CHIESA

Un problema d’amore

A colloquio con Mons. Loris Capovilla. Il segretario di papa Giovanni XXIII ci parla dei suoi occhi. Della sua grande capacità di amare.
Nandino Capovilla (Pax Christi)
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Cento anni fa don Angelo Roncalli compiva un pellegrinaggio in Terrasanta che la sua diocesi di allora, la diocesi di Bergamo, quest’anno ricorda a sua volta promuovendo laggiù un altro pellegrinaggio. Il sogno di pace, che già allora papa Giovanni portava nel cuore per il mondo e per quella terra in particolare, non si è ancora avverato...

Era quello il terzo pellegrinaggio nazionale in Terrasanta. Il primo avvenne nel 1902, il secondo nel 1904, il terzo appunto nel 1906. Don Angelo Roncalli, venticinquenne, era allora il segretario di Giacomo Maria Radini Tedeschi, canonico vaticano, professore di sociologia, molto legato all’Azione Cattolica. Angelo Roncalli partecipa da subito a quella vita vasta, che non riguarda più solo la sua diocesi di Bergamo, ma che possiede già un respiro europeo e poi anche mondiale. Affronta questo viaggio, faticoso all’epoca, come “cronista di viaggio” della delegazione, dal 20 settembre al 20 ottobre di quell’anno. Della sua tappa a Nazareth resta ancora una foto, che ritrae un’immagine viva del giovane ragazzo che era: tale era prima e tale è stato dopo, fino alla fine. È guardando questa foto che posso dire ai bambini: “Guardate che ho visto morire non un vecchio di 81 anni e sei mesi, ma un bambino di 81 anni e sei mesi”. Aveva gli occhi limpidi e belli di un bambino e il sorriso chiaro e pulito che saliva dal cuore alle labbra.

Questo pellegrinaggio ha lasciato un segno chiaro e profondo in papa Giovanni, non solo per il suo amore per la Terrasanta, non solo per i problemi legati all’ortodossia e ai luoghi in cui ha vissuto Gesù e che appartengono a tutti coloro che amano la verità, la giustizia, il bene.Per lui era chiaro che Gesù appartiene al mondo intero, a prescindere da chi lo accetta come figlio di Dio e Messia universale; perché Gesù è un grande benefattore di tutta l’umanità. Perciò i luoghi santi sono santi per noi e per tutti.

Recentemente la Santa Sede è intervenuta a proposito della situazione drammatica che la Giovanni XXIII Terrasanta continua a vivere. Oggi l’occupazione militare rende queste popolazioni ostaggio di quanti si illudono di poter risolvere i tragici problemi della regione in modo unilaterale. Ma la pace può arrivare solo se si riprende con pazienza e fiducia un dialogo vero e serio. Alla luce della Pacem in Terris, come si potrebbe affrontare oggi il processo di pace laggiù?

Uno degli incontri che in Terrasanta hanno toccato maggiormente l’umanità intera, è quello tra Francesco d’Assisi e il sultano locale nel 1219 durante la quinta crociata. Quando Francesco, disarmato e macilento, entra nell’accampamento nemico, viene incatenato e portato al cospetto del sultano. Saputo che non è armato, il sultano lo libera dalle catene e gli chiede: “Cristiano, volevi forse battezzarmi?”. Risponde Francesco: “No, solo venirti a dire che ti amo”. E così io penso a quella terra e a tutte le persone, laggiù e nel mondo, cristiani, musulmani, ebrei, non credenti ricercatori delle cose grandi e belle di questa terra che appartiene a tutti.

Che cosa direbbe oggi un santo, non solo papa Giovanni, di fronte a tutto ciò? “Vengo disarmato da voi e vengo a vivere come voi e con voi”. Lo so che non è facile. Non dobbiamo stancarci di sottolineare gli aspetti, gli esempi, gli scritti che non sono mancati in questi 58 anni di situazione tragica. Martin Buber, uno dei più grandi biblisti, non era d’accordo con l’esecuzione capitale di Eichman. I giovani di allora, pur essendo buoni e generosi, leggevano questo come un cedimento: bisogna punire il colpevole. Ma dobbiamo rompere la spirale dell’odio. Il problema non è più politico o economico. È un problema d’amore. Essere capaci di amare sfonderà la fortezza terribile che ancora ci separa e ci tiene lontani. Penso a Bruno Hussar e alla sua creazione... ebrei cristiani e musulmani che vivono e pregano insieme: sono inizi, spiragli di luce. Stiamo camminando.

