Il sangue dei martiri

In pasto alle belve. Martiri per salvare il popolo.
Rileggiamo il magistero della Chiesa cattolica.
Mons. Alvaro Ramazzini (Presidente della Conferenza episcopale del Guatemala)

Come tutti voi sapete, il termine martire, come testimone della fede, è nato in un ambito cristiano, indicando sin dalle origini i fedeli cristiani che davanti ai tribunali pagani testimoniavano la fede in contrapposizione a quelli che la abiuravano. Questi che abiuravano la fede sono chiamati nella lingua latina lapsi, cioè caduti. E c’è stata una grandissima controversia teologica, nei primi secoli del Cristianesimo, sul fatto se questi lapsi dovevano o no essere reinseriti di nuovo nella comunità cristiana. Quindi per tutti noi è molto chiaro che martire significa testimone.
Le conseguenze di tali testimonianze della fede cristiana rese pubblicamente erano le torture, le sofferenze fisiche, fino alla morte. Infatti il contesto storico nel quale si sviluppa l’esperienza del martirio è il contesto delle persecuzioni, perché era vietato diventare cristiano e la professione della fede cristiana era considerata un delitto. E bisogna qui ricordare l’editto di Nerone, il quale proibiva di professare pubblicamente la fede: tutti coloro, uomini e donne, che si confessavano cristiani pubblicamente, erano puniti con la morte. Quindi testimonianza pubblica della fede fino alla morte determinano alle origini il concetto di martire.

In pasto alle belve
Nel catechismo della Chiesa cattolica, al n. 2473, troviamo questa descrizione: “II martirio è la suprema testimonianza resa alla verità della fede. Il martire è un testimone che arriva fino alla morte. Egli rende testimonianza a Cristo, morto e risorto al quale è unito dalla carità. Rende testimonianza alla verità della fede e della dottrina cristiana, affronta la morte con un atto di fortezza”. Ed è interessante che in questi numeri del catechismo della Chiesa cattolica viene citata quella lettera molto famosa di Sant’Ignazio di Antiochia: “Lasciate che diventi pasto delle belve. Solo così mi sarà concesso di raggiungere Dio. A nulla mi gioverebbero tutto il mondo e tutti i regni di quaggiù. Per me è meglio morire per unirmi a Gesù Cristo che essere re fino ai confini della terra. Io cerco colui che morì per noi, io voglio colui che per noi risuscitò. Il parto è imminente”.
Poi il termine martire ha avuto dei cambiamenti di significato. Durante il primo periodo del Cristianesimo è successo che il termine martire è stato usato esclusivamente riferito a qualsiasi cristiano morto a causa della fede. Nella seconda era del Cristianesimo viene precisata una distinzione molto importante tra confessori della fede e martiri. I confessori della fede sono quelli che hanno sofferto a causa della testimonianza della loro fede, ma non hanno sofferto la morte. Martiri saranno tutti quanti hanno sofferto la morte. Alla fine del secolo IV si mantiene ancora questo significato. Con la fine delle persecuzioni la ricerca del martirio diminuisce ed è sostituita dalla ricerca della santità.Tuttavia la fine della persecuzioni non ha interrotto la serie dei martiri: il cosiddetto martirologio è pieno di figure di santi martiri di tutte le epoche.

Il magistero
In questo senso è importante andare a esaminare il magistero di Giovanni Paolo II sul martirio e sui martiri, anche perché non soltanto parla dei martiri del secolo XX, ma parla anche di persecuzioni religiose del nostro secolo. E il

