La “lacrima dell’India”

Viaggio nella terra dei Tamil.
3 ottobre 2006 - Anna Contessini

Se l’India del Sud, come molti ritengono, è un paese a sé stante, allora il Tamil Nadu, stato del sud-est, ne è l’emblema. Terra dei Tamil e culla della civiltà dravidica, a differenza di altri stati indiani non richiama molti turisti, al massimo pellegrini e ferventi religiosi indù, ma ha un suo innegabile fascino da destinazione remota. È il vero cuore pulsante dell’India meridionale.
Madurai, uno dei più antichi centri di questa parte dell’India, città piena di contraddizioni per me occidentale, mi attira e mi allontana contemporaneamente: variopinta, intensa, sporca di odori e di colori, affollata da oltre 2 milioni di abitanti, ha un traffico caotico e una grande abbondanza di templi. Parto da qui per il mio viaggio verso la “Lampedusa” indiana. Il mio autista Manikandan e il suo bianco taxi “Tata” mi guideranno in direzione sud-est, sulla statale 49. Prima di imboccarla attraversiamo tutta la città e il dedalo di strade intasate, fangose e brulicanti di gente. Per raggiungere Rameshwaran, a 165 km di distanza, oltrepassiamo bindoville e baraccopoli, zone rurali e piccoli paesi con templi multicolori dai toni pastello e dal sapore disneyano, fertili pianure e centri universitari ultramoderni che sbucano imprevisti tra risaie e palmeti. Un’umanità colorata e affaticata sembra far bella mostra di sé durante tutto il nostro viaggio verso Rameshwaran, l’isola indiana più vicina allo Sri Lanka. Via via che ci avviciniamo all’isola i chek point della polizia lungo la statale si intensificano. Spesso sono incustoditi, altre volte vi è un solo poliziotto, talvolta invece ci fanno segno di rallentare per dare al volo un’occhiata dentro la vettura. Si capisce che è una zona sorvegliata, e che vi sono controlli che in altre località del Tamil Nadu non esistono. Rameshwaran è collegata alla terraferma dall’Indira Gandhi Bridge: un tempo qui vi era il punto di attracco per i traghetti turistici diretti verso lo Sri Lanka, ma oggi ciò è solo un ricordo a causa di un conflitto interno che si perpetua da oltre vent’anni. Lo Sri Lanka, isola in prossimità del sud-est delle coste indiane, è chiamata per forma e vicinanza “lacrima dell’India”. Mi sembra un nome tristemente azzeccato se penso alle tante gocce di pianto dei fuggitivi srilankesi raccolte dall’oceano in questo punto.
Il tratto di mare che separa le due terre, chiamato sulle carte nautiche Adam’s Bridge, è in effetti quasi un ponte, un braccio teso per dare una mano ai profughi che scappano dallo Sri Lanka. Formato da secche sabbiose, isolotti e scogli, che al ritmo delle maree si intravedono o si nascondono, l’Adam’s Bridge è un po’ come i sassolini di Pollicino che guidano, nell’oscurità delle notti indiane senza luna, i fuggiaschi che abbandonano il loro paese in preda alla guerra civile.
Tra il governo dello Sri Lanka e i tamil, etnia minoritaria del paese rispetto all’80% dei cingalesi, ma predominante nel nord-est, vi è un conflitto aperto, da più di vent’anni, che ha seminato oltre 60.000 morti. Dopo brevi periodi di apparente calma, gli scontri dall’inizio del 2006 sono ripresi violenti e sanguinosi, a seguito delle elezioni presidenziali del novembre 2005. A scatenare questa nuova ondata di odio è stata la vittoria dell’ex primo ministro Rajapakse, poco accondiscendente verso le rivendicazioni di autodeterminazione avanzate da sempre dai tamil, che fin dall’indipendenza sono stati discriminati sul piano economico e culturale. Mentre i cingalesi sono buddisti, i tamil hanno una propria lingua ed una propria religione, l’induismo, e si sentono veramente dimenticati, se non osteggiati, dallo stato cingalese che anche in un’emergenza tragica come lo Tsunami del 2004 li ha discriminati rispetto al resto della popolazione. Infatti gli aiuti internazionali ricevuti dallo Sri Lanka in quell’occasione, sono stati ripartiti in modo ineguale tra i tamil e i cingalesi. L’organizzazione indipendentista tamil, chiamata LTTE (Liberation Tigers of Tamil Eelam), più conosciuta con il nome di “Tigri Tamil”, ha risposto a queste prevaricazioni con nuovi attacchi e sono ricominciate le offensive. A luglio, il controllo di un canale di irrigazione