Deporre le armi
Su quali principi fondare un discorso di pace, di condanna della guerra e di nonviolenza e, conseguentemente, di rifiuto della fabbrica di armi, di eserciti abilitati a combattere e a uccidere in maniera sempre più sofisticata e di immissione organica dei cappellani militari, con un seminario ad hoc ai fini di una loro preparazione specifica? Se diamo uno sguardo all’attuale temperie culturale è facile rendersi conto di quanto sia arduo tentare un tale approccio: tende, infatti, sempre più a diffondersi il diniego di validità a ogni ricorso alle verità, dichiarate assolute e valide per ogni persona e per ogni tempo, specie in campo etico. L’accusa di fondamentalismo scatta inevitabilmente e l’enfasi sul pluralismo culturale e la varietà degli atteggiamenti e delle prassi si fa di giorno in giorno sempre più forte. Stanno a dimostrarlo i numerosi articoli del prof. Umberto Galimberti, apparsi su “la Repubblica” nel mese di agosto u.s.: relativismo, storicismo, scetticismo e nichilismo pretendono un diritto di cittadinanza in tutti i campi, da quello gnoseologico a quello morale. Tuttavia segni contrari inducono a riproporre la questione, a partire da quanto la gente comune pensa ed esprime con molteplici segni su guerra e pace, sino alle idee espresse da tanti giovani in tema di giustizia e solidarietà, di investimenti non sulla costruzione delle armi, ma per la formazione di una nuova temperie culturale idonea a identificare le diverse forme di ingiustizia e oppressione e superarle non con la guerra e la violenza, ma con impegni di rinnovamento, confronto e dialogo ad esse veramente alternativi... Si veda in proposito cosa hanno detto seicento giovani ad Assisi nella prima decade di agosto, parlando di pace in 28 lingue!
Etica della responsabilità?
L’etica dei principi veniva definita già da Max Weber profetica, espressa cioè da chi non aveva responsabilità di altri e poteva quindi rischiare tutto in prima persona. Alcuni parlano di etica deontologica, dedotta esclusivamente a partire da assiomi senza fare riferimento alla persona, allo spessore della sua soggettività, alle situazioni storiche e alle conseguenze delle proprie azioni. Ovviamente i due poli non possono essere disgiunti, ma vanno coniugati
L. Lorenzetti (a cura di), Dizionario della teologia della pace, EDB, Verona 1997
Id., Enchiridion della pace, 2 voll., EDB, Verona 2004
Delle mie non poche, ancorché modeste, pubblicazioni cito:
- La pace oggi: domande gravi, risposte stimolanti, Ennepilibri, Imperia 1999
- La difesa popolare nonviolenta (DPN): discorso fondativo, in Id., Dall’etica dei principi all’etica della responsabilità, Zenit, Firenze 2003, pp. 119-137
- Nodi moraltelogici in tema di pace e guerra, in “Asprenas”, 1994, n. 2, pp. 247-258
- Verso la grande pace: utopia o profezia?, in “Asprenas”, 2001, pp. 525-534.
Fondazione biblica
L’odierna esegesi biblica è del tutto aliena dal fondamentalismo che vorrebbe un’accettazione integrale e letterale dei libri sacri: i generi letterari e i diversi contesti culturali in cui essi sono stati elaborati impediscono una lettura del genere. Per quanto concerne il tema della pace il discorso biblico sullo shalom fila bene e appare ricco di suggestioni sempre attuali: quello sulla guerra e la violenza presenta non poche difficoltà interpretative e riesce ostico all’odierno costruttore di pace. Gli studi più recenti consentono di arrivare a qualche conclusione abbastanza sicura. L’Antico Testamento (d’ora in poi AT) non proscrive la guerra ma tende a limitarla nell’ambito di una guerra difensiva, non di espansione o di ritorsione animata da sete di vendetta. Se e quando il herem, o guerra di sterminio, sia stato effettivamente messo in atto è questione che, in base ai dati disponibili, non può essere risolta; rimane tuttavia il fatto che il monoteismo ebraico non ebbe sufficiente creatività per sconfiggere sul piano storico la funesta mediazione della guerra per raggiungere lo shalom. Tuttavia, nell’AT esistono almeno due filoni nei quali guerra e violenza restano assenti: le memorie patriarcali e, soprattutto, i carmi del Deuteroisaia che, nel misteriosoEbed Yhwh, non presentano alcuna traccia di violenza, ma soltanto obbedienza mite e sofferenza espiatrice.
