Roba da matti!
Sulle orme di una Chiesa che gusta la pace, pellegrina, sognatrice di un mondo senza guerre. Per riconoscere il valore della nonviolenza.
Lo sviluppo della Chiesa nei secoli è il cammino di un organismo che cresce e si sviluppa, alla luce della Rivelazione – Parola di Dio affidata alla Tradizione – e per l’azione dello Spirito nei singoli battezzati, nelle comunità e nell’insieme della Chiesa. Anche il tema della pace, che pure fa parte costitutiva del messaggio evangelico (cfr. L’Annuncio di Betlemme, Lc 2,14) ha avuto un suo cammino significativo. All’inizio, in una Chiesa che si sentiva “straniera e pellegrina” nel mondo (1 Pt 2,11), la preoccupazione della pace si rivolgeva all’interno della vita della comunità cristiana, come pace tra i membri della Chiesa. Poi, con lo stretto collegamento tra il Cristianesimo e l’impero (da Costantino a Teodosio), la pace cristiana è stata identificata con la pace dell’impero, da ottenere e da difendere con le armi. Anche la pace all’interno della Chiesa è stata vista come tanto importante da non rifuggire dalla violenza delle guerre religiose e delle Inquisizioni.
Nuovi mondi
Gli umanesimi e gli illuminismi, radicati nel Vangelo ma sollecitati anche dalle tensioni tra le varie confessioni cristiane, hanno fatto maturare una mentalità nuova nella Chiesa cattolica. Già si erano scongiurate le guerre come “inutili stragi” (Benedetto XV nei confronti della prima guerra mondiale) o come grave perdita comune (Pio XII nella prima guerra mondiale); ma è il Concilio Vaticano II, ispirato dall’Enciclica Pacem in terris di Giovanni XXIII, che guarda alla pace come il massimo valore umano da perseguire, per cui la Chiesa deve impegnarsi dando il contributo dei suoi membri e delle sue comunità. Non è stato – e non è ancora – un cammino facile. I cappellani militari, ad esempio, inseriti strutturalmente nell’esercito, devono esaltarne l’esistenza e i compiti, contestando e svalorizzando l’obiezione di coscienza (come fecero nella vicenda che portò alla condanna di don Milani e di padre Balducci) o illustrando come gesti di carità quelli dell’aviatore che esce per bombardare e avviare così il processo di pace (come si disse all’epoca della guerra in Kosovo).
Dio Onnipotente, che governi tutti gli elementi, salva noi, armati come siamo di Fede e di Amore. Salvaci dal gelo implacabile, dai vortici della tormenta, dall’impeto della valanga; fa che il nostro piede posi sicuro su le creste vertiginose, su le diritte pareti, oltre i crepacci insidiosi; rendi forti le nostre armi contro chiunque minacci la nostra Patria, la nostra Bandiera, la nostra millenaria civiltà cristiana.
E Tu, Madre di Dio, candida più della neve, Tu che hai conosciuto e raccolto ogni sofferenza e ogni sacrificio di tutti gli Alpini caduti; Tu che conosci e raccogli ogni anelito e ogni speranza di tutti gli Alpini vivi e in armi, Tu benedici e sorridi ai nostri Battaglioni e ai nostri gruppi. Così sia.
Parola di Concilio
L’Enciclica fu ripresa dal Concilio; ma le vicende della guerra in Vietnam indussero i vescovi americani a chiedere di soprassedere a una condanna drastica della guerra (“Non pugnalate alle spalle – supplicava il card. Spelman, arcivescovo di New York e ordinario militare dell’esercito americano – i nostri giovani che in Estremo Oriente stanno difendendo la civiltà cristiana”!). Si giunse soltanto alla condanna (l’unica in un Concilio che papa Giovanni aveva voluto “pastorale”, quindi senza anatemi) della guerra totale (n. 80), come allora veniva chiamata la guerra atomica, che coinvolse popolazioni inermi (e c’erano già state, al termine della seconda guerra mondiale, l’uso di bombe nucleari che avevano distrutto le città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki!). Un passo avanti fece però il Concilio, ammettendo l’obiezione di coscienza (sia pure come vaga ipotesi, di fronte alla quale si invitavano i governi a considerarla “umanamente”, n. 79). Ma le acque della riflessione si erano mosse; e dopo due anni (1967) Paolo VI pubblica l’Enciclica Populorum progressio, in cui si dice fin dal titolo che il nuovo nome della pace è “lo sviluppo dei popoli”, ma riconoscendo l’organizzazione ingiusta del mondo per cui lo sviluppo dei popoli più forti e più fortunati è pagato con la mancanza di sviluppo degli altri popoli, che sono la maggioranza dell’umanità. Quell’Enciclica venne contestata come rivoluzionaria (“comunista”, si diceva allora); ma dopo vent’anni papa Giovanni Paolo II, proveniente dal mondo comunista, si rifà a essa con una nuova Enciclica – Sollicitudo rei socialis – precisando che oggi la pace si identifica con la solidarietà, che è anche il nome attuale della carità. Cosicché, se uno non può dirsi cristiano senza la carità, va concluso che una persona e una comunità non possono dirsi cristiane se non partono dalla solidarietà.
