TESTIMONI

Il ponte della pietà

Martiri per la libertà. Per fede. Ricordi di una resistenza.
Per ripetere a chiare lettere che la guerra è un abominio.
Marco Malagola (francescano)
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Quarona 14 agosto 1944

Sono un francescano, ormai alle soglie degli ottanta. Anni turbolenti hanno funestato e insanguinato la Val Sesia dall’armistizio dell’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945. Di quel periodo si affolla nella mia mente un fiume di ricordi.

Con altri miei confratelli, studenti di liceo, vivevo nel convento Sant’Antonio da Padova di Varallo Sesia, provincia di Vercelli. In comunità eravamo sufficientemente al corrente di quanto accadeva nella regione, grazie al nostro professore di filosofia, padre Giulio Mietta, osservatore attento della situazione di conflitto che si era creata dopo quel tragico e disastroso armistizio. La situazione alimentare era grave. Le distribuzioni di cibo venivano fatte con frequenze ridotte e, a volte, a intervalli di qualche settimana. Il quadro era desolante; la carenza di generi alimentari e il razionamento delle derrate fondamentali non garantivano pane a sufficienza; i più colpiti erano i bambini e gli anziani. Noi frati andavamo questuando nei paesi circostanti presso contadini, affidandoci alla generosità della gente: qualche patata, castagne, mele, rape, e così via. Si tirava realmente la cinghia. Si imparava e ci si educava ad aver bisogno di poco e semplificare la vita. Poi vi era lo stillicidio dei posti di blocco e dei coprifuoco che limitavano la libertà di movimento con gravi danni causati dalle emergenze di malattia e dai ricoveri urgenti presso le strutture sanitarie.

Ogni giorno giungevano notizie di violenze, imboscate, scontri armati con morti e feriti, incendi mirati di case e di villaggi interi per rappresaglia. Rammento di aver assistito, dalla finestra della mia cella, alla macabra scena di una fucilazione simulata sul piazzale delle scuole della città: esattamente come un tiro al bersaglio, e il bersaglio erano prigionieri partigiani di turno. Una vera palestra del terrore. Il convento era diventato rifugio e crocevia di incontri: si trattava per lo più di prigionieri alleati fuggiti dai campi di concentramento della pianura padana. Militari italiani che, sorpresi improvvisamente dall’annuncio dell’armistizio, abbandonavano alla disperata le caserme con mezzi di fortuna e, in travestimenti borghesi, raggiungevano i paesi d’origine o prendevano il via della montagna per sfuggire all’internamento forzato in Germania; erano sbandati che bussavano alla porta del convento a tutte le ore del giorno evitando la pericolosità della sera e della notte normalmente sottoposte a severo coprifuoco. Non mancavano, com’era d’aspettarsi, le incursioni improvvise dei nazifascisti alla ricerca di presunti fuggiaschi; le forti e insistenti scampanellate alla porta del convento segnalavano il loro arrivo. Era il provvidenziale campanello d’allarme che ci permetteva di nascondere tutto ciò che c’era da nascondere e far finta di niente. Esigevano con autorità l’incontro con il superiore del convento, un fratone alto e grosso con il sigaro in bocca sempre acceso, e lì iniziava il serrato balletto degli interrogatori investigativi facilmente immaginabili. Grazie a Dio ne siamo sempre usciti fortunatamente indenni. Ma il nostro contributo andava ben oltre. Non ci si limitava alla semplice francescana accoglienza.

Il Ponte della Pietà

Era il 14 agosto 1944. Mi trovavo in convento in procinto di partire per Novara per motivi di salute. La linea ferroviaria era stata fatta saltare qualche settimana prima nel tratto Varallo- Romagnano, per cui occorreva raggiungere Romagnano con mezzi di fortuna e da là proseguire in treno per Novara. Sul punto di lasciare il convento, padre Giulio – che non si risparmiava nella mediazione per lo scambio e il rilascio dei prigionieri partigiani o fascisti – mi fece intendere, tra il sibillino e il misterioso, che lungo la strada, con ogni probabilità, sarei andato incontro a una brutta sorpresa.Al momento non compresi a cosa alludesse di preciso; ma, purtroppo, così fu. Partii dunque da Varallo alla volta di Romagnano con altri tre passeggeri su un carretto di fortuna. Eccomi apparire, oltre la curva, sul fondo, la sagoma grigiastra di quel maledetto ponte. Mi resi immediatamente conto della situazione.

In basso, sulla sinistra della strada, dove ora è sistemata la lapide commemorativa, sostavano, in piedi, cinque giovani, sul cui viso si notava una mestizia profonda e una incredulità inconscia della propria sorte. Nel frattempo, sul ponte, alcuni militari stavano trafficando per mettere a punto la macabra operazione; altri erano sparsi a semicerchio attorno all’area della presunta esecuzione. Mi diressi verso quei cinque partigiani i quali, al vedermi arrivare, sembrò loro fosse giunta l’ora della speranza. Li guardai amabilmente in volto. Ebbi appena il tempo di dire loro: “Coraggio, il Signore sia con voi” che fui preso di forza per un braccio e trascinato da una parte.Era il comandante del plotone, un giovane attorno ai vent’anni. “È già molto che lei sia qui” – mi apostrofò – “sappia che i miei uomini sono morti senza alcun conforto. Non si permetta di muovere un dito altrimenti la faccio cacciare via”. Detto questo, i cinque vennero fatti salire sul parapetto del ponte. Vennero fissate alle rotaie del treno le estremità di cinque corde e al collo di ciascuno fu applicato il nodo scorsoio. Quando tutto fu pronto per l’ultimo atto, il comandante del plotone, in piedi, a poca distanza, pronunciò un breve discorso nel quale si motivavano le ragioni dell’esecuzione capitale riferendosi soprattutto alle luttuose precedenti imboscate partigiane contro reparti nazifascisti.

