Johnny il seminatore
Johnny è tornato. Tutto il paese era lì ad aspettarlo, vogliono sapere, sentire da lui cosa c’era “laggiù”. Vogliono che gli parli del nemico, che dia un senso a quella parola che non ha un volto preciso. Johnny è cambiato. Non tornerà a indossare la sua divisa e quello che racconta non piace ai suoi amici, alla gente del suo paese. “Nessuna battaglia”, disse Johnny, “nessun duello. Dovete sapere che è così. Non ho mai visto un aereo nemico. Nessuno mi ha mai sparato un colpo addosso... Ho scaricato tonnellate di bombe volando così in alto che c’eravamo solo io e il Padreterno. Mi hanno detto di minare scientificamente ogni campo di grano, ogni torrente, ogni pozzo, ogni strada dei villaggi. E io l’ho fatto. Pare che facesse parte del mio dovere. E adesso in quei villaggi non si lavora la terra, non si attinge acqua e ogni bambino che vede qualcosa luccicare tra l’erba e la raccoglie diventerà un mutilato. E io non posso essere orgoglioso di questo”. Francesco D’Adamo, autore di Johnny il seminatore (Fabbri, Milano 2005), ama raccontare ai ragazzi le storie più difficili. Forse qualcuno avrà letto il suo Storia Iqbal. Racconta con parole misurate, che ben rappresentano il loro mondo. Se avete voglia di parlare con e ai ragazzi del tremendo flagello delle mine antiuomo, iniziate a leggere con loro questo libro.
Agata Diakoviez
Circa 740 chilometri quadrati di terra bonificati nel 2005, una superficie pari alla dimensione della città di New York, ben 470.000 mine terrestri e ben 3,75 milioni di ordigni inesplosi rimossi dal terreno: è il maggior numero di aree bonificate a partire dal 1980. Ma le mine terrestri, che non sanno di essere state messe al bando, continuano a uccidere e a contaminare ben 78 Paesi e la percentuale delle persone ferite è aumentata dell’11%, a causa dell’intensificarsi dei conflitti di Myanmar, Ciad, Colombia, Pakistan e Skri Lanka, mentre tre governi – Myanmar, Russia e Nepal – vi hanno fatto ricorso nell’ultimo anno. Più di un milione di persone continua a vivere in aree minate. Malgrado ciò i fondi internazionali destinati alla
Mine Action sono in continuo decremento: la Commissione Europea nel 2005 ha destinato ben 14,9 milioni di dollari in meno alla
Mine action, 14,6 milioni di dollari in meno gli Stati Uniti e 3,5 milioni di dollari in meno il Giappone, che sono i maggiori Paesi donatori per questo tipo di intervento. L’Italia, pur essendosi dotata nel 2001 di un Fondo per lo sminamento umanitario, ha dimezzato i fondi a disposizione anche se nel 2005 ha garantito un sostegno maggiore alla
Mine action con fondi provenienti da altri capitoli di spesa di cooperazione internazionale e si attesta quindicesima fra i 27 Paesi donatori.
Victim action
I Paesi che hanno ricevuto la maggior parte dei fondi per la Mine action nel 2005: Afghanistan (66,8 milioni), Sudan (48,4 milioni), Angola (35 milioni), Iraq (27,8 milioni), Cambogia (23,9 milioni). Un particolare riferimento va all’inadeguatezza dei fondi destinati alla Victim assistance intesa come insufficienza di sostegno a programmi di reinserimento socioeconomico e di sostegno alle famiglie e alle comunità che convivono con il problema. Questo malgrado risulti un incremento del 29% di fondi identificati come “a sostegno” della Victim assistance. A oggi, sono
E le cluster bombs?
Si definisce mina antipersona ogni dispositivo od ordigno dislocabile sopra, sotto, all’interno o accanto a qualsiasi superficie e congegnato o adattabile mediante specifiche predisposizioni in modo tale da esplodere, causare un’esplosione o rilasciare sostanze incapacitanti come conseguenza della presenza, della prossimità o del contatto di una persona. (Legge 29 ottobre 1997 n. 374 recante le norme per la messa al bando delle mine antipersona). Questa definizione per estensione e interpretazione comprende, nelle intenzioni della società civile che l’ha promossa, anche l’inclusione di ordigni quali le sub-munizioni delle cluster bombs che, rimanendo inesplose sul terreno in un numero elevatissimo, si trasformano in vere e proprie mine antipersona. Il dissennato uso di cluster bombs nel recente conflitto libanese ha evidenziato con chiarezza quello che le organizzazioni umanitarie che compongono la Cluster Munition Coalition denunciano da anni: le cluster bombs sono mine a tutti gli effetti. La Campagna Italiana Contro le Mine sta promuovendo da diversi anni una riflessione sulla legittimità di utilizzo di questo sistema d’arma. L’appello alla messa al bando di questi ordigni è stata recepita da più di 37 senatori firmatari di un disegno di legge che includa specificatamente le sub-munizioni delle cluster bombs tra gli ordigni mesi al bando dalla legge 374/97.
