette di
vivere con dignità, è rivolta in maniera particolare ai poveri?
Ancor più c’è da chiedersi: quanto la Chiesa
oggi, nella dottrina e nella pratica, fa tesoro della testimonianza dei poveri
della Terra? Che genere di comunità appare oggi la Chiesa agli occhi dei poveri
della Terra? Dove sono nella Chiesa i profeti che analizzano il sistema
oppressivo del mondo moderno e ne constatano la distanza dalle prospettive del
Vangelo e coraggiosamente affiancano i poveri nella ricerca di una
trasformazione, visto che questo mondo diventa sempre più ingiusto e la
sperequazione tra ricchi e poveri cresce costantemente? Siamo una Chiesa che
rigetta tutte le forme di potere e di controllo, una Chiesa che forma con i
vulnerabili, con gli oppressi, e con i disperati una reale comunità, nel mondo
di oggi? Noi Chiesa, siamo in grado di cambiare lo sguardo di disperazione negli
occhi dei poveri in uno sguardo di speranza, in occhi che si aprano alla pace e,
con fiducia, all’aspettativa di un futuro migliore?
[…] Dopotutto la Chiesa soffre lo stesso
destino dei poveri, che è la persecuzione. La nostra Chiesa si gloria che il
sangue dei suoi preti, dei suoi catechisti e dei suoi laici si sia mescolato a
quello della gente massacrata e si è continuamente riconosciuta come vittima di
persecuzione. Viene ricoperta di calunnie e la sua voce che grida contro le
ingiustizie è ignorata perché scuote le coscienze ed è scomoda. “Il buon
nome della Chiesa non è legato al fatto che intrattenga un buon rapporto con il
potere. Il buon nome della Chiesa è legato alla consapevolezza che i poveri si
identificano in essa e che il suo compito sulla Terra è quello di richiamare
tutti, i ricchi in particolare, a convertirsi e a salvarsi stando a fianco dei
poveri, poiché questi ultimi sono gli unici ad essere chiamati beati”. Fu
Monsignor Oscar Romero a pronunciare queste parole il 17 febbraio del 1980.
Mio fratello Romero
Le sue parole, la sua provocazione, sono per me,
e per noi, attuali quanto lo furono nel 1980 per la gente e la Chiesa del
Salvador. […] Mio fratello, vescovo Oscar Romero fu leader spirituale nel
contesto di El Salvador al tempo della brutale oppressione e dei crimini contro
l’umanità che lì si perpetravano. Quando divenni vescovo in Sudafrica, in
pieno apartheid, fu la figura di Oscar Romero che mi ispirò a riflettere sulla
mia chiamata come leader spirituale in mezzo agli oppressi fra i quali vivevo e
officiavo. Egli fu per me fratello e consigliere, e la sua testimonianza mi
spinse a vivere in modo profetico la mia missione (una personalissima forma di
sofferenza) e a camminare con i poveri, anche quando questo costituiva pericolo
per la mia vita. È stato per lui che ho visto il volto di Gesù nel volto del
mio popolo oppresso. […] Ti ringrazio, caro fratello Romero, per avermi
mostrato la via per essere fedele a Dio nella vita e nella sofferenza dei poveri
e degli oppressi della mia terra.
Nel mondo moderno, la sfida mi sembra diventare
sempre più complicata. Sì, oggi le organizzazioni sovranazionali, come le
Nazioni Unite, stanno diventando lentamente consapevoli che le brutalità
dell’oppressione: violenza, genocidio, crimini di guerra e altre atrocità,
non possono essere tollerate in alcun modo dalla comunità internazionale, e che
ormai si deve agire per proteggere i più vulnerabili. Oggi il mondo sta
comprendendo lentamente che la solidarietà verso i poveri, i sofferenti e gli
oppressi viene prima della solidarietà verso i leader politici corrotti e
brutali.
Ma abbiamo una lunga strada da percorrere prima
che i poveri e gli oppressi arrivino a vivere realmente una vita dignitosa che
permetta loro di considerarsi quali essi sono, cioè uomini e donne creati a
immagine di Dio. Il genocidio in Rwanda avvenne giusto undici anni fa; la
pulizia etnica e le atrocità nei Balcani non sono ricordi remoti. Perfino
mentre parlo, i diseredati del Darfur, in Sudan, sono vittima di crimini
indicibili, di violenze e massacri di massa. Una religiosa, suor Dorothy, è
stata recentemente assassinata in Brasile perché osava affrontare i potenti per
difendere i poveri. In tutto il mondo, il cammino doloroso dei martiri prosegue
così come fu nel Salvador più di venticinque anni fa.
