Discepoli della prima ora
Andrea
Riccardi chiama il Novecento il secolo del martirio (è il titolo di un
suo saggio pubblicato da Mondadori qualche anno fa), con sorpresa di chi è
ancora abituato a collocare l’età dei martiri nell’antichità cristiana; in
effetti il numero di persone morte perché cristiane è impressionante nel
secolo XX, anche se occorre tener presente che non si tratta solo di singole
vicende di fede e di coraggio, piuttosto di vere e proprie stragi di massa
dovute al fatto che si trattava di cristiani. Un evento di massa da un certo
punto di vista è più imponente, ma può risultare più debole da un altro
punto di vista (infatti le caratteristiche e la fede della singola persona
tendono a sfumare).
Don
Andrea Santoro
Sei mesi fa ha suscitato molta emozione nella Chiesa italiana l’uccisione, a Trabzon in Turchia, di don Andrea Santoro: è morto nella terra che aveva scelto, in quello che chiamava “un mondo caro a Dio” e nel quale sentiva di dover aprire una finestra per consentire uno scambio di doni tra la Chiesa cristiana d’Occidente e quella d’Oriente, tra Cristianesimo e Islam. Non voleva convertire nessuno, ma testimoniare con il dialogo, con il proprio esserci, con il leale ascolto dell’altro: “incoraggiare un dialogo sincero e rispettoso tra il patrimonio cristiano e il patrimonio musulmano, una testimonianza del proprio vivere e sentire. Attraverso anzitutto la preghiera, l’approfondimento delle Sacre Scritture, l’eucaristia, la fraternità, l’amicizia fatta di ascolto, di accoglienza, di dialogo, di semplicità, la testimonianza sincera del proprio credere e del proprio vivere...”. Aveva detto, in uno dei suoi ultimi interventi pubblici, che “il Medio Oriente deve essere riabilitato come fu abilitato ieri da Gesù: con lunghi silenzi, con umiltà e semplicità, con opere di fede, con miracoli di carità, con la limpidezza inerme della testimonianza, con il dono consapevole della vita”. E appunto il dono consapevole della vita ha avuto il suo compimento domenica 5 febbraio 2006, per mano di un adolescente fanatizzato (che nessuno, per fortuna, pensa a condannare – vittima anche lui, e più debole, perché meno consapevole, e più da compiangere, perché non libero...).
Don Andrea Santoro è martire della fede? Tecnicamente forse no, direbbe qualcuno (perché non si è trovato dinanzi all’alternativa tra abiurare o venire ucciso); per noi è effettivamente un martire, ma soprattutto dell’amore e del dialogo, che del resto costituiscono la visibilità della fede. La sua morte quasi all’improvviso sembra aver caricato di nuova attualità e urgenza per i cristiani comuni, per l’opinione pubblica, un’idea antica quale “martirio”. È certo che la nostra epoca, solo apparentemente meno sensibile agli ideali (sappiamo che comunque la tendenza ai “miti” evidenzia una sensibilità di questo genere, quantunque inconsapevole e banalizzata), di martiri ha ancora bisogno. Noi abbiamo ancora bisogno dei martiri. È giusto non solo venerarli, ma conoscerli per “ascoltarli”, per imparare da loro una nuova parola sull’amore. Guai invece a strumentalizzare il martire: a usarlo per consolidare dentro di noi trionfalismo e orgoglio spirituale, il cui risvolto inseparabile è poi l’esecrazione dell’altro (del “diverso”, del “cattivo”, del persecutore). Venerare i martiri può essere un optional, rispettarli è d’obbligo: e perciò dobbiamo ricordare, anche se può sembrarci un’idea “fredda” nel giusto entusiasmo suscitato dal loro agire eroico, che rispettare il martire significa in primo luogo non appropriarsi del suo sacrificio, non strumentalizzarlo, non farne una bandiera.
Il
martirio nelle fedi
Il
martirio come idea, come esperienza (osservata negli altri, udita narrare) e
come lavoro sull’esperienza, è fondamentale nelle religioni e nella loro
vicenda storica. Il martirio è un grande strumento di propaganda, in rapporto
con i valori fondamentali e assoluti: vi gioca un ruolo decisivo il significato
attribuito alla morte (e perciò alla vita) in quel contesto religioso. In un
certo senso, il martirio permette di “controllare” non certo la morte, ma il
suo significato. Così avviene che ogni comunità religiosa, ogni gruppo plasmi
il culto dei propri martiri e il racconto delle loro gesta in forme quasi epiche
e mitiche, soprattutto in passato, quando le possibilità di aver notizie
precise o di controllare le fonti storiche erano tanto al di sotto di quelle di
oggi. La testimonianza del martire è preziosa perché fa sentire liberi di
fronte al mondo, superiori ad esso. Ne era già ben consapevole Tertulliano,
quando nell’Apologeticum scriveva ai pagani: “Ogni volta che siamo
mietuti da voi, diventiamo più numerosi: il sangue dei cristiani è semente!”