Proprio tali carmi preannunciano l’evangelium pacis proclamato e
Benedetto Croce
Fondazione magisteriale
Fino alla prima guerra mondiale l’ideologia della giusta guerra detiene campo anche nell’insegnamento della Chiesa: cominciano però a emergere significative voci di dissenso e di condanna dei sanguinosi conflitti bollati come inutile strage da Benedetto XV, in una sua nota del 1 agosto 1917, rivolta ai governi e alle nazioni belligeranti. Nell’indimenticabile enciclica Pacem in terris Giovanni XXIII senza fare cenno alla ormai arcaica dottrina della giusta guerra, afferma con tono profetico che in questa era nucleare, che dischiude la possibilità della distruzione globale della popolazione del pianeta, è ormai assurdo (alienum a ratione) pensare che la guerra sia un mezzo idoneo a risolvere questioni internazionali e a rimettere in sesto i diritti violati. La Gaudium et spes, con toni più pacati, ribadisce tale idea e riafferma il quadrilatero giovanneo che ravvisa nella verità, giustizia, solidarietà e libertà i fondamenti di una vera pace, giusta e duratura, immagine della pax Christi. La logica iniqua della guerra e la sua improponibilità appaiono evidenti nel “mai più la guerra” risuonati all’ONU nella voce vibrante e commossa di Paolo VI e di Giovanni Paolo II. Durante il pontificato di quest’ultimo abbiamo potuto registrare un evento mai avvenuto in passato: la precisa e netta condanna di una guerra in particolare (guerra del Golfo, contrabbandata come operazione di polizia) e l’esigenza di proscrivere ogni guerra sia difensiva che offensiva, che non rivesta i
Mario Hrwat
Fondazione etico-teologica
Destati da questa diana, anche i teologi della morale si sono dati da fare per dimostrare l’inapplicabilità di vecchie teorie alla guerra moderna, per fondare evangelicamente la pace a partire dalla radicalità del non uccidere, mettendo in bilancio le conseguenze nefaste dei conflitti armati e sanguinosi e la praticabilità delle vie di difesa nonviolenta dischiuse nella teoria e nella prassi dai costruttori di pace. La norma “non uccidere” appare ai moderni cultori di etica della pace co-originaria all’istanza etica in quanto tale, perché costituisce la figura primaria del riconoscimento dell’altro: eliminare tale norma significa eliminare l’etica stessa (M. Reichlin). A partire dal valore fondamentale di ogni vita umana, l’odierna etica teologica è indotta a negare liceità morale a ogni soppressione della vita umana (aborto, pena di morte, eutanasia) coerentemente e senza ambiguità compromissorie. Per quanto concerne gli esiti negativi dei conflitti armati vengono evidenziati: la loro inutilità per risolvere i problemi internazionali; l’accumulazione di piramidi di odi che preparano altri conflitti; l’uccisione di un gran numero di civili e bambini, anche dopo la fine della guerra, a motivo di mine e armi inesplose; la distruzione delle risorse; il fenomeno dei profughi; l’eclissi di valori etici fondamentali, e così via. Per la costruzione della pace vera si sottolinea l’esigenza di una nuova economia, del superamento delle leggi del mercato erette a regola suprema del vivere sociale, di rigettare una globalizzazione immemore della giustizia e della solidarietà. Attenzione particolare è rivolta a una ripresa della politica finalizzata al bene comune nazionale e internazionale, in un mondo divenuto piccola tribù, e alla riforma dell’ONU e del diritto internazionale. In merito al problema della difesa, sempre molto avvertito particolarmente oggi a motivo del terrorismo ubiquitario, i teologi si avvalgono delle nuove acquisizioni teoriche e di realizzazioni pratiche che dimostrano la percorribilità, l’efficacia e la valenza eticoreligiosa della Difesa Popolare Nonviolenta (DPN). Esiste dunque un’alternativa alla difesa militare e all’esercito tradizionale. Il ricorso alle armi resta limitato alle azioni di polizia internazionale – sempre come extrema ratio e autodifesa in atti aggressivi non altrimenti superabili – gestite dall’ONU e sottratte all’arbitrio dei singoli Stati.
Conseguenze
Dalle riflessioni fondanti esposte in forma estremamente sintetica, è possibile ricavare indicazioni, anche se non sempre perentorie e da valutare con senso di responsabilità, in merito alle molteplici obiezioni di coscienza, alla fabbrica e al mercato delle armi, alla riforma dell’esercito e alla presenza dei cappellani militari. Come si ricava dalla loro storia, l’esigenza di un’adeguata attività pastorale nel vasto e complesso mondo dei militari è sempre stata molto sentita: appare difficile, senza adeguate ricerche in campo, asserire che il loro inserimento con stellette e gradi consenta una presa di coscienza e una libera espressione dei valori della pace e della nonviolenza o, quando fosse necessaria, l’obiezione di coscienza.
Averla suggerita dal sottoscritto in occasione della guerra del Golfo (cfr. “Famiglia Cristiana” del mese di giugno 2003, p. 134), ha suscitato una così forte reazione da indurre i miei superiori alla fraterna richiesta di astenermi in futuro da interventi che possano apparire provocatori. Penso che non rientri in tale cortese divieto una riflessione sul seminario previsto per i cappellani militari. I seminari sono ordinati alla preparazione dei sacerdoti per il bene della Chiesa universale e delle Chiese locali. Restringerli a un ceto particolare (cappellani o preti operai) appare un’operazione alquanto discutibile, salvo meliore iudicio.