151 gli Stati che hanno aderito al trattato di Ottawa: circa due terzi dei Paesi al mondo. Altri tre lo hanno firmato, ma ancora non hanno proceduto alla ratifica: tra questi uno dei nuovi Paesi membri dell’Unione Europea allargata, la Polonia. E un altro dei membri dell’UE – la Finlandia – figura, incredibilmente, nella lista dei 40 Paesi che ancora rimangono al di fuori del “club di Ottawa”, malgrado i numerosi pronunciamenti e impegni concreti assunti dall’UE nella lotta contro le mine. A farle compagnia nella “lista nera” ci sono tre dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU (Ci-na, Russia e Stati Uniti), Paesi coinvolti in sanguinosi conflitti interni (Birmania, Nepal) e altri ancora situati in aree di forti tensioni (India, Pakistan, Egitto, Israele, Iran). La necessità di difendere i confini nazionali – o di proteggere le proprie istallazioni militari dagli attacchi di gruppi armati ribelli – è la giustificazione addotta più di frequente per la mancata adesione al trattato. Questa giustificazione, più o meno valida a seconda dei contesti (non è servito a nulla, per esempio, alle forze armate irachene minare strade, ponti e infrastrutture varie, di fronte alle armi ultramoderne delle forze di coalizione anglo-americana), è comunque poco lungimirante. Non riconosce, infatti, che l’efficacia militare immediata delle mine è di gran lunga superata dai loro sproporzionati effetti negativi di lungo periodo e che i costi della bonifica dei territori, della prevenzione degli incidenti e dell’assistenza e riabilitazione delle vittime costituiscono spesso un fardello insostenibile per sistemi economici già provati da un conflitto.
Nuove sfide
Malgrado le assenze illustri, nei sette anni trascorsi dall’entrata in vigore del trattato si sono fatti notevoli passi avanti. Nell’ultima edizione del Landmine Monitor Report, relativa al 2005-2006, si registra l’uso di mine solo in tre governi (Mynmar, Nepal e Russia) e una marcata riduzione nel numero dei Paesi che producono, o che si riservano il diritto di produrre, mine antipersona (sono scesi a 12 da più di 50 nel 1999). Inoltre il commercio si è praticamente bloccato, sono stati distrutti più di 39,5 milioni di ordigni antipersona conservati negli arsenali degli Stati facenti parte del trattato (ma anche di alcuni Stati non firmatari, come gesto di buona volontà)
Nuove armi
a cura di Flaviano Masella e Maurizio Torrealta
L’inchiesta è nata dall’allarme lanciato a metà luglio da alcuni medici degli ospedali di Gaza, che hanno trattato per la prima volta ferite inspiegabili che hanno portato all’amputazione di un arto inferiore in almeno 62 casi. I medici hanno chiesto più volte aiuto alla comunità internazionale per comprendere le cause di queste strane ferite che presentavano piccoli frammenti, spesso invisibili ai raggi X e inspiegabili recisioni provocate dal calore negli arti inferiori. Diversi articoli sono apparsi nella stampa internazionale e nazionale. Dopo una lunga ricerca il nucleo inchieste di Rainews24 ha individuato la possibile causa di questi effetti: si tratterebbe di un’arma nuova che viene sganciata da aerei droni e viene teleguidata con precisione sull’obiettivo fissato. L’arma, secondo la rivista militare “Defence Tech”, viene chiamata DIME, che significa Direct Inert Metal Esplosive. Si tratta di un involucro di carbonio che, al momento dell’esplosione, si frantuma in piccoli frammenti e nello stesso momento fa esplodere una carica che spara in modo molto preciso una lama di polvere di tungsteno caricata di energia che brucia e distrugge con un’angolatura molto precisa quello che incontra nell’arco di quattro metri. L’arma si inserisce nella nuova classe di armi “a bassa letalità”, che minimizzano i danni collaterali e circoscrivono in uno spazio ristretto gli effetti letali.
Fonte: Rainews 24
ed è avanzata la bonifica dei territori minati, restituiti all’uso produttivo e alla convivenza civile. Nel marzo 2006 è stato segnalato un possibile trasferimento di mine dell’Eritrea ad alcuni guerriglieri fondamentalisti somali, ma la segnalazione da parte dei Caschi Blu che monitoravano l’embargo è stata dichiarata infondata dal governo eritreo. Anche l’Italia ha saputo lasciarsi alle spalle il suo passato di produttore e commerciante di mine, sottoscrivendo il trattato e adottando una legislazione nazionale che proibisce, e punisce penalmente, la produzione, l’uso e il commercio delle mine antipersona (legge 374/97).Va notato che la definizione di “mina antipersona” contenuta nella legislazione italiana resta ancor oggi una delle più avanzate e comporta un grado di protezione per la popolazione civile superiore rispetto a quella dello stesso trattato di Ottawa. Il legislatore italiano ha infatti scelto di basarsi sugli effetti antipersona degli ordigni, piuttosto che sul loro progetto. In questo modo risultano proibiti anche ordigni ufficialmente definiti “anticarro” (e come tali esclusi dall’ambito di applicazione del trattato di Ottawa) ma suscettibili di esplodere al contatto involontario di una persona, per esempio a causa di inneschi particolarmente sensibili o a inciampo, o della presenza di appositi dispositivi che fanno detonare la mina quando qualcuno cerchi di rimuoverla.