Partire dall'altro
Prima tra tutti la giustizia.
Autore del libro Una mentalità ecumenica (Ancora, Milano 2006), esperto di dialogo ecumenico, testimone diretto del Concilio Vaticano II come giovane addetto alla sala stampa per la lingua italiana. Mons. Luigi Sartori è un interlocutore privilegiato se si vuol conversare di ecumenismo. Di passi in avanti compiuti e di difficoltà.
Lo abbiamo intervistato per Mosaico di pace.
Nel suo libro-intervista a Giampietro Ziviani lei, mons. Sartori, sostiene che “l’ecumenismo non ha più così bisogno dei teologi. Perché adesso è piuttosto l’ora dei pastori e delle decisioni”. Quali sono oggi, a suo parere, le priorità e i passi più urgenti e possibili da compiere nel cammino ecumenico?
Nonostante sia teologo e abbia partecipato al cammino ecumenico, sostengo che i passi compiuti a livello teorico abbiano dato ottimi risultati. Basti pensare che le edizioni Dehoniane – per merito di alcuni teologi – hanno realizzato 5-6 volumi in cui si raccolgono i documenti del confronto religioso sui temi principali come i sacramenti, l’eucaristia, il ministero, quello episcopale ma soprattutto del Papa (in merito ai presupposti generali che ci dividono dagli ortodossi, dai cattolici e dai protestanti). Nonostante queste ricerche possono considerarsi esaurienti, di fatto non si è raggiunta piena unità a livello teologico. Perlomeno sono state create delle piste che mandano in avanti il dialogo tra Chiese diverse. Ora devono muoversi i Capi ufficiali delle Chiese, esprimere il loro parere ma, soprattutto dichiarare la propria disponibilità ad attuare quel poco o molto che è stato compiuto a livello teologico teorico.Vale soprattutto per la Chiesa cattolica che ha una struttura istituzionale molto forte. Vale per la Curia romana e per le varie congregazioni, soprattutto per quella del dialogo con le Chiese orientali. Bisognerà mettere in moto processi di ecumenismo pratico e non devozionale, non incentrato esclusivamente nella preghiera ma fondato sull’amore.
In questo senso va letta l’enciclica Deus Charitas Est che è di un’importanza immensa. Il card. Kasper, presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, ritiene che questa enciclica dia un orientamento preciso. Finora il dialogo ecumenico si è incentrato sull’affermazione Deus Veritas Est – Dio è Verità. Adesso il Papa-teologo insiste su un’altra pista: Dio è Carità e Amore.
Dopo il Concilio sono state individuate quattro forme di ecumenismo: quella dei rapporti ufficiali (es. il Papa a Gerusalemme incontra il Patriarca, il Papa che quando possibile manda i suoi visitatori a Mosca), l’ecumenismo che potremmo definire dei “capi”. Brutta parola, ma indica coloro che rappresentano le Chiese. Questo ecumenismo ufficiale è stato inaugurato già durante il Concilio quando Paolo VI raggiunse l’Oriente. La seconda pista è quella teologica, percorsa dai teologi: nei famosi 6 volumi sono confluiti i dialoghi teologici, spesso incentrati sulla certezza che Dio è Verità. La terza pista è stata anticipata prima del Concilio da tanti movimenti: la preghiera, l’ecumenismo spirituale. Questa strada non ha confini. In essa rientra la settimana per l’unità dei cristiani celebrata ogni anno. La quarta pista (che auspico possa diventare presto la prima), individuata con il Concilio, è la cooperazione nel fare del bene all’umanità. Questa è la grande svolta che attendiamo e che rappresenta un bene immenso per l’umanità.
Più che pensare ai problemi interni chiudendoci nell’approfondimento e ampliando l’egocentrismo, dobbiamo guardar fuori, non solo alle altre religioni, ma con esse guardare al mondo. Al centro del vero dialogo ecumenico devono esserci le necessità del mondo: la giustizia, l’uguaglianza, la povertà, la pace. Ormai bisogna lanciarsi nel mondo. Alcuni teologi ebrei come Levinas e Buber hanno affermato che non bisogna guardare all’altro ma, partire dall’altro per capire se stessi. Lavorare con gli altri e sulla loro identità per capire la propria. Questo è il vero ecumenismo per cui dobbiamo lavorare. Più le Chiese penseranno agli altri, più diventeranno Chiese e comprenderanno la propria identità. Questo è il salto che attendiamo. In questo senso il card. Kasper ha sottolineato l’importanza dell’enciclica Deus Charitas Est. Ecco perché parlo, anche nel mio ultimo libro, di mentalità ecumenica. In ambito ecumenico sono la mentalità e il metodo che devono cambiare prima che le azioni concrete che le singole Chiese pongono in essere.