Scaffali
Raccomandiamo soprattutto l’eccellente numero 1 del 2003 di “Concilium. Rivista internazionale di teologia”, edita dalla Queriniana di Brescia dedicato interamente a Ripensare il martirio.Contiene articoli di Sobrino, Tamez, Okure, Freyne, Gonzalez Faus, Mesters, Wilfred, Evers, Melloni (interessante il suo articolo Soffrire a causa della Chiesa), Casaldaliga (del quale abbiamo qui ripreso la “lettera aperta ai nostri martiri”).
Interessanti per i loro contenuti e ricchi di indicazioni bibliografiche sono i libri:
Mirella Susini, Il martirio cristiano esperienza di incontro con Cristo, Edb, Bologna 2003;
Id., I martiri di Tibhirine, Edb, Bologna, 2005;
Natalino Venturi (a cura di), Testimoni dello Spirito, santità e martirio nel secolo XX, Edizioni Paoline, Milano 2004.
suo magistero in questo senso è abbondantissimo: basti pensare che ha beatificato e canonizzato in più di trenta cerimonie molti martiri del XX secolo. Certo, in questo momento possiamo domandarci: come mai l’arcivescovo Romero non è stato né beatificato né dichiarato santo? Mi piace molto la frase di dom Pedro Casaldaliga [vescovo emerito della prelatura di São Félix, in Brasile – N.d.R.] quando ha detto che il processo di canonizzazione dell’arcivescovo Romero dobbiamo farlo noi, nel senso di assimilare i suoi atteggiamenti e impegnarci per le sue cause. In un discorso che Giovanni Paolo II fece quando il 26 febbraio 1981 visitò a Nagasaki la Collina dei Martiri, disse: “Oggi voglio essere uno dei tanti pellegrini che vengono qui alla Collina dei Martiri in Nagasaki, nel luogo dove i cristiani, con il sacrificio della loro vita, sigillarono la loro fedeltà a Cristo. Essi hanno trionfato sulla morte con un atto insuperabile di lode al Signore”. Il Papa confermò queste parole con due citazioni del vangelo di Giovanni:“Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici”. Poi sappiamo che il Vangelo dirà anche che un amore ancora più grande sarà dare la vita per quelli che mi considerano loro nemico. Quindi questo è l’amore più grande. L’arcivescovo Romero diceva che lui amava tutti, amici e nemici, e che pertanto era disposto a dare la propria vita perché amava.
Ringrazio Dio – disse ancora il Papa a Nagasaki – per la vita di tutti coloro, ovunque essi siano, che soffrono per la loro fede in Dio, per la loro lealtà a Cristo Salvatore, per la loro fedeltà alla Chiesa. Ogni epoca passata, presente e futura produce per l’edificazione di tutti brillanti esempi della potenza che è in Gesù Cristo”. E qui c’è allora un altro elemento che credo sia importante dire: il martirio è sempre una vocazione, cioè una chiamata che Dio fa, non soltanto nel fatto di chiamare la persona, ma anche per darle la forza di non rinunciare e di non cadere nella tentazione della debolezza umana.
Il 25 agosto 1996 Giovanni Paolo II rilevò: “In duemila anni di storia ai cristiani è stata chiesta non poche volte la prova suprema del martirio. Restano vivi nella memoria soprattutto i martiri della prima era cristiana. Ma anche nei secoli successivi sono molti coloro che in diverse circostanze hanno versato il sangue per Cristo, tanto in oriente, quanto in occidente. La divisione che purtroppo è intervenuta tra le Chiese non rende meno prezioso il loro sacrificio. Ai martiri si rivolge con particolare intensità la venerazione del popolo di Dio che in essi vede rappresentata dal vivo la passione di Cristo. Il sangue dei martiri, diceva Tertulliano, è seme di nuovi cristiani. Esso è anche linfa di unità per la Chiesa, mistico corpo del Cristo. Se al termine del secondo millennio essa è diventata nuovamente Chiesa di martiri, possiamo sperare che la loro testimonianza, raccolta con cura nei nuovi martirologi, e soprattutto la loro intercessione affrettino il tempo della piena comunione tra i cristiani di tutte le confessioni e in special modo tra le venerate Chiese Ortodosse e la Sede Apostolica”.

Dare la vita per il popolo
Il senso profondo del martirio è dare la vita per cercare di conformarci al Signore Gesù che ha fatto questo, che ha dato la vita per ciascuno di noi, nemici e amici, senza nessuna differenza. Il caso dell’arcivescovo Romero è chiarissimo: era disposto a dare la sua vita per il suo popolo. Una volta alcuni sacerdoti del Salvador, che l’hanno conosciuto bene, mi hanno riferito che spesso, dopo l’omelia che teneva sempre la domenica, lui diceva: “Che cosa ho detto oggi che vi ha fatto spaventare?”. “Ah, monsignore, ha detto questo e questo”. E lui rispondeva: “Ma io non pensavo di dirlo. Credo che sia stato lo Spirito Santo che mi ha spinto a dire queste cose”. Poi aggiungeva: “Adesso ho paura di quello che ho detto, ma quando l’ho detto non ho avuto paura”. Credo che il martirio sia un segno dei valori trascendenti, di un’azione di Dio che va al di là delle capacità umane e che va anche al di là delle strategie umane. E per questo forse alle volte il martirio diventa confuso, non per il fatto stesso del martirio, ma per le circostanze. E ritengo che questo accade nel caso dell’arcivescovo Romero. Forse dovremmo chiedere, come è scritto nel libro dell’Apocalisse (cfr. 3,18), un po’ di collirio per poter vedere con molta chiarezza. E certamente di questo collirio abbiamo bisogno tutti, perché così potremmo vedere le cose come sono in realtà davanti a Dio. Chiediamo al Signore la grazia che ciascuno, nel suo proprio ambiente, sappia vivere questa conformazione al Signore Gesù Cristo. E poi il resto sia quello che Lui vuole.

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