Il popolo della pace
È da dire che queste dichiarazioni dei Papi, anche se ufficialmente spesso disattese (si pensi al forte impegno di Giovanni Paolo II per evitare sia la prima che la seconda guerra del Golfo e la non accoglienza del mondo politico, ma anche ad alti livelli del mondo cristiano), hanno però portato a far crescere nell’opinione pubblica l’influenza della Chiesa nel “popolo della pace”. Penso, ad esempio, alla difficoltà di Pax Christi italiana per far accettare da alcune diocesi la “Marcia di Capodanno”, che pure, nella notte di inizio d’anno, intendeva proporre e attualizzare il messaggio del Papa per la Giornata della Pace, indetta per il 1° gennaio, e ormai riconosciuta universalmente. La “Marcia di Capodanno” venne accolta più... pacificamente anche da grandi città quando fu posta sotto l’egida della Commissione “Giustizia e Pace” della CEI; così come l’obiezione di coscienza al servizio militare, avviata da Pax Christi tra le diffidenze nel mondo cattolico, venne poi accettata e largamente diffusa quando ebbe il patrocinio della Caritas italiana (organismo della CEI).
Pax Christi italiana, particolarmente sotto l’impulso del suo Presidente mons. Tonino Bello, propugnò la nonviolenza attiva evangelica, recuperando questo impegno che era stato lanciato da Gandhi (il quale diceva di averlo appreso anche dal Vangelo, aggiungendo che non si era mai fatto cristiano vedendo – ahimè – quanto poco i cristiani lo mettono in pratica!). Lo collegò con il programma di Gesù il quale, quando suggeriva di offrire l’altra guancia (Mt 5,39), non alludeva alla passività o alla rassegnazione quanto a non rispondere con la violenza, sollecitatrice di nuove violenze, proprio come fece Lui quando, schiaffeggiato dal servo del Sinedrio, lo fece riflettere perché rinunciasse anche lui alla violenza (“Se ho parlato male, dimmi dov’è il male, ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?”, Mt 18,23). Dunque la nonviolenza attiva è impegno a cercare di risolvere i problemi senza usare la violenza fisica. Richiede il controllo di sé, la rinuncia all’illusione che la nostra forza preponderante possa soffocare la violenza contraria. Alle volte può farla tacere lì per lì (non sempre!), ma semina nuovi germi di violenza, suscita volontà di rivalsa, stimola ricerche di nuove vendette.
Credo proprio che questo sia il compito del Cristianesimo oggi, tanto più del Cristianesimo occidentale, posto che siamo noi occidentali quelli che utilizzano le proprie superiorità e i propri privilegi proponendo leggi e organizzando alleanze per garantire e accrescere il proprio benessere e il proprio potere, e posto che gli occidentali sono giudicati nel mondo (a cominciare dal mondo islamico) come “i cristiani”. Anche Giovanni Paolo II, nel dicembre 2003 ha esaltato la nonviolenza attiva, e a essa si è appellato Benedetto XVI durante le sanguinose vicende del Libano nel luglio 2006. Credo che più che mai Pax Christi debba sentire come sua specifica vocazione quella di approfondire i principi della nonviolenza attiva, di svilupparne le modalità storiche, di suggerirne le applicazioni concrete, per un cristianesimo più coerente, per un mondo più pacifico.