Io rimasi ritto sulla strada, solo; attorno, militari in assetto di guerra visibilmente tesi per timore di un eventuale attacco partigiano di sorpresa. Dall’alto del ponte i cinque patrioti mi guardavano imploranti, ma serenamente rassegnati. Attorno, un silenzio profondo. Fu allora che, immediatamente, io presi la parola. Fu certamente una forza interiore che mi spinse a intervenire e a mettermi sulla bocca parole di estremo e cristiano saluto a quei poveri ragazzi. “Miei cari fratelli, – gridai – è giunto il momento del vostro incontro con il Signore. È giunto il momento di mettere nelle mani di Dio le vostre anime. Come Gesù voi siete giustiziati. Innocenti come lui, perseguitati come lui. Dall’alto della croce Gesù ha perdonato ai suoi crocefissori.Perdonate anche voi!”. Dal ponte, ricordo benissimo, un sommesso, ma chiaro segno di perdono. Dopo di che, un ordine spietato... Un tonfo... uno stridore di corde... Corpi volteggianti e penzolanti nel vuoto a ridosso della fiancata del ponte. Una scena raccapricciante. Poi, la violenza dello strattone fece rompere la corda di uno di essi, e, qualche minuto dopo, un’altra corda spezzata. Due partigiani, uno dopo l’altro, piombarono ansimanti e boccheggianti, ma ancora vivi, sulla strada sottostante.

Mi avvicinai immediatamente al primo, il meno giovane degli altri, che giaceva a terra. Il nodo scorsoio si era allentato. Il povero partigiano poteva appena farfugliare qualcosa. Gli presi il capo tra le mani. Lo baciai. Ci guardammo con occhi inondati di pietà. Gli porsi il crocefisso da baciare...non avevo che quello, unito alla corona del saio, ma per la seconda volta, incredibile, il comandante, che nel frattempo era sceso in tutta fretta dal ponte, mi strattonò con rabbia, mi trascinò al lato della strada e, urlando, mi minacciò qualcosa di indefinibile imponendomi di andarmene e interessarmi dei fatti miei. Confesso che non ci vidi più; lo affrontai a viso aperto; con quanta voce avevo in corpo, gli rinfacciai la crudeltà di quanto stava succedendo; invocai in nome della giustizia e del diritto internazionale la revoca della condanna per i due patrioti che giacevano a terra, imploranti, rimasti ancora in vita; e poi, non potei astenermi dal minacciare il giudizio di Dio su quanti si rendevano responsabili di una simile atrocità contro l’uomo e l’umanità. Alle mie parole il comandante non fiatò. Rimase profondamente turbato. Ma l’ufficiale non ebbe il legittimo coraggio della disubbidienza alle autorità superiori.

Quando rimise il laccio al collo dei due patrioti sopravvissuti e li faceva precipitare nel vuoto, con gli occhi rivolti a quei giovani martiri della libertà, inginocchiato sulla strada polverosa, assistevo, pregando, all’ultimo atto di questa straziante e crudele Via crucis. Guardai l’orologio. Erano le 16.25. Penso di poterli chiamare “I miei santi impiccati”. Avevo neppure 18 anni quando ho conosciuto in diretta la violenza brutale contro l’uomo, immagine di Dio. Oggi, conservo ancora nel cuore e negli occhi lo sconcertante scenario di quell’afoso pomeriggio. Fu il trauma psicologico e d’immagine più scioccante della mia vita. Ricordo che nei giorni successivi al tragico episodio, per diverse notti mi appariva la macabra scena del ponte. In quei terribili momenti, oltre l’aiuto di Dio, mi fu compagno il coraggio che non ho mai perso... Mi viene di pensare a Dietrich Bonhoeffer, uno dei grandi teologi protestanti, protagonista della resistenza al nazismo, che pagò con la propria vita la sua testimonianza e fedeltà al Vangelo. Anche lui, come i nostri martiri del Ponte della Pietà, fu impiccato a 39 anni nell’aprile 1945. “La guerra è contro la ragione”, affermava Giovanni XXIII. “Quando capiremo la lezione dei morti, allora finirà l’odio e ogni divisione”. È un’affermazione di Primo Mazzolari che mi sembra, anche oggi, quanto mai valida. Le vittime di tutti gli olocausti insegnano agli uomini di oggi a non ripeterli più. I morti sono tutti uguali, a qualunque denominazione politica o razziale appartengano. È nella morte che ci ritroviamo fratelli.

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