Il 24 luglio 2006 il direttore generale del WTO, il francese Pascal Lamy, ha annunciato la sospensione dei negoziati avviati a Doha, in Qatar, nel 2001. Alcuni osservatori hanno subito affermato che la crisi di questi negoziati si sarebbe ripercossa sull’intero sistema del commercio internazionale e soprattutto sull’organismo titolato a reggerne le fila, l’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO). Certamente per molti la decisione di Lamy di sospendere sine die i negoziati in corso è giunta inaspettata e ancora oggi, tre mesi dopo, la situazione del Doha Round appare confusa. Si tratta di uno stop definitivo o di un rinvio? Cosa sta accadendo al commercio internazionale? Hanno ragione a dolersi di questa situazione i Paesi poveri?
Le priorità
Innanzitutto non ci sono effetti evidenti sul commercio internazionale, che cresce indipendentemente dalle scaramucce di Ginevra e anche il WTO sopravvivrà a questo crash. Le alternative a un sistema multilaterale, ovvero gli accordi bilaterali e regionali, non risolvono i nodi su cui si sono arenati i negoziati del Doha Round. Questo ciclo di negoziati per amplificare
Cos’è il WTO
Ufficialmente nata il 1 gennaio 1995, l’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO, World Trade Organization), è il risultato del lungo ciclo di negoziati internazionali noti con il nome di Uruguay Round (UR). Ha la responsabilità di gestire il sistema multilaterale di regole commerciali, frutto di cinquant’anni di negoziati nell’ambito del GATT, l’Accordo generale sulle tariffe e il commercio. Essa, inoltre, costituisce il forum votato a portare avanti il processo dei negoziati per la liberalizzazione del commercio di merci e servizi, attraverso la rimozione delle barriere istituite nel passato dai governi, e a sviluppare nuove regole per la disciplina di tutti gli aspetti legati al commercio. il round negoziale denominato Doha round, che ha avuto inizio con la Quarta Conferenza Ministeriale del WTO tenutasi a Doha in Qatar nel novembre 2001.
al massimo la liberalizzazione venne lanciato a Doha, immediatamente dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001. Il nome ufficiale di Agenda di Doha per lo sviluppo venne stabilito per indicare la priorità di risolvere la situazione di squilibrio che tutt’oggi favorisce i Paesi industrializzati a scapito della maggioranza dei Paesi aderenti all’Organizzazione. Nessun round avrebbe potuto vedere la luce senza questa formale dichiarazione d’intenti. Il problema è che questa dichiarazione è rimasta sulla carta. Fin dall’inizio è stato evidente che USA e UE non avevano in testa di mettere al centro dei negoziati gli interessi dei Paesi poveri, nella loro agenda figuravano gli stessi obiettivi del round precedente: massimizzare l’accesso ai mercati altrui, difendere il più possibile i propri nei settori sensibili, mantenere la difesa delle proprietà intellettuali, spingere l’acceleratore nel settore dei servizi. Obiettivi che corrispondono agli interessi delle realtà imprenditoriali transnazionali ma che si contrappongono a quelli della maggioranza dei Paesi aderenti al WTO.
E infatti il problema attuale riguarda la diversità di interessi in gioco. Se i diversi ministri non sono riusciti a centrare gli obiettivi agricoli dopo tre anni e quattro mesi dalla scadenza fissata a Doha, significa che il problema non è tecnico, ma che le maggiori differenze fra i diversi Paesi membri del WTO riguardano il WTO stesso, i suoi obiettivi e la sua direzione di marcia. Gli ultimi dieci anni hanno messo a nudo la falsità delle promesse
“Lo scontro sul commercio non è più tra un ricco Nord e un povero Sud del mondo, ma tra chi nel libero mercato prospera, come le multinazionali del Nord, e chi dal libero mercato è escluso e lo sarà sempre di più, come la gran parte dei Paesi in Via di Sviluppo. La scelta è tra continuare a negare l’evidenza che il commercio non è un gioco in cui alla fine vincono tutti mentre si negoziano nuovi accordi di liberalizzazione, e fermarsi invece per valutare gli impatti delle liberalizzazioni commerciali negli ultimi decenni con un’attenzione particolare ai più poveri del pianeta”. Ci sono pubblicazioni che meritano particolare attenzione e pubblicità.Tra queste rientra l’opuscolo (da cui è tratta la citazione) Tutte le bugie del libero commercio. Perché la WTO è contro lo sviluppo, a cura di Campagna per la riforma della Banca Mondiale, Fondazione culturale Responsabilità Etica, Manitese, Altreconomia, Osservatorio sul Commercio Internazionale (www.tradewatch.it) La pubblicazione è stata realizzata nel 2005 ma è ancora di grande attualità e comprende in appendice un ricco e utile glossario.
di prosperità di una organizzazione che gestisce regole che si estendono ben oltre il concetto usualmente attribuito al termine “commercio”. Aderire al WTO ha significato e significa adottare un pacchetto di politiche precise e vincolanti che riguardano i brevetti, che spingono alla privatizzazione dei servizi, alla cancellazione di politiche industriali, alla modifica di leggi e regolamenti nei più disparati settori, ambiente e sanità inclusi. In fondo l’Agenda del WTO non è altro che una traduzione dell’ultranoto Washington Consensus che ha fatto grandi danni negli ultimi venti anni e che nessun analista oggi difende più. La delegittimazione del Washington Consensus ha come conseguenza la delegittimazione di tutta la serie di agreement implementati dal WTO, ma di questo nessuno a Ginevra sembra essersi reso conto. L’Organizzazione Mondiale del Commercio continua a portare avanti questo modello e a imporre ai Paesi che vi accedono una sorta di piano di aggiustamento strutturale che neppure la Banca Mondiale impone più.
