Una comunità compagna di strada
Un esame superficiale della provenienza sociale degli oltre 50.000 detenuti presenti nelle carceri italiane pone in netta evidenza come la stragrande maggioranza di essi siano poveri, dotati di risorse molto limitate sia per affrontare le proprie vicende giudiziarie sia per sostenere i problemi quotidiani legati alla permanenza negli istituti penitenziari. Basterebbe questo dato elementare a orientare l’impegno della chiesa in un settore che, al contrario, risulta ai margini dell’attenzione pastorale, con un coinvolgimento molto limitato della comunità cristiana.
Il carcere fa paura, suscita apprensioni, soprattutto in una società come la nostra che sembra aver collocato tra le sue preoccupazioni principali quello della sicurezza sociale, cavallo di battaglia di qualsiasi schieramento politico. Le comunità cristiane risentono di questa clima sfavorevole, delegando ai soliti “coraggiosi” la propria presenza nei luoghi di pena, a volte con esiti
contraddittori: cappellani infaticabili, sempre pronti all’ascolto, animatori di molteplici iniziative; altri scarsamente motivati, forse segnati dall’età e dalle delusioni, poco disposti a collaborare con le realtà presenti. Suore che sono diventate, col tempo, figure istituzionali, caratterizzate da un’eroica abnegazione, col rischio però di non saper leggere con dovuta oggettività la realtà in continua trasformazione, mentre altre religiose, con sereno spirito critico, si fanno compagne di viaggio lungo un percorso aspro e difficile.
Gruppi parrocchiali che, in particolari periodi dell’anno liturgico, chiedono di entrare animati dal sacro furore della redenzione dei fratelli carcerati e che, dopo aver strimpellato quattro canzoni, vanno via commossi, lasciandosi alle spalle mura invalicabili e propositi, subito dimenticati, di rinnovati contatti; dall’altra comunità cristiane che intraprendono progetti di accompagnamento proiettati nel tempo, nello sforzo di farsi carico di un inserimento quasi sempre problematico. Associazioni di volontariato che spesso agiscono senza alcun collegamento, presenti quando si tratta di un progetto debitamente finanziato, assenti quando i soldi si sono esauriti; dall’altra gruppi che hanno fatto della gratuità il proprio segno distintivo, testimoniando una generosità che in un ambiente del genere lascia tracce significative.
Il punto di partenza
Un quadro del genere è certamente parziale e non rispecchia adeguatamente l’intera situazione, visto che dappertutto in Italia vi sono esperienze ricche e significative; ma è un dato da cui bisogna partire, per evitare improvvisazioni e dilettantismo, soprattutto se vogliamo che vi sia un maggior coinvolgimento della chiesa in un ambito così delicato e importante.
Affrontare il tema del carcere con una prospettiva differente significa porre il problema di un cambiamento culturale nell’ambito della giustizia; per il credente, un cammino del genere necessariamente ha inizio dalla Parola di Dio, dove troviamo indicazioni sorprendenti che, pur suonando paradossali alla mentalità che ci circonda, costituiscono invece l’annunzio di un percorso difficile ma affascinante.
L’aria che si respira indica nella carcerazione la soluzione alle tante lacerazioni che si verificano nel tessuto sociale; è facile notare come questo orientamento abbia soprattutto una valenza punitiva, una sorta di vendetta che la società opera nei confronti del reo, una rivalsa che solo nel castigo, nella privazione della libertà, può trovare la sua compensazione e la sua soddisfazione; l’emarginazione che ne deriva, dovrebbe tenere a bada, per un certo periodo, i timori, le incertezze che serpeggiano, assicurando, in modo illusorio, la tranquillità quotidiana. L’orizzonte entro il quale la chiesa deve sviluppare la sua azione è quella della liberazione dei prigionieri, la stessa proclamata da Gesù, come segno della presenza del suo Regno.