La Pacem in Terris è sempre stata per tanti, in particolare per Pax Christi, una tabella di marcia, un punto di riferimento. Ogni volta ci appare sempre attuale per il suo coraggio di intuire un ordine mondiale e per la chiarezza di saper leggere i segni dei tempi. Oggi però le scelte vanno verso altre direzioni. Sembra non si ricerchi più la pace nella giustizia.

A me pare che da molti, se non da tutti, sia stato trascurato il quarto pilastro. Papa Giovanni auspicava un nuovo ordine mondiale fondato sulla verità, sulla giustizia, sull’amore e sulla libertà. Riguardo ai primi tre ci siamo messi in marcia, anche se non ci siamo arrivati. È sulla libertà che sembriamo non essere d’accordo. Libertà significa che non posso umiliare il mio dirimpettaio, ed egli non deve essere costretto a capitolare davanti a me. Il mio dirimpettaio è qualcuno con cui devo imparare a parlare. Non siamo ancora capaci di colloquio, ma di soliloquio e di imposizione. Se mi prefiggo di parlare cento volte, cordialmente, lentamente, con pazienza, con rispetto e in attesa... poi deciderà qualcun altro domani. Papa Giovanni era un uomo ostinato. Quando voleva una cosa, voleva arrivarci davvero.

Ma diceva anche: “Per ottenere ciò che credo saggio e doveroso da parte mia, che credo importante per il bene dell’umanità, non schiaccerei una mosca”. Ha seguito questo suo principio nelle piccole come nelle grandi cose, sempre. Quando ha ipotizzato il Concilio, mi ha dato una grande lezione, che vi trasmetto, perché valida anche in questa situazione. Anziano com’era, ha iniziato a pensare al Concilio. Ed è evidente che il figliolo, di fronte al padre anziano che vuole intraprendere una nuova costruzione, pensa: “Papà! Tieni conto che sei vecchio”.

Mi disse un giorno: “Ti ho parlato più volte di questo progetto: come mai non mi dici nulla? Lo so perché. So cos’hai pensato. E che mi vuoi bene. Ma chi verrà dopo, concluderà. Tu credi che noi siamo chiamati a ‘fare’ una cosa. Ma noi abbiamo un’illuminazione e la trasmettiamo. Poi la avvieremo. Potremo fare anche qualche passo avanti. Poi ci arresteremo e arriverà qualcun altro.Non serve che lo facciamo noi”. Per operare per la pace e per la riconciliazione bisogna mettere il proprio io sotto le scarpe e non preoccuparsi di come andrà a finire. E ci sono delle porte che si possono attraversare solo in ginocchio, in umiltà e in preghiera, come la porta della Basilica della Natività.

Don Loris, faccia un augurio a chi nella Chiesa italiana si mette al servizio della pace. Ci sembra di dover essere sempre più ostinati per la pace: ma con che qualità da esercitare ogni giorno? Credo che ciascuno di noi prima di tutto debba avere una vita spirituale e culturale fervida e sempre vegeta. Coltivate la giovinezza dello spirito. Anche a novantun’anni come me si può sentire il desiderio di ricominciare daccapo, se occorre.

Sappiate tendere la mano al bimbo e al vegliardo. Siate consapevoli che con il pessimismo e la paura non si va da nessuna parte. Testimoniate giorno per giorno, anche in silenzio, anche dal fondo di un letto. Informatevi di quello che accade, secondo la bella espressione di papa Giovanni, Omnia videre: abbiate un vasto panorama davanti a voi. Della casa, della comunità parrocchiale, del quartiere... via via fino al mondo tutto. Siate contenti della civiltà greco-latina in cui siete cresciuti, ma volgete gli occhi al di là del bacino del Mediterraneo... Sappiate guardare alto e lontano, senza pessimismi, senza paure. Senza disperazione, senza esclusivismi. Perché Cristo sia accostato all’uomo così com’è e non come dovrebbe essere secondo il suo disegno. Pensate al passato per venerarlo, ma non per eternarlo. Vivete il presente senza spaventarvi e guardate al futuro con enorme fiducia. Enorme. E se avrete fatto qualcosa di bene, perché dubitare degli altri che verranno dopo di voi?

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