Ma esiste un’altra sottile e sofisticata
oppressione che viene esercitata dai vertici del potere economico, con il
sostegno delle multinazionali e con il supporto politico dei potenti che
controllano il nostro futuro. In definitiva si tratta di una specie di enorme
piovra i cui tentacoli penetrano in ogni nazione e in ogni comunità. Questa
mette in trappola i poveri del mondo in una spirale di disperazione, li
sacrifica sull’altare della cupidigia, dell’avidità e della sete di potere
delle poche elìte del nostro mondo. I poveri sono troppo spesso offerti in
olocausto a divinità moderne ed effimere: gli “interessi strategici” delle
nazioni sviluppate, che determinano il destino di milioni di uomini privi di
opportunità.
Agnese come tante
Ritorno quindi a parlare di quella donna, Agnese,
nella baracca. Perché è morta di AIDS in indicibile povertà e miseria? Questa
è la sua storia. Aveva lasciato la sua terra, nell’Africa centrale. L’aveva
lasciata perché quella contrada era estremamente povera e lì non avrebbe
potuto trovare lavoro, né sopravvivere. Aveva sentito parlare del Sudafrica,
forse lì ci sarebbe stata una speranza per lei. Così arrivò lì, in un
“illegale” rifugio economico: finì in quella baracca. A breve distanza da lì
c’era una miniera di platino e una locanda per i minatori che provenivano da
varie parti del Sudafrica, ma anche da fuori. Per questo Agnese scelse
quell’insediamento, nella speranza di trovare una via per scampare alla povertà,
visto che i minatori avevano un lavoro e anche un po’ di denaro.
Ma scoprì presto di essere in una trappola. Lei
era una irregolare, non aveva documenti. Non poteva quindi presentare domanda
per ricevere un assegno sociale dal Governo. Non poteva trovare lavoro per lo
stesso motivo. Non aveva famiglia, non uno che la potesse aiutare. Tristemente
scoprì che c’era un solo modo per sfuggire alla trappola della povertà.
Doveva lavorare col sesso, doveva diventare una prostituta. Per comprare gli
alimenti necessari a sopravvivere almeno nelle successive ventiquattro ore,
avrebbe dovuto vendere il proprio corpo ai minatori e a chiunque altro le fosse
capitato. Fece questo giorno dopo giorno e così, senza rendersene conto,
contrasse l’infezione da HIV, rimase incinta e anche suo figlio nacque HIV
positivo. E a causa della sua estrema povertà, dell’alimentazione inadeguata,
dello squallore in cui viveva, lei e il suo bimbo sono morti.
[…] Questa è la realtà. Di fronte a questi
problemi non posso pensare solo in termini di etica della sessualità! Di fronte
a una situazione di tale gravità io credo che nella Chiesa di oggi noi abbiamo
bisogno, soprattutto, di un’etica della dignità umana e dei diritti umani,
un’etica per una vita autentica. Tale sofferenza è un grido che si leva per
chiedere giustizia, per chiedere un agire profetico e solidarietà verso questi
“piccoli” che non hanno alternative.
Perché accade tutto questo? La
responsabilità è del sistema economico del nostro mondo, controllato dai
ricchi e dai potenti, che condanna i Paesi dell’Africa e le restanti regioni
povere del mondo a questa specie di esistenza subumana. Innanzitutto grava su
questi Paesi un debito spaventoso del quale, con grande sacrificio, essi
riescono a restituire unicamente gli interessi. L’ammontare di quegli
interessi supera, addirittura, la spesa che sarebbe necessaria per la salute,
l’istruzione e i servizi sociali delle nazioni indebitate. Aggiungiamo che si
è creato un iniquo sistema commerciale che rende impossibile per i Paesi poveri
competere con i Paesi ricchi e sviluppati. Infine i governi dei Paesi del nord
del mondo sostengono con sussidi i propri agricoltori e allevatori condannando
gli agricoltori dei Paesi del sud del mondo a una ricerca senza speranza di
mercato per i loro prodotti.
[…] Si tratta di un sistema colpevole che
rivendicherebbe un risarcimento dal Cielo. È un peccato sistemico.
Come si pone la Chiesa dinnanzi a tutto questo?