Si riconosce che il carcere non risolve i problemi della società, anzi si conviene che al suo interno le dinamiche della violenza e dei conflitti vengono esasperati, ma si fa fatica, o manca la volontà, nell’individuare soluzioni alternative, improntate a logiche differenti. In tale contesto, la proposta della chiesa, certamente impopolare, può indicare sentieri poco battuti, ma in linea con l’insegnamento del Vangelo. Dietro ogni detenuto c’è sempre la storia di una violenza data e di una violenza subita, ma ciò non toglie il dovere di riconoscere il valore di ogni persona, di una dignità che va riscoperta e valorizzata, creando le condizioni perché questo processo possa avvenire.
Il credente non può accettare la logica della vendetta, egli propone la misericordia di Dio come strumento per il superamento dei conflitti, ma anche questo valore rischia di rimanere inefficace se non diventa una sorta di strategia che trova applicazione in molteplici iniziative. Non si può negare che il carcere, lungi dall’essere un elemento estraneo, costituisca l’espressione più critica della nostra società, il riflesso delle sue esasperazioni: consumismo sfrenato, scarsa fiducia nelle istituzioni, illegalità diffusa, disgregazione dei valori familiari, sopraffazione dei più deboli, uso della violenza come risoluzione dei problemi.
Il cambiamento culturale ha inizio dal momento in cui nel tessuto sociale si propongono e si realizzano stili di vita alternativi, che abbiano come fondamento il rispetto di ogni persona, l’accettazione di una esistenza più sobria, l’educazione alla legalità, la difesa dei più deboli, la ricerca costante del dialogo e della collaborazione, l’accettazione del diverso, la responsabilità nei confronti degli altri e soprattutto delle nuove generazioni.
A questo va aggiunta la lucida analisi delle cause della devianza, se teniamo conto del basso livello culturale e della provenienza territoriale di gran parte dei detenuti.
Una presenza strategica
L’immagine che troviamo in Luca (24, 1335), Gesù che si accompagna ai due discepoli di Emmaus, esprime la vicinanza che la chiesa deve realizzare nei confronti di chi è tormentato, smarrito, affinché la sua presenza provochi un ripensamento e un cambiamento di rotta. L’accompagnamento della persona detenuta è espressione di solidarietà umana e spirituale, implica il farsi carico delle situazioni di degrado ambientale e culturale da cui
Mi chiamo Fulvio Rizzo, ho 37 anni, da undici abito nel contenitore di colpe quale è il carcere.
La detenzione, di fatto, ha un effetto ermetico. La propria voce, gli spazi vengono annullati. Oggi voi mi date l’occasione di occupare un importante spazio sociale offrendo alla mia voce la possibilità di uscire fuori; grazie!
Nel ’99 io, unitamente ad altri sei compagni di detenzione, dopo vari scontri di vedute sul proprio passato, ci soffermammo su quanto e se fosse giusto un sano riscatto sociale. Stilammo un progetto teso a un vero risarcimento morale e sociale per noi stessi, per le nostre famiglie e per la società.
Questo progetto arrivò sulla scrivania della direzione della Casa Circondariale di Trani e naturalmente su quella dell’ “ufficio trattamento detenuti” del Ministero della Giustizia. Metaforicamente, iniziammo a costruire una nave che potesse un giorno traghettarci nel mondo dei liberi, con un bagaglio nuovo e professionale, dando spazio alla peculiarità di ogni componente, anche grazie alla collaborazione fattiva di alcuni operatori che lavorano in carcere.
Il gruppo in questi anni ha scritto e recitato testi teatrali, avendo modo così di un confronto con la società.
