Deporre le armi

Non uccidere è norma primaria etica, prima ancora che comandamento. Non è lecito sopprimere la vita umana. Ma la Bibbia, il magistero ecclesiale e la teologia proscrivono ogni tipo di guerra?
Giuseppe Mattai

Su quali principi fondare un discorso di pace, di condanna della guerra e di nonviolenza e, conseguentemente, di rifiuto della fabbrica di armi, di eserciti abilitati a combattere e a uccidere in maniera sempre più sofisticata e di immissione organica dei cappellani militari, con un seminario ad hoc ai fini di una loro preparazione specifica? Se diamo uno sguardo all’attuale temperie culturale è facile rendersi conto di quanto sia arduo tentare un tale approccio: tende, infatti, sempre più a diffondersi il diniego di validità a ogni ricorso alle verità, dichiarate assolute e valide per ogni persona e per ogni tempo, specie in campo etico. L’accusa di fondamentalismo scatta inevitabilmente e l’enfasi sul pluralismo culturale e la varietà degli atteggiamenti e delle prassi si fa di giorno in giorno sempre più forte. Stanno a dimostrarlo i numerosi articoli del prof. Umberto Galimberti, apparsi su “la Repubblica” nel mese di agosto u.s.: relativismo, storicismo, scetticismo e nichilismo pretendono un diritto di cittadinanza in tutti i campi, da quello gnoseologico a quello morale. Tuttavia segni contrari inducono a riproporre la questione, a partire da quanto la gente comune pensa ed esprime con molteplici segni su guerra e pace, sino alle idee espresse da tanti giovani in tema di giustizia e solidarietà, di investimenti non sulla costruzione delle armi, ma per la formazione di una nuova temperie culturale idonea a identificare le diverse forme di ingiustizia e oppressione e superarle non con la guerra e la violenza, ma con impegni di rinnovamento, confronto e dialogo ad esse veramente alternativi... Si veda in proposito cosa hanno detto seicento giovani ad Assisi nella prima decade di agosto, parlando di pace in 28 lingue!

Etica della responsabilità?
L’etica dei principi veniva definita già da Max Weber profetica, espressa cioè da chi non aveva responsabilità di altri e poteva quindi rischiare tutto in prima persona. Alcuni parlano di etica deontologica, dedotta esclusivamente a partire da assiomi senza fare riferimento alla persona, allo spessore della sua soggettività, alle situazioni storiche e alle conseguenze delle proprie azioni. Ovviamente i due poli non possono essere disgiunti, ma vanno coniugati

SCAFFALI
Nella grande mole di scritti in materia mi limito a segnalare:
L. Lorenzetti (a cura di), Dizionario della teologia della pace, EDB, Verona 1997
Id., Enchiridion della pace, 2 voll., EDB, Verona 2004

Delle mie non poche, ancorché modeste, pubblicazioni cito:
- La pace oggi: domande gravi, risposte stimolanti, Ennepilibri, Imperia 1999
- La difesa popolare nonviolenta (DPN): discorso fondativo, in Id., Dall’etica dei principi all’etica della responsabilità, Zenit, Firenze 2003, pp. 119-137
- Nodi moraltelogici in tema di pace e guerra, in “Asprenas”, 1994, n. 2, pp. 247-258
- Verso la grande pace: utopia o profezia?, in “Asprenas”, 2001, pp. 525-534.
insieme armonicamente: non fare appello a criteri e valori di fondo irrinunciabili significa decadere nel deprecabile relativismo moderno (vedi l’articolo omonimo di G. De Rosa in “Presbyteri”, 8, 2006), ma contemplarli in maniera astorica, astratti dalle persone che li debbono vivere e dalla varietà delle situazioni concrete in cui esse si muovono, sarebbe atteggiamento errato, utopistico e fondamentalistico. Per queste ragioni, in compagnia di illustri teologi cristiani della morale, ho scritto un piccolo libro dal titolo volutamente provocatorio Dall’etica dei principi all’etica della responsabilità (Zenit, Firenze 2003), in cui così mi esprimevo: “Sull’assolutezza dei valori e sul profilo incondizionato di alcune norme generali dell’etica non si discute. Sarebbe irresponsabilità non tenerne conto o qualificarle anacronistiche e legate a tempi e culture diverse dalla nostra. Ma quando si scende alla loro determinazione storica, alla loro incarnazione concreta il discorso cambia”(p. 22) e l’attenzione alla persona, alla contingenza storica e alle conseguenze degli atti acquista diritto di cittadinanza. Come è possibile mantenere fede alle due prospettive (che in linguaggio tecnico sono denominate l’una deontologica e l’altra teleologica) nelle delicate e appassionanti questioni che stiamo per affrontare? Compito arduo ma, come spero, non deludente quando il discorso fondativo venga portato garbatamente sui diversi piani: biblico, evangelico, magisteriale, etico-teologico.

