“Jambo” padre Alex
Alex Zanotelli ha imparato a ballare. È successo in Africa, nella baraccopoli di Korogocho dove il canto spezza il lento susseguirsi della vita e della morte. Perché lì non c’è fretta. I miserabili dicono “jambo” quando ti salutano. Jambo non significa nulla, vuol solo dire che “non ci sono problemi” perché dal nulla non può che venire il nulla. E allora senza niente si può anche sorridere al prossimo stringendogli la mano. E danzare con lui fino all’alba.
Jambo è la parola che ha accompagnato i quattordici anni di missione di Alex. Quando scriveva agli amici in Italia iniziava sempre con quella parola: “Carissimi, jambo!”. Ora la raccolta completa delle lettere da Korogocho sono pubblicate dalla Emi in un libro che uscirà domani con il titolo “Da Korogocho con passione. Lettere dai sotterranei della vita e della storia”.
Ricordo ancora il giorno in cui lessi la prima lettera. Mi arrivò per caso attraverso alcuni amici. Conoscevo il nome di Zanotelli per via delle polemiche suscitate dalla sua inchiesta sul traffico di armi dell’Italia con i paesi del sud del mondo. Alex era direttore di Nigrizia e il giornale mi appassionava molto. Nel maggio del 1988 mi arrivò il suo primo “jambo”: “Il 24 febbraio a mezzanotte - scriveva Alex - ho lasciato in aereo il mondo dei ricchi diretto nell’emisfero sud. Destinazione: Nairobi, capitale del Kenya (...) Personalmente ho voluto partire dal nord senza niente per potermi meglio inserire povero (per modo di dire) fra i poveri. Così quella sera del 24 febbraio mi sono trovato con il mio zaino ed il borsone in un angolo di Fiumicino aspettando il via di imbarco. Tra le mani avevo la Bibbia, l’enciclica del Papa e una pubblicazione fresca di stampa che avevo trovato il mattino in una libreria romana”.
Dal nord al sud, dal mondo dei ricchi alla miseria più nera. Il balzo è rapido. Nella stessa lettera l’annuncio di Korogocho non è che dieci righe più sotto: “Il giorno delle Palme sono andato a vivere l’entrata di Gesù a Gerusalemme in una delle più spaventose baraccopoli: Korogocho... È stato commovente vedere quei volti nero-ebano illuminarsi mentre mi tracciavano sulle mani un grande segno di croce”.
Due anni dopo, quando Alex tornò la prima volta a Livo per un breve riposo, mi precipitai ad incontrarlo con la lettera in mano. Era un novembre bigio, nevicava forte. Bussai alla porta e mi aprì la mamma di Alex, che dodici anni più tardi andai a trovare all’ospedale di Cles ormai morente. Antonietta chiamò Alex che ci salutò con il saluto dei poveri: “Jambo”. Era il segno di un trapasso culturale, antropologico, dal sistema alla periferia. La scelta di condividere fino in fondo la vita degli impoveriti di Korogocho iniziava già dalle parole, dal linguaggio.
Nelle lettere da Korogocho si percepisce il dramma immenso dei baraccati: “In Africa - scriveva in una lettera datata 21 aprile 1989 - siamo solo agli inizi di un fenomeno che andrà assumendo proporzioni gigantesche. Si prevede che mezzo miliardo di africani vivrà in baraccopoli fra 30 anni... I poveri sono costretti a lavorare per accrescere la ricchezza dei ricchi. Un sistema di morte, il nostro, che sacrifica tutto e tutti al Molok del denaro, a Mammona; anche la natura. Oggi, infatti, di conseguenza, il pianeta è gravemente minacciato di morte”.
Alex studia di notte. Ha la baracca colma di libri, non dorme perché la morte per Aids lo assedia. La percentuale di infettati a Korogocho è spaventosamente alta e lui deve correre a fare il segno di croce sui visi scheletrici dei moribondi. Le sue lettere sono piene di denunce al mondo ipocrita che ammette l’inesorabile declino del continente nero: “Questo stesso processo critico che vi fa leggere la realtà dai sotterranei della storia - scriveva ancora Zanotelli - vi porterà a rimettere in discussione anche la nostra superiorità culturale: la tribù bianca detentrice della civiltà e della cultura. "L’arma più potente utilizzata quotidianamente dall’imperialismo - scrive Ngugi wa Thing’o, il noto romanziere keniano - è la bomba culturale. L’effetto di questa bomba è quello di distruggere la fede di un popolo nei loro nomi, nelle loro lingue, nelle loro capacità e, in definitiva, in se stessi". ...
