Diritto alla sicurezza dei diritti
I diritti sono tali se valgono per tutti. Altrimenti rischiano di trasformarsi in odiosi privilegi. L’universalità dei diritti umani non conosce eccezioni: riguarda tutti, uomini e donne, adulti e minori, indigeni e stranieri, liberi e prigionieri. La carcerazione non può e non deve oltrepassare i limiti della compressione temporanea della libertà di movimento. Se così non fosse, la pena si ridurrebbe a mera punizione contravvenendo ai dettami costituzionali che invece le assegnano una funzione risocializzante nel segno della umanità. Oggi la condizione di grave sovraffollamento negli istituti di pena italiani – 56.250 detenuti per meno di 42.000 posti letto regolamentari – costituisce condizione oggettiva di trattamento degradante che pone a rischio i diritti fondamentali delle persone detenute: dal diritto alla vita sino al diritto all’integrità personale, passando per il diritto alla salute.
Verso un modello USA?
Dal 1990, anno dell’ultima amnistia, a oggi la popolazione detenuta è cresciuta quasi del doppio, le persone in esecuzione penale esterna si sono decuplicate, senza che sia parallelamente cresciuta una riflessione culturale e politica su quale sia il trend penale e securtario verso cui si sta dirigendo il nostro Paese. Il rischio, non si sa se calcolato o meno, è quello di una americanizzazione del nostro sistema penal-penitenziario. Il modello statunitense prevede che i diritti e le garanzie siano tutti di tipo processuale ma attivabili solo da chi dispone di risorse tecniche e economiche adeguate. Garanzie e diritti che, viceversa, vanno a fermarsi al momento della sentenza di condanna, dopo la quale vale tutto: valgono le carceri private, valgono le palle al piede, valgono i due milioni di detenuti, valgono i controlli elettronici spersonalizzati e spersonalizzanti, valgono i soldi per uscire con cauzione, vale, last but not the least, la pena di morte.
Rispetto a questo scenario va riproposta l’idea forte della universalità, della interdipendenza e della indivisibilità dei diritti umani, anche delle persone private della libertà personale. Il tasso di civiltà di un Paese si misura, anche, dalla civiltà delle sue galere, dalla dignità garantita ai suoi prigionieri. Le gabbie a cielo aperto di Guantanamo sono un pericoloso segnale che gli Stati Uniti hanno lanciato al mondo: i diritti umani, la legalità internazionale tornano pericolosamente subordinati alla suprema ragion di Stato.
Dal 1984 la tortura è bandita dall’ordinamento internazionale. L’Italia, come sempre, firma e ratifica tutti i trattati internazionali, ma – altrettanto spesso – non adatta a essi la propria legislazione interna. A quasi vent'anni dalla Convenzione delle Nazioni Unite, nonostante gli obblighi sovranazionali, non è stato ancora codificato nel nostro codice penale il crimine di tortura. Reato che lo statuto della Corte Penale Internazionale include fra i crimini contro l’umanità. Qualche anno fa l’allora direttore generale dell’amministrazione penitenziaria, durante i lavori di un convegno internazionale al Senato, sosteneva orgogliosamente che la tortura era un problema che al massimo poteva riguardare i Paesi del Terzo Mondo ma non la civile Italia.
Pochi mesi dopo a Sassari, nel carcere di San Sebastiano, un gruppo di detenuti, in galera non per reati particolarmente gravi, denunciava di aver subito violenze, vessazioni, maltrattamenti. Nasceva, così, la più grande inchiesta nell’Europa occidentale sui pestaggi in carcere. Circa 90 gli indagati; molti con posizioni di vertice nella gerarchia penitenziaria sarda. Nelle scorse settimane sono arrivate le prime condanne, per abusi e percosse. Giusto un anno dopo i fatti di Sassari, prima a Napoli e poi a Genova, le forze dell’ordine, durante alcune manifestazioni di protesta in occasioni di vertici internazionali, davano vita a vere e proprie mattanze. Pochi giorni fa a Roma, nel carcere di Rebibbia, un detenuto, recluso nella sezione minorati psichici, finito dentro per il furto di un motorino, si toglieva la vita. Gli amici della sezione, che nel carcere vengono definiti benevolmente “i mattarelli”, protestano. Scatta la reazione, che svariate fonti sostengono, violenta, eccessiva.