Ma la favola del libero commercio come gioco in cui tutti vincono è passata di moda e tutti lottano per non perdere. In questo contesto sono inevitabili le attuali posizioni: l’UE cerca in modo aggressivo una maggiore liberalizzazione nei servizi e nel settore manifatturiero, ma non può andare oltre modeste concessioni in agricoltura che già sono state stabilite internamente dai suoi ministri competenti; il Brasile è aggressivo in agricoltura perché le sue esportazioni sono in rapida crescita e desidera consolidarle, mentre non vuole spingersi avanti negli altri settori. Gli USA sono in difficoltà in agricoltura, hanno perso competitività e sono diventati importatori netti, per questo vogliono nuovi mercati. L’India si oppone alla liberalizzazione agricola perché sa che perderebbe milioni di posti di lavoro, che non verrebbero assorbiti nel settore manifatturiero se vanno in porto le richieste euro-americane, né tanto meno nel decantato settore dei servizi.
Che fare?
Di questa paralisi non è il caso di dolersi poiché persino le analisi della Banca Mondiale e di diversi istituti di ricerca rivelano che i benefici dei negoziati in corso sarebbero modesti e che la fetta maggiore continuerebbe ad andare ai Paesi industrializzati; le disuguaglianze planetarie ne uscirebbero accresciute. I Paesi in Via di Sviluppo non devono dunque mostrarsi delusi perché la sospensione del Doha Round per loro rappresenta un’occasione per ripensare gli obiettivi del WTO. Almeno questo è il messaggio che le ONG hanno inviato ai ministri competenti. La maggioranza dei popoli di questo pianeta vive in povertà e un’ organizzazione multilaterale non può che partire da questo punto. Non ha senso negoziare un accordo sul commercio che non abbia
Uscire dalla povertà
Nel 2003, alla ministeriale di Cancun, Eveline Herfkens, ex direttore esecutivo della Banca Mondiale e attuale Coordinatrice esecutiva degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio dell’ONU, disse : “Un Doha Round a favore dei poveri potrebbe aumentare il reddito mondiale di 520 miliardi di dollari e far uscire dalla povertà 144 milioni di persone. Questo è il motivo per cui molti di noi sono qui oggi”. Le cifre citate si rifacevano a ricerche della Banca Mondiale che stimavano un beneficio mondiale di 832 miliardi di dollari, di cui 539 a favore dei Pesi in via di sviluppo. Da allora le cose sono molto cambiate e la stessa BM lo scorso anno ha abbassato la stima a 287 miliardi totali, di cui 90 a beneficio dei Paesi in via di sviluppo. Ma entrambe le stime si riferiscono a uno scenario di completa liberalizzazione degli scambi.
fra i propri obiettivi maggior equità, giustizia e stabilità sia economica che politica. Non si possono più accettare accordi che producono benefici solo per una parte minoritaria dei Paesi membri, o meglio a vantaggio delle imprese che hanno le loro cabine di regia in questi Paesi. Per recuperare legittimità, il sistema, deve partire dalle esigenze della maggior parte dei suoi membri, dalla marea di piccoli contadini che coltivano la terra per vivere e che non devono essere vessati da regole internazionali calate sulle loro teste da manager di poche multinazionali.
Il primo passo andrebbe perciò fatto in agricoltura, prendendo atto che l’accordo agricolo è un ostacolo alla sovranità e alla sicurezza alimentare. Occorrono accordi che gestiscano le eccedenze, che regolino l’offerta, che evitino il dumping e assicurino corrispondenza fra prezzi di vendita e costi di produzione. Il sistema dei sussidi implementato nella Politica agricola europea e nella Farm Bill americana vanno anch’essi riformati, ma il WTO deve iniziare col fare un passo indietro da questo settore che ha erroneamente invaso nel 1994. Così come deve fare un passo indietro rispetto agli altri accordi multilaterali che riguardano i diritti umani, il lavoro e l’ambiente. Il commercio non si situa in un vuoto assoluto al di sopra di tutto il resto. Esiste una Organizzazione Internazionale del Lavoro che ha stabilito degli standard lavorativi e vi sono più di 200 trattati sull’ambiente che riguardano l’inquinamento, il trattamento di sostanze tossiche, le merci pericolose, i rifiuti e un’Organizzazione Mondiale della Sanità competente nella sua materia, per non parlare delle altre agenzie ONU che si occupano di agricoltura e sviluppo umano. Occorre, dunque, dimenticare Doha e partire con una nuova agenda che ristrutturi radicalmente un sistema iniquo che, anche a negoziati sospesi, mantiene operativi i propri vincoli.