Sono intervenute le università, i licei e altre realtà. Tutti i componenti del gruppo hanno intrapreso un cammino scolastico. Attraverso un laboratorio di poesia e prosa ognuno ha raccontato i misteri, la propria solitudine, l’ignoranza, la brama di incontrare Dio. Il percorso spirituale è importantissimo… Nessuno di noi si piange addosso. Tuttavia, studiando la società attraverso i veicoli di informazione, spesso vede la gente applaudire qualunque cosa faccia il concorrente di turno. La tv è una vetrina che offre spesso illusioni e aspettative fatue […]. Sarebbe più giusto applaudire coloro che, con un sano impegno, raggiungono gli obiettivi prefissati…
Abbiamo un nome che racchiude il pensiero del gruppo stesso, La-ghetto Pensatore; il trattino è civilmente provocatorio, fa capire che anche nel ghetto c’è chi pensa di ricongiungersi al tessuto sociale e magari ricucire lo strappo procurato dal proprio passato, reagendo costruttivamente agli inestetismi. Spesso nei nostri dialoghi la società viene vista come un corpo che ha bisogno di un abito per dare risalto alle belle forme. In questo senso i nostri direttori delle carceri dovrebbero percepirsi come dei sarti che intendono rinnovare quell’atelier obsoleto e dislocato. Qui, nella Casa Circondariale di Trani, crediamo che lo stilista che si è insediato a giugno del 2002 abbia progetti e volontà per far indossare un abito decoroso e al passo coi tempi a questa parte dimenticata.
Convinto che i vostri occhi guarderanno dall’alto in basso soltanto per il nobile motivo di tirare su un vostro simile.
Vi abbraccio
Fulvio Rizzo
Indispensabile risulta il riferimento al territorio, per creare occasioni di reinserimento sociale attraverso opportunità lavorative, autentiche garanzie di cambiamento reale. L’esperienza di tanti anni insegna che il ritorno nella società costituisce una fase molto delicata nell’esperienza del detenuto; il reinserimento nel proprio tessuto sociale e nella propria famiglia spesso significa immergersi nelle stesse problematiche che hanno originato il comportamento deviante; vivere nella solitudine questo passaggio, senza punti di riferimento, inevitabilmente può significare il ritorno a scelte devastanti per sé e per i propri cari.
La “presenza strategica” della chiesa soprattutto in questi momenti, costituisce un valore aggiunto, che certamente potrà orientare le scelte del soggetto verso atteggiamenti nuovi, costruttivi, aperti alla maturazione e alla speranza. Si pensi all’azione di un volontariato capace di creare ponti di comunicazione tra realtà carceraria e società esterna, attraverso iniziative culturali, ludiche e spirituali; si pensi alle cooperative sociali e alle opportunità lavorative che esse offrono; si pensi ai significativi segni di accoglienza che si possono allestire nelle comunità cristiane, mettendo a disposizione strutture, lì dove sono presenti gli istituti penitenziari, per i familiari che periodicamente si sottopongono a faticosi spostamenti per visitare i propri congiunti o per gli stessi detenuti che possono usufruire di benefici e che sono impossibilitati, per varie ragioni, a raggiungere i propri luoghi d’origine.
È necessario ricordare che si stanno diffondendo esperienze di “giustizia riparativa” che presuppongono, da parte del detenuto, la volontà di ripagare il debito contratto con la società attraverso forme di impegno volontario e gratuito, ma anche la disponibilità di strutture disposte ad accogliere questa domanda senza diffidenza, offrendo opportunità di servizio e di riscatto; le strutture ecclesiali possono certamente offrire spazi di impegno e di confronto, di riflessione e di crescita. Un ultimo campo di impegno, ma che certamente non esaurisce altre opportunità, va indicato ed è quello dell’ambito familiare. È facile ascoltare dalla bocca dei detenuti l’amara riflessione che la carcerazione è subita non solo da chi è stato recluso, ma anche dai propri congiunti, come se le lacerazioni interiori provocate dalla privazione della libertà coinvolgano sensibilmente la propria casa.
Spesso la famiglia è lasciata a se stessa, chiusa nel dolore della separazione e dello stigma sociale che deve subire, nella riorganizzazione faticosa della propria esistenza, da affrontare tra scompensi economici e affettivi, che possono trovare soluzioni in facili e discutibili scorciatoie. Le parrocchie, segno del radicamento della chiesa sul territorio, in questo caso possono svolgere un ruolo insostituibile di presenza e di accompagnamento, in modo discreto ed efficace; forme concrete di sostegno e assistenza favoriranno la riformulazione delle responsabilità all’interno del nucleo familiare, in vista di un ritorno che venga vissuto anche come superamento del trauma provocato nel tessuto sociale circostante.