Quali pensa siano le urgenze e le opportunità per l’impegno ecumenico nella specifica realtà italiana?
Vale per l’Italia quanto ho detto per la Chiesa universale, tenendo conto però che l’Italia era ed è una Chiesa particolare, prima di tutte le altre, non nel senso di onore e gloria, ma nel senso che deve ascoltare la voce prima delle altre Chiese, deve realizzare per prima ciò che è rivolto a tutte le Chiese. Noi, come Chiesa italiana, siamo obbligati ad essere i primi auditori. Dobbiamo essere davanti alle altre, ai primi banchi. La Chiesa italiana deve essere il terreno di verifica. Lo è stato anche in passato, ma nel senso conservatore. La Chiesa italiana è sempre stata il terreno e il luogo in cui si radicavano le norme rigide, valide poi per la Chiesa universale. Era la prima obbediente, la prima esecutrice delle norme. Roma appariva come una sorgente di normative e di orientamenti teologici. Persino molti documenti sono stati scritti parlando sì alla Chiesa universale, ma tenendo presente la Chiesa italiana. Oggi invertire la rotta: l’Italia deve divenire terreno di verifica propulsiva. Mentre prima prevaleva il principio della immediata e pura obbedienza, oggi – dopo il Concilio – deve essere privilegiato il principio della ricezione e deve essere favorito un atteggiamento di creatività. Non solo obbedienza, quindi, ma verifica creativa dei principi, dimostrando i limiti di un orientamento per sottolineare gli aspetti da valorizzare di più... La parola ricezione indica non l’obbedienza passiva, ma un accoglimento positivo, creativo che metta subito in evidenza la “primavera” alla base del magistero del Papa. Ecco, quindi, di cosa ha bisogno l’Italia oggi: un ecumenismo più agile, più mordente.
Aggiungo però che esistono movimenti che lavorano in questa prospettiva. Ho collaborato per tanti anni, attivamente, al SAE (Segretariato Attività Ecumeniche), fondato e diretto ancora oggi da Maria Viggiani. Rispetto agli altri Paesi, questo movimento ha fatto sì che l’Italia potesse godere di una fioritura che a loro era ignota. L’Italia ha rappresentato la maturazione di teologie ecumeniche all’avanguardia, con una gran ricchezza di dialogo con ortodossi, musulmani, ebrei, e anche buddisti e persino laici senza alcuna etichetta religiosa. Il SAE è un movimento che ci ha “messi in moto” e ha dato primato all’educazione. Non è necessario fare ecumenismo ma educarsi ad avere una forma mentis, un modo di pensare ecumenico.
Tra le linee di riflessione teologica sviluppatesi dopo il Concilio Vaticano II, una delle questioni più complesse, controverse, ma percepite sempre più come ineludibili, è quella che ha per oggetto il pluralismo religioso. Quali pensa siano le acquisizioni raggiunte e i nodi irrisolti su questo terreno?
Già durante il Concilio si parlava di pluralismo religioso. Ora è necessario riprendere un dialogo vero con quelli che una volta si definivano “non credenti”. Oggi è opportuno parlare di dialogo con l’umanesimo laico. Gli umanesimi anzi, al plurale, intendendo quel complesso di umanità che sente il bisogno di cercare una fondazione spirituale, aspirando al divino in senso in senso ontologico, senza attribuirgli nome alcuno. Sono coloro che sentono il fascino della natura spirituale dell’uomo. Oggi questo dialogo è compito del Consiglio per la Cultura: i processi culturali sono, infatti, analoghi ai processi spirituali e teologici. Oggi, potremmo dire che non esistono gli atei. Esistono gli agnostici, coloro che avvertono il mistero ma non vogliono definirlo, non vogliono dargli nome né parole. Sono come i nostalgici del mistero di Dio e – sia pure in modo nascosto e inconscio – aspiranti a Dio. Questo era nel Concilio. Paolo VI è stato un grande uomo: dopo abbiamo riscoperto la sua grandezza, talora occultata da obiezioni o da parole talvolta offensive e non del tutto vere: egli ha voluto “frenare” – è vero – ma per mantenere un Concilio che potesse valere per sempre, che non fosse una festa o un ballo in maschera. Perché il Concilio potesse avere carattere universale, ha dovuto controllarlo, se volete anche moderarlo. È sua l’enciclica Ecclesiam Suam che ha dato attualità al Concilio, dopo i grandi discorsi di papa Giovanni. Adesso si tratta di continuare su questa strada e il problema del pluralismo religioso e dell’apertura dell’uomo religioso è quasi primario. La quarta pista, quella che dà valore alla cooperazione per l’uomo, è fondamentale. Perché la religione è per l’uomo.