I punti deboli
In tal caso il diritto alla vita, il diritto alla salute, il diritto alla integrità personale vengono messi in discussione. È irrilevante se questo accade perché manca il personale, perché mancano le risorse, perché la formazione professionale è scarsa o non di qualità, perché il sovraffollamento è insostenibile per tutti, anche per la polizia penitenziaria. Resta il fatto, imprescindibile e innegabile, che la vita di un detenuto “mattarello” dipende in tutto e per tutto da chi lo custodisce. Un rapporto di dipendenza morale e giuridica fra custode e custodito che non si può ridimensionare nel garantire la non evasione del secondo, ma deve divenire, un rapporto di promozione e di tutela dei diritti della persona in custodia. Il custode deve essere il primo garante dei diritti della persona custodita, altrimenti viene dequalificata e retrocessa la sua funzione a mera sentinella.
Il sistema di tutela dei diritti delle persone recluse in carceri, stazioni di polizia o dei carabinieri, centri di assistenza temporanea per stranieri, ospedali psichiatrici giudiziari, istituti penali per minori è visibilmente insufficiente. La magistratura di sorveglianza si è oramai lentamente trasformata in giurisdizione della fase esecutiva della pena con compiti di definizione della durata in concreto della carcerazione. Contestualmente ha ridotto nel tempo le sue funzioni di controllo della legalità interna. Sarà per il numero crescente di detenuti o per il numero insufficiente di magistrati di sorveglianza, sarà per la burocratizzazione dell’ordinamento penitenziario, sarà per uno svilimento culturale del ruolo, comunque gli effetti consistono nella riduzione delle visite interne ispettive. I reclami dei detenuti sono giudicati senza vere istruttorie o indagini; le violazioni dei loro diritti hanno una alta probabilità di restare impunite.
Bisogna cambiare
Da alcuni anni si discute nel nostro Paese se introdurre nuove figure di tutela e di promozione dei diritti delle persone private della libertà personale. Lo scorso novembre il Presidente della Camera, all’indomani della visita del pontefice in parlamento, ha promesso sostegno alla ipotesi legislativa del difensore civico dei luoghi di detenzione. Se ne parla da alcuni anni. Tre sono le proposte di legge attualmente pendenti. Nessuna è stata calendarizzata. Mentre con sorprendente velocità vengono proposti, messi all’ordine del giorno, discussi e votati altri disegni di legge in materia di giustizia, rispondenti a ben altri interessi. In giro per l’Europa, e non solo nei Paesi scandinavi, esistono istituzioni analoghe con compiti e funzioni di natura ispettiva, preventiva e mediatoria. D’altronde nei prossimi mesi sorgerà un obbligo normativo a dar vita a organismi indipendenti che controllino i luoghi detentivi. Infatti l’Italia si appresta a ratificare il protocollo aggiuntivo alla Convenzione delle Nazioni Unite sulla tortura che prevede al proprio interno un adattamento in questo senso delle legislazioni nazionali.
Un cittadino su mille in Italia è in galera. Dieci su mille, circa, si trovano nella loro vita di fronte a un giudice penale. Attualmente sono circa 43.000 i poliziotti penitenziari, ma i sindacati lamentano l’insufficienza del personale di sicurezza. Senza sicurezza, dicono, diritti e trattamento sono inesigibili. L’Italia, in percentuale, ha il doppio degli agenti di polizia penitenziaria rispetto alla media europea. Sono comunque pochi? O sono incredibilmente troppi? Nils Christie, teorico abolizionista, provocatoriamente sosteneva che il nostro Paese fosse invece nella condizione ideale, in quanto il rapporto di uno a uno fra guardia e prigioniero renderebbe le carceri inutili: pagando una parte del costo giornaliero di un detenuto (150/200 euro) direttamente al poliziotto, questi potrebbe portarsi a casa il “delinquente” per l’intera durata della pena. L’articolo 27 della Costituzione dice che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato. Esiste, pertanto, un diritto costituzionale alla reintegrazione sociale di cui tutti devono farsi carico, amministrazione penitenziaria, organizzazioni sindacali, collettività sociale e politica. Il diritto alla sicurezza deve fondarsi sulla sicurezza dei diritti, di tutti.