La dottrina sociale della Chiesa, che Monsignor Romero visse nella pratica con
coraggio e fede, ci esorta a vedere il volto di Gesù in ogni volto, ma
specialmente negli ultimi. Ci spinge ad azioni profetiche affinché il bene
comune, la solidarietà e il primato dei poveri diventino traguardi realizzabili
e non rimangano sogni impossibili. L’attuale ingiusto sistema globale di
mercato deve essere trasformato in globalizzazione della solidarietà, una
solidarietà che porti alla trasformazione culturale, politica, economica e
sociale affinché i poveri del mondo non siano più costretti alla disperazione
ed alla miseria. Anzi, tutti devono adoperarsi per creare una comunità globale
di soccorso e partecipazione affinché ci sia un futuro per tutti, infatti se
continueranno a non essere possibili un futuro ed una vita dignitosa per i
poveri, presto non ci sarà futuro per nessuno, inclusi i ricchi e i potenti.
Ciò di cui ha bisogno più d’ogni altra
cosa il mondo di oggi è un’etica della giustizia. Noi dobbiamo lottare per la
giustizia, senza di essa, infatti, non avremo mai vera pace o sicurezza. Noi
dobbiamo lottare per una giustizia che sia permeata da un forte spirito di
compassione e solidarietà, così da far sentire ai poveri la presenza di un Dio
che piange quando i poveri del mondo piangono. E finché noi non piangeremo ogni
volta che i poveri piangono, non saremo colmi del risentimento e della passione
che ci dovrebbe portare a lottare per la giustizia, costi quello che costi. Noi
vediamo chiaramente questo risentimento e questa passione in Cristo,
specialmente quando condanna i leader spirituali del suo tempo che ponevano
sulle spalle della gente carichi impossibili, ma non alzavano un dito per
aiutarli a portare quei fardelli. “Non loro…” disse Gesù.
Una
Chiesa giusta
Cosa direbbe Gesù ai leader spirituali del
nostro tempo? Cosa direbbe Gesù a me, che sono uno dei leader spirituali di
questo tempo? Questa è la domanda che devo costantemente rivolgere a me stesso,
ogni giorno della settimana, incontrando i poveri del mio mondo, in Sudafrica.
Mio fratello Oscar Romero mi ha ispirato e mi ha mostrato la via per seguirlo,
la via di Gesù. La vita di Monsignor Oscar Romero, la sua testimonianza, mostra
la via che la Chiesa e in particolare i leader della Chiesa dovranno seguire in
futuro. Noi dobbiamo essere una Chiesa umile e in ascolto. Di fronte alle sfide
e alle complesse questioni del nostro tempo noi dobbiamo metterci alla ricerca
di nuove risposte e non presumere di avere già in mano la soluzione dei
problemi. Spesso dobbiamo ammettere umilmente di non avere risposte e che tutto
ciò che possiamo fare è rivelare e partecipare ai poveri in lotta e agli
oppressi del mondo, l’amore e la compassione, ancor più la passione del
nostro Dio verso di loro. Noi dobbiamo essere una Chiesa che rigetta ogni forma
di potere e di controllo, specialmente all’interno stesso della Chiesa in ogni
parte del mondo. Noi dobbiamo essere una Chiesa in cui i piccoli della terra si
sentano salvi, protetti, capiti, supportati e amati. Noi dobbiamo essere una
Chiesa che rifiuta il compromesso anche a costo dell’emarginazione e che, in
ogni occasione, sceglie i valori del Vangelo di Cristo. Noi dobbiamo essere una
Chiesa che coraggiosamente denunci ogni forma di ingiustizia e di oppressione.
Una Chiesa che stia accanto ai poveri nella lotta che essi ingaggiano per
ottenere quella vita dignitosa che spetta ad un popolo fatto ad immagine di Dio.
Tutto ciò dobbiamo fare pur sapendo che in tal modo il martirio dei religiosi
continuerà fino a quando non ci sarà la vera pace e finalmente lo sviluppo
economico sarà basato sulla giustizia.
Ti saluto, fratello mio, Oscar Romero. I poveri
del Salvador esultano in te come i loro fratelli e i loro leader. Io gioisco in
te come dono di Dio offerto a me e al mio popolo in Sudafrica. Tu ci hai
mostrato che il desiderio di Gesù può e deve essere soddisfatto, Gesù che
disse: “Io sono venuto affinché essi possano avere vita, e vita nella
pienezza” (Gv 10,10).
Traduzione a cura di Donatella Rega