Preoccuparci dei nostri fratelli, anche se ebrei o musulmani, è nostro dovere primario. Il nostro affetto per gli altri deve essere “a priori”, indipendente dalle caratteristiche altrui. Dobbiamo avere simpatia per chi soffre, che sia ebreo o che sia musulmano, soprattutto se bambini. Ecco il nostro impegno contro le guerre e del lavoro per l’uomo. Anche questo è ecumenismo.
Uno dei temi irrisolti sul piano ecumenico è quello dell’intercomunione o dell’ospitalità eucaristica. Rispetto all’immediato post-Concilio sono aumentate le restrizioni, fino quasi a negarne la possibilità. Nel suo libro intervista a Giampietro Ziviani, lei lo attribuisce al fatto che “dal 1965 al 1972 si è manomessa l’ermeneutica di alcuni testi conciliari”, col prevalere di “un’interpretazione che ne ha bloccato ogni avanzamento”. Basterebbe quindi recuperare una visione meno ristretta?
Bisogna ricordare che questo Papa – io ho studiato molto l’ecumenismo sui suoi testi, quando era teologo – dà molto valore alla pazienza. Come teologo, io sostengo che sarebbe possibile e peraltro profondamente cristiano ammettere l’intercomunione. Non vedo veri problemi teologici. Preciso però che questo atto grandioso del mangiare insieme deve essere un dono dello Spirito Santo. Non opera dell’uomo, non avvenimento formale.Perché l’uomo facilmente disfa ciò che Dio crea o rende merito proprio ciò che ci è dato. In questo senso leggo alcuni freni posti, soprattutto dopo certe esperienze compiute in epoca recente in Germania, in cui il Concilio è stato applicato con libertinaggio o quanto meno con una libertà eccessiva. Chi fa esperienze innovative deve ricordarsi di farle a nome di tutta la Chiesa. Può essere anche un’esperienza straordinaria, ma prima di compierla bisogna darle questo colore particolare di dono divino e di comunione fraterna. Bisogna che sia veramente chiaro che lo si fa per motivi santi. A volte invece chi compie certe esperienze le fa con una certa vivacità folcloristica. Non si pensa agli immaturi di tutto il mondo, che sono la maggioranza. Dicendo questo non offendo nessuno. Ricordo però, e insisto, che rispetto alle scelte ecclesiali ci vuole preparazione. È più importante prepararsi alla Pasqua che fare la Pasqua, prepararsi al sacramento che poi celebrarlo. È più importante prepararsi all’intercomunione che non farla subito. È un problema di metodo perché l’intercomunione deve essere un frutto finale, maturo, non uno strumento per andare avanti da soli.
“Volesse il cielo che sorgesse una teologia contestuale europea o italiana”: cosa vuol dire con questa espressione? Quali caratteri dovrebbe avere una teologia contestuale?
Tutte le nazioni fanno teologia a partire dal proprio contesto. Recentemente è stata sistematizzata una vera e propria teologia contestuale, spesso abbinata all’America Latina. Non può esserci una teologia universale, deve essere necessariamente contestualizzata perché ogni teologia, per poter diventare universale, deve prima essere concreta e deve saper rispondere ai problemi umani partendo dal contesto – umano, storico, politico – in cui ci si colloca in modo da trasformarsi in dono per tutte le altre Chiese. Altro tipo di impostazioni nel dialogo teologico sono aeree, astratte, decontestualizzate appunto. Oggi necessita una teologia fondata su problemi concreti, che parta dalla persona con le differenze specifiche e del contesto in cui essa vive e opera. Queste mentalità “contestuali” hanno un contributo specifico da offrire. Io sostengo che più la teologia, la fede e anche l’ecumenismo diventano risposta al contesto e ai problemi del contesto, tanto più un domani avremo una vera teologia universale. Il difetto della teologia contestuale di venti anni fa era il rischio che la teologia si chiudesse dentro i contesti. Le teologie dei contesti diversi oggi si devono incontrare, devono fecondarsi a vicenda in modo che ne derivi e fiorisca una vera teologia universale. È bello pensare che un domani la Chiesa di Roma potrà convocare un Sinodo in cui siano invitati non solo vescovi, ma teologi e teologhe, laici, persone impegnate che aiutino la teologia a riflettere partendo dai diversi contesti. Che grande ricchezza potrebbe nascerne! Una vera unità perché nasce delle diversità. Altrimenti l’unità è evanescente.