(Plures efficimur quotiens
metimur a vobis; semen est sanguis christianorum). Le gesta dei
martiri rinsaldano l’identità e le convinzioni del gruppo, rafforzano
l’appartenenza religiosa. Diciamo l’appartenenza religiosa, che non è
necessariamente sinonimo di fede. Perciò l’immensa forza del martirio ci
appare strettamente aggrovigliata ai rischi possibili che vi sono impliciti.
Rischi di cui la Chiesa appare consapevole fin dalle origini: venera i martiri,
unisce strettamente il culto proprio e la loro memoria, nello stesso tempo mette
in guardia i cristiani dall’esporsi avventatamente al martirio.
Sulle
orme di Francesco
Qui
ci torna in mente un episodio dei tempi di Francesco d’Assisi (a cui
ripensiamo spesso in questi anni per la sua scelta atipica proprio nel periodo
delle Crociate: quella di andare tra gli infedeli non a predicare, non a
strappare conversioni, bensì a testimoniare). La tradizione ha voluto affermare
che egli era andato in partibus infidelium con la speranza non troppo
segreta di essere ucciso per Cristo. Non è così. L’accenno al martirio che
si trova anche nel capitolo XVI della Regola non bollata può essere
compreso solo alla luce di una comprensione globale della novità francescana:
Francesco sa, perché i frati in quegli anni hanno incontrato persecuzioni anche
nelle terre cristiane d’oltralpe, che il testimone dell’Evangelo può
trovarsi a essere rifiutato, perseguitato, anche ucciso per il suo ideale e la
sua testimonianza. In tal caso, quando si trovano dinanzi all’opposizione
ostile, i frati non devono negare di essere cristiani, anzi lo devono dichiarare
(confiteantur). Non devono essere vili né rinnegare Cristo: devono
affrontare anche il martirio se occorre. Ma non devono andare a cercarlo.
Il
fatto stesso che Francesco nello stesso passo della Regola ordini ai suoi
di evitare lo stile apologetico, di “non fare liti o dispute” smentisce
l’idea così diffusa tra i primi biografi, che il santo desiderasse il
martirio: anzi, l’ordine di evitare le dispute costituisce un chiaro divieto a
tale ricerca avventata. Vi è a questo proposito un episodio da non dimenticare.
Nell’anno 1220 cinque frati minori avevano raggiunto il Marocco: vi erano
andati a predicare, in senso stretto e secondo lo stile apologetico allora
diffuso. Non conoscevano le raccomandazioni della Regola non bollata, che
del resto apparve solo l’anno seguente, e forse avevano sentito più
l’appello della crociata che quello di Francesco. Certo è che, eroici o no,
si comportarono nella maniera più arrogante e dissennata che si possa
immaginare, mentre i musulmani all’inizio li avevano trattati con una certa
mitezza. Dopo arresti, ammonizioni, liberazioni e trasferimenti, appena liberi
avevano ripreso a predicare in tono esaltato e minaccioso. Alla fine furono
condannati a morte e uccisi il 16 gennaio 1220: secondo il loro desiderio, si
vorrebbe dire. La notizia della loro morte arrivò presto in Italia e Francesco,
appena conosciuto il fatto, comprensibilmente commosso e sconvolto, si dice che
abbia esclamato “Ora posso dire di avere cinque frati minori!”. Non sapeva
altro, all’inizio, se non che erano stati martirizzati per Cristo. Sembra però
che il suo entusiasmo si smorzasse, via via forse che veniva a conoscere in modo
più preciso com’erano andati i fatti. La Cronaca di Giordano da Giano
conserva probabilmente una traccia di questo disagio di Francesco, anche se
agiograficamente interpretato sotto il segno dell’umiltà: i suoi confratelli
tendevano a usare il racconto di quella morte come una benemerenza per tutto
l’Ordine, come una ghiotta pubblicità edificante. Alla fine Francesco giunse
a proibire la lettura degli atti del martirio, dicendo seccamente che ognuno
deve vantarsi, semmai, del martirio proprio e non di quello degli altri.
Testimoni
Martirio
è una parola grande, come l’atto umano a cui si riferisce; ma vi sono alcuni
(e tra questi, umilmente, preferisce inserirsi anche chi scrive), che
preferiscono parlare di testimonianza semplicemente. Ad autorizzarci in questo
senso non vi sono solo l’etimologia – in greco màrtys significa
“testimone”, martyrìa “testimonianza” – e l’uso delle
Scritture; forse l’esempio stesso dei martiri. “Martire” e “martirio”
non sono parole bibliche, anche se si trovano dei martiri sia nel Primo sia nel
Secondo Testamento. La Scrittura conosce i testimoni: testimoni della Parola che
hanno prima ascoltato e accolto. In origine, dunque, i “martiri” cristiani
sono i discepoli e le discepole della prima ora: hanno condiviso l’evento e il
ministero di Gesù, hanno conosciuto la crisi terribile della sua morte e
dell’apparente sconfitta, hanno progressivamente aperto il cuore alla sua
vittoria sulla morte, al senso della sua missione; infine hanno manifestato
queste cose agli altri, con l’autorevolezza che viene appunto dall’essere
stati testimoni e con l’intrepida fiducia (parrhesìa) che è frutto
dello Spirito.