Fondazione biblica
L’odierna esegesi biblica è del tutto aliena dal fondamentalismo che vorrebbe un’accettazione integrale e letterale dei libri sacri: i generi letterari e i diversi contesti culturali in cui essi sono stati elaborati impediscono una lettura del genere. Per quanto concerne il tema della pace il discorso biblico sullo shalom fila bene e appare ricco di suggestioni sempre attuali: quello sulla guerra e la violenza presenta non poche difficoltà interpretative e riesce ostico all’odierno costruttore di pace. Gli studi più recenti consentono di arrivare a qualche conclusione abbastanza sicura. L’Antico Testamento (d’ora in poi AT) non proscrive la guerra ma tende a limitarla nell’ambito di una guerra difensiva, non di espansione o di ritorsione animata da sete di vendetta. Se e quando il herem, o guerra di sterminio, sia stato effettivamente messo in atto è questione che, in base ai dati disponibili, non può essere risolta; rimane tuttavia il fatto che il monoteismo ebraico non ebbe sufficiente creatività per sconfiggere sul piano storico la funesta mediazione della guerra per raggiungere lo shalom. Tuttavia, nell’AT esistono almeno due filoni nei quali guerra e violenza restano assenti: le memorie patriarcali e, soprattutto, i carmi del Deuteroisaia che, nel misteriosoEbed Yhwh, non presentano alcuna traccia di violenza, ma soltanto obbedienza mite e sofferenza espiatrice.
Proprio tali carmi preannunciano l’evangelium pacis proclamato e

La violenza di chi usa le armi è da condannare. Quella di chi le fabbrica passa inosservata. La nonviolenza non è una giustificazione del codardo. È invece la suprema virtù del coraggioso.
Benedetto Croce
vissuto con rigorosa e amabile coerenza da Gesù di Nazareth. Evangelo e prassi di Gesù aprono grandi e inedite prospettive di pace e nonviolenza così riassumibili: - radicalizzazione entro l’ottica sconcertante delle beatitudini delle 10 parole (comandamenti) e in particolare del “non uccidere”; - passaggio dalla difesa della vita fisica all’esigenza etico-religiosa della promozione integrale della vita; - superamento di ogni violenza nell’amore del nemico e nel perdono assoluto, senza limitazioni di sorta. Orizzonti metaetici che deludono quanti nel Vangelo ricercano una precisa norma morale relativa alla proibizione o liceità della guerra, ma che valgono più di qualsiasi indicazione normativa. Tuttavia, scorrendo la storia della Chiesa, è facile rendersi conto delle difficoltà che insegnamento dottrinale e prassi dei credenti hanno incontrato per dare concretezza storica al Vangelo della pace: spinte profetiche e cedimenti allo spirito del tempo si sono incrociati spesso inducendo ad accantonare la nonviolenza e a favorire la giustificazione della guerra con limiti teorici ma disattesi nella pratica.

Fondazione magisteriale
Fino alla prima guerra mondiale l’ideologia della giusta guerra detiene campo anche nell’insegnamento della Chiesa: cominciano però a emergere significative voci di dissenso e di condanna dei sanguinosi conflitti bollati come inutile strage da Benedetto XV, in una sua nota del 1 agosto 1917, rivolta ai governi e alle nazioni belligeranti. Nell’indimenticabile enciclica Pacem in terris Giovanni XXIII senza fare cenno alla ormai arcaica dottrina della giusta guerra, afferma con tono profetico che in questa era nucleare, che dischiude la possibilità della distruzione globale della popolazione del pianeta, è ormai assurdo (alienum a ratione) pensare che la guerra sia un mezzo idoneo a risolvere questioni internazionali e a rimettere in sesto i diritti violati. La Gaudium et spes, con toni più pacati, ribadisce tale idea e riafferma il quadrilatero giovanneo che ravvisa nella verità, giustizia, solidarietà e libertà i fondamenti di una vera pace, giusta e duratura, immagine della pax Christi. La logica iniqua della guerra e la sua improponibilità appaiono evidenti nel “mai più la guerra” risuonati all’ONU nella voce vibrante e commossa di Paolo VI e di Giovanni Paolo II. Durante il pontificato di quest’ultimo abbiamo potuto registrare un evento mai avvenuto in passato: la precisa e netta condanna di una guerra in particolare (guerra del Golfo, contrabbandata come operazione di polizia) e l’esigenza di proscrivere ogni guerra sia difensiva che offensiva, che non rivesta i

