L’uranio che uccide

Impatto ambientale, rifiuti da smaltire, scorie da nascondere.
L’eredità del processo produttivo dell’energia nucleare.
Gianni Tamino (Biologo, Università di Padova)

Più volte, negli ultimi tempi, uomini politici, economisti e i soliti “scienziati filonucleari” hanno riproposto l’energia nucleare come soluzione per la crisi energetica dovuta alla scarsità di petrolio e per risolvere l’effetto serra provocato dalle emissioni di anidride carbonica (CO2) che si verificano ogni volta che si utilizzano combustibili fossili. Si tratta comunque di valutazioni molto discutibili.
Infatti, se le stime pongono il picco del petrolio (cioè il momento in cui la domanda supera la possibile offerta) intorno al 2020 e quello del gas naturale tra il 2030 e il 2060, non molto migliore è la stima per l’uranio (U): con le attuali centrali si prevede il raggiungimento del picco nel 2060, ma se il numero di impianti dovesse crescere la data si sposterebbe al 2040- 2050, cioè nello stesso periodo in cui si può collocare il picco combinato di petrolio e metano.
Per quanto riguarda, poi, l’emissione di gas serra, la produzione di CO2 non dipende solo dall’impiego di un combustibile in una centrale, ma da tutto il percorso che va dall’estrazione del combustibile alla gestione di scorie e rifiuti. Inoltre va confrontato l’insieme degli impatti ambientali e sanitari delle diverse fonti di energia. In tale ottica è importante considerare il processo di produzione, di utilizzo e di smaltimento del combustibile nucleare.

Uranio impoverito
Il minerale di uranio viene concentrato per macinazione e poi trasportato in un impianto di conversione, dove viene trasformato in esafluoruro di uranio gassoso (UF6). Nell’impianto di arricchimento isotopico, questo gas viene spinto contro una barriera porosa che funge da setaccio: l’uranio 235, più leggero, vi penetra più facilmente dell’uranio 238. Il prodotto arricchito (al 3-4% di U-235) viene quindi mandato a un impianto di fabbricazione del combustibile, dove il gas di UF6 viene trasformato prima in polvere di ossido di uranio e poi nelle pastiglie di cui sono composte le barre di combustibile, che saranno trasportate al reattore, pronte per essere utilizzate.
Ma il processo di arricchimento produce anche grandi quantità di uranio impoverito, ossia uranio cui manca la corrispondente quantità di U-235. L’uranio impoverito ha un suo mercato soprattutto come metallo per i proiettili penetranti dei cannoni e dei missili, ma anche nell’industria aeronautica.
Come già detto, un terzo del combustibile nucleare ogni anno deve essere sostituito con materiale nuovo, a causa dell’impoverimento in U-235 e dell’accumulo di prodotti di fissione che assorbono neutroni. Il combustibile usato, divenuto un rifiuto nucleare, viene conservato in un contenitore metallico pressurizzato per circa un mese e quindi immerso per almeno un anno all’interno di vasche di raffreddamento nelle vicinanze del reattore.
Spesso si parla di “ciclo del combustibile nucleare”, una definizione entrata nel linguaggio comune, ma che non ha alcun riscontro con la realtà. Infatti non vi è nessun ciclo, perché il processo non viene chiuso, ripristinando le condizioni di partenza, come succede nei cicli biogeochimici naturali, alimentati dall’energia solare (ciclo del carbonio, dell’acqua ecc.). Il mito del ciclo del combustibile nucleare nasce dall’antico sogno di poter separare negli impianti di ritrattamento il plutonio fissile generato dai reattori commerciali e di poterlo poi riutilizzare nei reattori autofertilizzanti veloci, dando così vita a un passaggio perpetuo da U-238 (uranio non fissile) a Pu-239 (plutonio), destinato a ulteriori reattori dello stesso tipo. L’idea era di creare un ciclo industriale con molti reattori autofertilizzanti veloci e dozzine d’impianti di ritrattamento, come quelli che oggi si trovano solo in Francia, a La Hague, e in Gran Bretagna, a Sellafield. Ma la tecnologia del reattore autofertilizzante è enormemente cara, tecnicamente poco sviluppata, ancora più controversa, dal punto di vista della sicurezza, degli impianti nucleari convenzionali, e particolarmente vulnerabile agli usi militari. Per queste ragioni il più noto reattore di questa specie, il Superphenix francese, è stato spento nel 1998.
L’uranio è quindi una risorsa non rinnovabile e non vi è alcun ciclo, ma solo un processo lineare che si conclude con una grande produzione di scorie e di rifiuti, che a tutt’oggi non si sa dove mettere.