Alcuni
fra questi verseranno poi il sangue per la loro testimonianza, altri no, per
alcuni non possiamo dirlo, perché non lo sappiamo. Ma gli uni e gli altri sono martyres,
testimoni: non è infatti l’essere o non essere stati ammazzati a fare la
differenza, ma, semmai, l’essere o non essere stati fedeli. Nell’Apocalisse
– il libro che più di ogni altro riflette un contesto di persecuzione – Gesù
è detto martire/testimone “vero e fedele” (pistòs kai alethinòs),
potremmo dire il testimone per eccellenza. Con la diffusione del Cristianesimo e
con le prime persecuzioni, cominciano a essere visti come testimoni privilegiati
coloro che restano saldi nella fede nonostante la persecuzione e le sofferenze:
se per caso sopravvivono alla persecuzione, è naturale che si trovino ad avere
una speciale autorità nella comunità cristiana, e vengono chiamati proprio
testimoni, anzi “attestatori” della fede (confessores). “Martire”
e “martirio” sono parole che negli ultimi tempi hanno anche acquistato una
risonanza un po’ ambigua e fondamentalista, al di là del loro autentico
significato cristiano: anche i kamikaze sono pronti a morire non meno che a
uccidere, non mancano certo di coraggio e di convinzione, e chiamano il loro
agire “martirio”. Preferiamo dunque parlare di testimone e testimonianza,
anche per motivi spirituali e, se si vuole, pedagogici. Parlare di martirio
evoca automaticamente qualcosa di eccezionale e sopra le righe, mentre a
testimoniare la nostra fede siamo chiamati tutti; e si può testimoniare solo
con la vita. Non c’è differenza tra le due parole, se non forse di intensità,
di totalità, che però dipendono più dalle circostanze esterne che dalla
disposizione del testimone. Questo infatti, se è tale, è sempre disposto a
rendere testimonianza. E ciò a volte significa solo “starci”, agire in un
certo modo, parlare, tacere, vivere; altre volte significa anteporre
visibilmente alla stessa vita fisico-terrena un valore più alto.
Amore
estremo per la vita
Il
martire non è uno che vagheggia o progetta di farsi uccidere: non è un
aspirante suicida, non è uno squilibrato. No, il martire – il testimone –
è una persona seria, e ama la vita: l’ama a tal punto da non accettare a
nessun patto di banalizzarla. E forse a tutti noi è capitato qualche volta di
chiederci, dinanzi all’esempio dai martiri: sarei capace, io, di fare lo
stesso? Talvolta rispondiamo con un “sì” un po’ esaltato, più spesso con
un sbrigativo e deprimente “no”, ma come si fa a dirlo con parole, e in
stato di quiete? È ben possibile che qualcuno, anche sicuro di sé, possa
cedere nella prova, e che d’altra parte qualcuno persuaso di non avere né un
gran coraggio fisico né una grande forza morale trovi al dunque
inaspettatamente la forza che non credeva di possedere. La forza dei martiri,
come emerge chiaramente dagli Acta Martyrum e dalle Passiones dei
primi secoli, è soprattutto un dono di Dio; ma, come tutti i doni, fonda una
responsabilità, bisogna farsi capaci di accoglierlo. Nella forza dei martiri il
coraggio è solo un ingrediente e non il principale, più importanti sono
l’amore e la solidarietà. Non conduce lontano chiedersi “sarei capace di
affrontare il martirio?”. Sembra più utile per il cammino spirituale
un’altra domanda: sono capace di una forte passione, di un impegno vero, di
desideri infiniti? Sono capace di amare gli altri per il loro valore, per il
loro mistero, non solo come proiezione di me stesso? Una caratteristica del
martire cristiano (ma non vogliamo con ciò affermare che sia un’esclusiva
cristiana) è il perdono: non solo come atto, ma come stile di vita, come
dimensione dell’amore gratuito che da Dio si prolunga nell’essere umano.
Quale che sia la ragione specifica per cui hanno immolato la vita, i martiri
sono sempre martiri dell’amore, e non potrebbero considerarsi martiri
cristiani se non avessero perdonato. Come Gesù, che nel momento supremo
(“Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno”) non solo perdona, ma
intercede e anzi “scusa”, ricerca un’attenuante per quelli che hanno
voluto la sua morte.