Il lavoro e la pena
Ma per la gran parte dei detenuti, oggi il lavoro non è previsto.
L’accostamento delle categorie di pena e di lavoro è molto complesso e non è univoco. Tutto parte dalle idee, che noi ci siamo costruiti, di pena e di lavoro. Queste idee si nascondono, per lo più, alla nostra immediata comprensione, ma inconsapevolmente agiscono mentre noi comprendiamo gli avvenimenti che ci circondano e mentre noi agiamo. In taluni casi, va detto, la questione appare di una certa semplicità: sono quei casi così estremi da non lasciare dubbi, come nei due esempi che seguono.
I lavori forzati: la pena è un atto del tutto uguale e contrario a quello che è stato compiuto dal reo. Il lavoro è inteso quale sinonimo di male.
Il lavoro che cura: la pena consiste nel liberare dal male l’autore del reato attraverso il lavoro. Un male che, di provenienza biologica, psicologica o sociale a seconda degli approcci, ha costretto il soggetto a compiere il reato.
Il trattamento rieducativo
In estrema brevità, va ricordato che l’ordinamento penitenziario prevede che “nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Il trattamento è attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti”. (L. 26 luglio 1975 n. 354)
È evidente che ci si muove su un terreno sdrucciolevole. Sappiamo che la libertà è strumento e finalità dell’educazione e che i limiti che vengono posti nelle relazioni educative devono dare vita a luoghi di libertà (e in questo senso, sarebbe certo opportuno diminuire l’uso del carcere e aumentare le pene alternative). Di fondo c’è, poi, nel concetto di reinserimento sociale, un’idea che separa il carcere dal resto del territorio anziché una immagine di territorio che, almeno fino a oggi, non è stato capace di organizzarsi senza prevedere dentro di sé il carcere.
È l’idea di un reingresso nella società, dimenticando che un detenuto ha già posto nella società. Ha posto almeno come detenuto, ma spesso anche come figlio o come padre, talora come amico, talora come appartenete a una associazione (anche malavitosa)….
Recita l’art. 15 commi 2/3 della legge 354/75 “Il trattamento del condannato e dell’internato é svolto avvalendosi principalmente dell’istruzione, del lavoro, della religione, delle attività culturali, ricreative e sportive e agevolando opportuni contatti con il mondo esterno e i rapporti con la famiglia. Ai fini del trattamento rieducativo, salvo casi di impossibilità, al condannato e all’internato é assicurato il lavoro”. Quando l’Ordinamento Penitenziario, quindi, descrive gli strumenti di questo trattamento, mostra contemporaneamente i propri limiti e le proprie potenzialità. Il limite è dentro l’idea di avvalersi per fini trattamentali di religione, istruzione, cultura, lavoro, sport…, quasi fossero oggetti nelle proprie mani. Ma è proprio in questa impossibilità che noi vediamo le maggiori potenzialità.
Prendiamo l’esempio dello sport: durante una partita di pallone, dovendosi sottoporre alle regole del calcio e a un arbitro che le fa rispettare, è come se fosse sospeso il sistema di regole fatto da leggi, sentenza, agenti…. È come se con il fischio di inizio, il carcere facesse un passo indietro. Quella partita è un luogo di libertà perché non è controllata da chi ha come obiettivo la privazione della libertà stessa. Il detenuto è un po’ meno
Per superare tutte queste ragioni e rilanciare lo svolgimento del lavoro delle persone recluse, si è cercato di ricorrere al sistema delle cooperative sociali e anche dei privati, prevedendo particolari incentivi per la presenza in carcere delle imprese, fra cui sono privilegiate le cooperative sociali e il sistema delle imprese non profit.
È stata anche emanata in proposito la L. 22/6/2000, n. 193 (Legge Smuraglia), che prevede agevolazioni economiche, sia per gli oneri previdenziali e sociali, sia per quelli fiscali, per le imprese che operino negli istituti. Per ora, però, l’effetto di tali sforzi normativi non si è ancora visto.
Va ricordato il lavoro all’esterno, la cui ammissione è di competenza delle direzioni degli istituti, che possono disporla solo quando la stessa è prevista dal programma di trattamento. Il provvedimento di ammissione diventa esecutivo con l’approvazione del magistrato di sorveglianza.
Per i reati più rilevanti, l’ammissione al lavoro all’esterno non può avvenire che dopo la espiazione di un terzo della pena e, comunque, non oltre 5 anni. Per i condannati all’ergastolo, la ammissione può avvenire solo dopo la espiazione di almeno dieci anni di pena.
S.M.
Analogamente, anche gli altri strumenti del trattamento sono sistemi di pensiero, regole e vita che possono godere di luce autonoma rispetto al trattamento stesso.
Tra libertà e prigione
Tra gli ambiti della vita e dell’organizzazione sociale, cui la legge fa riferimento al fine del trattamento, al lavoro viene dato particolare risalto. Gli articoli dal 20 al 25 dello stesso Ordinamento Penitenziario (introdotti da modificazioni successive) regolano il lavoro (obbligatorio) dei detenuti. È previsto che i detenuti lavorino all’interno sia per conto dell’amministrazione penitenziaria (per fare le pulizie, per occuparsi della spesa, per collaborare ad alcuni aspetti burocratici…), sia per conto di ditte esterne che possono impiantare la loro produzione. Ma è anche previsto che i detenuti possano essere autorizzati a uscire (art. 21) per lo stretto necessario al lavoro.
Il lavoro, poi, è considerato uno degli elementi fondamentali durante l’esecuzione di misure alternative al carcere (specialmente la semilibertà, per cui in carcere si passa solo la notte, e l’affidamento ai servizi sociali, per cui la pena consiste in un programma sociale e si sconta senza detenzione). Purtroppo, i detenuti non hanno quasi mai la possibilità di lavorare in carcere. Secondo i dati ufficiali del Ministero della Giustizia, (http://www.giustizia.it). Al 31 dicembre 2002, lavoravano meno di 13.500 persone (il 24,2% di tutti i detenuti). Di questi solo 2.261 (cioè il 16,8 % dei lavoranti, il 4% di tutti i detenuti) lavoravano per datori di lavoro diversi dall’Amministrazione Penitenziaria. Gli altri 11.213 hanno come datore di lavoro, lo stesso carcere.
Si rischia, così, di perdere lo straordinario potenziale che il lavoro può acquisire come luogo di libertà, perché non c’è differenza tra lavoro e pena. Avere un lavoro dipendendo da una azienda esterna, significa diventare al 100% lavoratori e costruirsi una identità nuova sotto vari profili: con se stessi, perché il carcere è un luogo in sé totalmente deresponsabilizzante, verso la società e verso le propria famiglia, perché il lavoro attenua i forti sensi di colpa e di risentimento con cui i detenuti vivono le relazioni, verso le vittime di reato. Chi subisce i reati sente il bisogno (anche inconsapevole) che l’altro paghi attraverso l’assunzione delle sue responsabilità. La richiesta di carcere cela spesso il bisogno incontrollabile che sia dichiarato che quello che è successo non doveva succedere e non dovrà più avvenire. E questa garanzia è efficacemente data da quegli autori di reato che mostrano un cambiamento, verso l’assunzione di nuove responsabilità.