O tutti impareremo a rispettarci o non vi sarà mai pace”, Alex accarezza i volti dei poveri. Il tema del volto è fortissimo nelle lettere. Il comboniano si rifà al filosofo francese Emmanuel Lévinas, al filosofo di Urbino Italo Mancini e al fiorentino Ernesto Balducci: “Accogliendo l’altro ci si apre al totalmente Altro”. Gli altri di Zanotelli sono tutti diversi. Anche nella concentrazione della baraccopoli i volti riflettono identità plurali. Ogni individuo ha una sua storia particolare e domenica la raccontano a messa. Alex li ricorda: “La prima è una ragazzina: “Mi chiamo Wairimu – dice rivolgendosi all’assemblea -. Prima rubavo, dormivo in discarica… Ora ho deciso di cambiare vita”. E depone il suo dono, oro, davanti a Gesù. “Io derubavo gli ubriachi – dice Mburu – Poi andavo a comprarmi la colla per sniffare e anche la droga. Ora ho lasciato tutto questo. Oggi profumo come mirra”. E depone il suo dono. La terza è una bimba. “Mi chiamo Catherine. Andavo a raccogliere rifiuti in discarica per comprarmi la colla. Ma dopo aver scoperto Gesù, ho cambiato la vita che ora profuma come incenso”. E lo depone davanti al presepio. Poi è il turno delle ragazze madri venute per la benedizione dei loro bimbi. “La mia vita è stata poco di buono. Quando mi sono accorta di essere incinta – dice Atieno all’assemblea – avevo subito pensato di abortire. Ma alcuni amici mi hanno aiutato a ripensarci. Alla fine ho deciso di tenermelo. Si chiama Padre Arcadio! Sono così fiera ora di questo bimbo!”. E lo mostra con gioia grande all’assemblea. Lo stesso fa un’altra ragazzina splendida dell’Udada, Milka, che ha fatto un cambiamento di 360 gradi. È festa, festa di volti, di bimbi…”.
Le lettere di Alex sono un “inno alla vita”, dicono alcuni. Secondo me hanno un ritmo di danza, come se fossero scritti sotto il battere dei timpani. Denunciano il sistema rigido del potere, lo colpiscono come nel caso della battaglia vinta da Alex e dalla comunità contro la Del Monte in Kenya totalmente irrispettosa dei diritti minimi di lavoro e di rispetto dell’ambiente, ma muovono come si muovono i poveri lungo i passaggi stretti e melmosi delle baraccopoli. Con ironia come ce lo racconta Alex: “Yesu ni mjinga – afferma Nyoro della Piccola Comunità del Mukuru commentando il Vangelo di Natale - Amekuja kwa sisi wajinga” (Gesù è un disgraziato ed è venuto per noi disgraziati che siamo!)”.
Dal 2002 Alex è rientrato in Italia per cercare di “togliere il veleno dalla testa del serpente” come direbbe il vescovo brasiliano Hélder Camara immaginando il sistema neoliberale come un animale velenoso.
Quei quattordici anni di Korogocho raccontati dalle lettere rappresentano una pezzo di quel mondo scandaloso che continua a perpetrarsi nei tanti sud della terra. E, purtroppo, l’attualità di quel libro si incrocia con il fallimento della politica nel suo orizzonte più alto, più umano. L’ultimo grido d’allarme della Fao è una spada che lacera l’ottimismo dei governi. L’obiettivo di dimezzare il numero dei morti di fame entro il 2015 si è rivelato impossibile. La politica anziché procedere è arretrata. Lo scandalo è scritto nelle statistiche della Fao: al mondo ci sono 854 milioni di persone che soffrono la fame. Il numero non solo non è diminuito ma si è rinsaldato.
Nelle lettere di Padre Alex gli affamati hanno un nome, un volto e un sorriso, cantano, ballano e muoiono nel silenzio di un “jambo”. Korogocho ne contiene un milione, gli altri 853 milioni sono disseminati nelle tante Korogocho del mondo.