strategicamente importante, ha provocato il riacutizzarsi di attentati in una escalation di violenza tra esercito e “Tigri tamil”. La risposta governativa è stata l’uccisione, ad agosto, di 17 operatori umanitari tamil, dipendenti di una Ong francese. Questa carneficina ha accreditato ancora di più la accuse che le “Tigri tamil” fanno al governo circa il proposito dell’esercito cingalese di uccidere non solo guerriglieri tamil, ma indiscriminatamente anche militanti e civili. Tutto il nord, e gran parte del resto del paese, è ormai in stato d’assedio. Ovunque operazioni militari governative e guerriglia delle “Tigri” seminano morte.
Chi può scappa dall’inferno dello Sri Lanka. Famiglie intere fuggono, con la speranza di poter almeno affrontare l’esilio uniti. L’isola di Rameshwaran termina nel suo punto più meridionale con la lunga striscia di sabbia di Dhanushkodi : è questa la “Lampedusa” indiana. Spiagge deserte e quasi senza alcuna presenza umana, accolgono il biblico esodo di una umanità afflitta e disperata che arriva dallo Sri Lanka e depone qui il suo carico di dolore e angosce.
La fuga ha ovunque e sempre gli stessi connotati inquietanti di una tragedia in atto, a Lampedusa come a Dhanushkodi. Nelle notti buie le imbarcazioni trasportano i fuggiaschi costeggiando gli isolotti sabbiosi dell’Adam’s Bridge che fa da sentiero verso la nuova realtà. Sugli arenili dell’isola di Rameshwaran ci sono ovunque barche in secca e ormai in disuso, relitti abbandonati lì, a testimonianza di chi vi è approdato in fretta e furia, lasciandosi tutto alle spalle. Sono le stesse storie strazianti dei clandestini che sbarcano sulle nostre coste. Chi scappa, e non possiede un’imbarcazione, si affida ai boatmen (scafisti). Anche loro sono uguali ovunque. I risparmi di una vita intera vengono ceduti dai fuggitivi per un passaggio su vecchi battelli da pesca o su imbarcazioni in vetroresina, donate dopo lo Tsunami. Anche i rischi cui vanno incontro questi disperati sono sempre e ovunque gli stessi: rovesciamento del battello, abbandono in mare, violenze, soprusi, fame e sete.
Di solito i fuggiaschi vengono abbandonati a Arichamunai, vicino a Dhanushkodi, un posto solitario, all’estremità dell’isola di Rameshwaran. Qui vi sono meno controlli, e i boatmen possono poi riprendere rapidamente il largo per eludere anche i pattugliamenti costieri. Dhanushkodi accoglie i rifugiati con le sue misere capanne di pescatori e un pungente odore di pesce messo a seccare al sole. Da qui, per arrivare alla strada asfaltata, ci sono 6 km di sabbia che solo i van possono percorrere. I padroni dei van si fanno ben pagare per il tragitto, sono veri affaristi. Ho contrattato a lungo con alcuni di loro sul prezzo, sempre molto elevato, non per me occidentale, certo, ma per i fuggitivi è un altro salasso. La pista sabbiosa rallenta la fuga e spesso i “van-operators”, come sarcasticamente vengono chiamati gli autisti-padroni, sono costretti a spingere l’automezzo o a mettere tavole sotto le ruote per evitare l’insabbiamento. Tra i profughi vi è chi ha già affrontato il viaggio in passato, ma poi è rientrato speranzoso nel proprio paese, credendo alle brevi tregue del cessate il fuoco. Ora è di nuovo qui, con la sua lancinante testimonianza di esiliato, in fuga da una guerra che non vede fine.
Una volta arrivati, i profughi sono indirizzati dalla polizia ai campi di transito, di cui il più affollato è quello di Mandapam. Vi sono 8000 persone, un terzo sono bambini. La situazione è ingovernabile se si calcola che questa estate ci sono stati circa 300 sbarchi al giorno, ma il governo dello stato indiano del Tamil Nadu accoglie e offre assistenza ai profughi in modo umanitario, inserisce i loro bambini nelle scuole e pubblicamente dà loro il benvenuto perché sono “fratelli tamil” che professano la stessa religione e parlano la stessa lingua. Nonostante l’accoglienza però, il dramma dei rifugiati tamil resta. Questo è un altro orrore senza volto di cui non abbiamo notizia perché insignificante, privo di interessi economici, lontano da noi, che si nasconde tra le acque dell’oceano indiano e la verdeggiante e assolata isola dello Sri Lanka, la lacrima dell’India.

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