Si è pronti a tuonare contro il sangue versato in guerra e si ha il conto in banche che foraggiano l’industria degli armamenti, o si passa sopra al fatto che in conflitti del terzo mondo sono sostenuti dalla produzione massiccia di armi dei Paesi occidentali.
Mario Hrwat
caratteri di un vero intervento umanitario, e di ravvisare nella pace un bene supremo al quale tutti i programmi devono essere subordinati. Le gravi notazioni espresse in occasione dell’ultimo conflitto iraniano e afgano, dopo l’attentato dell’11 settembre hanno trovato e stanno trovando a tutt’oggi dolorosa e crocifiggente conferma. Per fondare magisterialmente il no alla guerra e il sì alla pace sarà utile ripercorrere i messaggi per la giornata mondiale della pace; rivisitare gli incontri di Assisi che invitano a coniugare preghiera, invocazione della pace come dono di Dio e impegno del credente; i gesti inediti avvenuti durante l’anno santo con richiesta di perdono da parte del Papa per tutti i tradimenti della pace e della nonviolenza perpetrati dai credenti in Cristo. Resta da dire che anche Benedetto XVI ripercorre gli stessi sentieri: in occasione degli infausti scontri libanesi si è rivolto “a tutti i responsabili di questa spirale di violenza, perché immediatamente si depongano le armi da ogni parte” (30 luglio 2006). “Nulla può giustificare lo spargimento di sangue innocente, da qualunque parte esso venga” (2 agosto 2006).

Fondazione etico-teologica
Destati da questa diana, anche i teologi della morale si sono dati da fare per dimostrare l’inapplicabilità di vecchie teorie alla guerra moderna, per fondare evangelicamente la pace a partire dalla radicalità del non uccidere, mettendo in bilancio le conseguenze nefaste dei conflitti armati e sanguinosi e la praticabilità delle vie di difesa nonviolenta dischiuse nella teoria e nella prassi dai costruttori di pace. La norma “non uccidere” appare ai moderni cultori di etica della pace co-originaria all’istanza etica in quanto tale, perché costituisce la figura primaria del riconoscimento dell’altro: eliminare tale norma significa eliminare l’etica stessa (M. Reichlin). A partire dal valore fondamentale di ogni vita umana, l’odierna etica teologica è indotta a negare liceità morale a ogni soppressione della vita umana (aborto, pena di morte, eutanasia) coerentemente e senza ambiguità compromissorie. Per quanto concerne gli esiti negativi dei conflitti armati vengono evidenziati: la loro inutilità per risolvere i problemi internazionali; l’accumulazione di piramidi di odi che preparano altri conflitti; l’uccisione di un gran numero di civili e bambini, anche dopo la fine della guerra, a motivo di mine e armi inesplose; la distruzione delle risorse; il fenomeno dei profughi; l’eclissi di valori etici fondamentali, e così via. Per la costruzione della pace vera si sottolinea l’esigenza di una nuova economia, del superamento delle leggi del mercato erette a regola suprema del vivere sociale, di rigettare una globalizzazione immemore della giustizia e della solidarietà. Attenzione particolare è rivolta a una ripresa della politica finalizzata al bene comune nazionale e internazionale, in un mondo divenuto piccola tribù, e alla riforma dell’ONU e del diritto internazionale. In merito al problema della difesa, sempre molto avvertito particolarmente oggi a motivo del terrorismo ubiquitario, i teologi si avvalgono delle nuove acquisizioni teoriche e di realizzazioni pratiche che dimostrano la percorribilità, l’efficacia e la valenza eticoreligiosa della Difesa Popolare Nonviolenta (DPN). Esiste dunque un’alternativa alla difesa militare e all’esercito tradizionale. Il ricorso alle armi resta limitato alle azioni di polizia internazionale – sempre come extrema ratio e autodifesa in atti aggressivi non altrimenti superabili – gestite dall’ONU e sottratte all’arbitrio dei singoli Stati.

Conseguenze
Dalle riflessioni fondanti esposte in forma estremamente sintetica, è possibile ricavare indicazioni, anche se non sempre perentorie e da valutare con senso di responsabilità, in merito alle molteplici obiezioni di coscienza, alla fabbrica e al mercato delle armi, alla riforma dell’esercito e alla presenza dei cappellani militari. Come si ricava dalla loro storia, l’esigenza di un’adeguata attività pastorale nel vasto e complesso mondo dei militari è sempre stata molto sentita: appare difficile, senza adeguate ricerche in campo, asserire che il loro inserimento con stellette e gradi consenta una presa di coscienza e una libera espressione dei valori della pace e della nonviolenza o, quando fosse necessaria, l’obiezione di coscienza.
Averla suggerita dal sottoscritto in occasione della guerra del Golfo (cfr. “Famiglia Cristiana” del mese di giugno 2003, p. 134), ha suscitato una così forte reazione da indurre i miei superiori alla fraterna richiesta di astenermi in futuro da interventi che possano apparire provocatori. Penso che non rientri in tale cortese divieto una riflessione sul seminario previsto per i cappellani militari. I seminari sono ordinati alla preparazione dei sacerdoti per il bene della Chiesa universale e delle Chiese locali. Restringerli a un ceto particolare (cappellani o preti operai) appare un’operazione alquanto discutibile, salvo meliore iudicio.

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