Cosa fare dei rifuti?
Vanno considerati rifiuti radioattivi tutti gli scarti del processo di produzione e utilizzo del materiale nucleare: dalle scorie di miniera ai sottoprodotti delle operazioni chimiche di purificazione e di arricchimento, ai sottoprodotti del funzionamento delle centrali fino ai residui delle operazioni di ritrattamento del combustibile irraggiato. Infine divengono rifiuti da gestire i materiali costitutivi delle centrali, una volta esaurita la capacità di produrre energia.
La prima centrale realizzata in Italia, quella del Garigliano, caratterizzata da innumerevoli incidenti senza alcuna produzione significativa di energia elettrica, è stata anche la prima ad essere chiusa nel 1982: si tratta di 53 tonnellate di combustibile che si intende riprocessare a Sellafield. Le scorie sono state immagazzinate con altri materiali nucleari da ormai 20 anni nel deposito Fiat Avogadro vicino Vercelli. Se riprocessate, le 53 tonnellate di combustibile usato della centrale di Garigliano produrranno circa mezza tonnellata di plutonio (potenzialmente utilizzabile per usi militari), 50 tonnellate di uranio impoverito, 400 metri cubi di scorie di basso e medio livello e 5,3 metri cubi di scorie vetrificate di alto livello di radioattività.
Alla fine gran parte o tutto questo materiale dovrà essere messo in ipotetici depositi definitivi per tali scorie e rifiuti, ma a tutt’oggi nessun Paese al mondo ha trovato una valida soluzione per lo stoccaggio finale delle scorie radioattive. Da noi è sufficiente ricordare il famigerato decreto che imponeva il deposito permanente delle scorie a Scanzano Jonico, ipotesi saltata per la ferma opposizione della popolazione locale e per l’insostenibilità delle caratteristiche del sito individuato. Preoccupante a tal proposito che queste operazioni siano affidate alla SOGIN del generale Jean, società la cui nascita e la cui attività sollevano non pochi dubbi.

Troppo tardi!
Anche decidendo ora di ricorrere al nucleare, il suo apporto in termini di riduzione di gas serra sarebbe limitato e arriverebbe troppo tardi (come ammette un lavoro pubblicato dal Politecnico di Milano).
Ma la dipendenza da fonti fossili per il processo produttivo del combustibile nucleare comporta anche un minor rendimento energetico e la produzione di tutti gli inquinanti, legati alla combustione di tali fonti. Inoltre vi sono tutti gli impatti specifici del materiale radioattivo estratto, utilizzato ed esaurito.
L’estrazione di uranio nelle varie miniere del mondo ha creato gravi problemi ai lavoratori, all’ambiente e alla popolazione. Ad esempio nelle prime miniere, dopo anni di duro lavoro in gallerie poco ventilate, contaminate dal radon radioattivo, migliaia di minatori morirono di tumore polmonare. Molti dei minatori statunitensi impiegati nelle miniere di uranio erano nativi Navajos, dato che molte delle miniere erano collocate nelle loro riserve e alcuni di loro e dei loro discendenti sono stati beneficiari di una legge che nel 1990 ha riconosciuto il danno loro arrecato. Tra i più colpiti anche i minatori del sito tedesco orientale di Wismut, che all’epoca impiegava oltre 100.000 persone.
Enormi masse di terra rimossa dalle miniere venivano liberamente ammassate all’aperto e i cumuli contenevano concentrazioni relativamente elevate di gas radon e di altri nuclidi radioattivi, e non solo i minatori, ma anche l’area circostante e i residenti furono perciò esposti a elevate e prolungate radiazioni.
L’uranio, anche quello impoverito, può provocare danni, nonostante le particelle alfa che emette non siano in grado di attraversare la pelle. Infatti una persona può esporsi all’uranio sia inalandone le polveri nell’aria che ingerendolo con il cibo e con l’acqua.
Si è visto, infatti, che le persone che vivono in aree vicine a poligoni nucleari o a miniere in cui lavorano i minerali possono essere esposte a livelli di radioattività più elevati per via della produzione di polveri sottili e radon che vengono trasportati dai venti nelle zone circostanti.
Anche le acque usate dalle miniere per il trattamento del minerale possono diventare veicolo di contaminazione per le aree vicine.
La contaminazione continua nelle fasi di arricchimento, tenendo anche presente che l’esafluoruro di uranio è molto corrosivo; vi sono inoltre i rischi connessi al trasporto del combustibile e poi gli impatti della centrale nucleare nel suo normale funzionamento, anche a prescindere dal rischio di incidenti gravi, come avvenne a Chernobyl. Infatti, come ricordano Mattioli e Scalia, la dose limite di radiazioni indicata dalla Commissione Internazionale per la protezione dalle radiazioni (Icrp) per il personale addetto agli impianti e per la popolazione non significa dose al di sotto della quale non vi è rischio, bensì quel livello di radiazioni cui sono associati effetti somatici (tumori, leucemie ecc.) o genetici, che vengono considerati accettabili per l’individuo e per la collettività in vista dei benefici economici derivanti dalle centrali. Secondo Icrp in corrispondenza alla dose ammessa si possono verificare una decina di morti all’anno per tumore su 10.000 lavoratori esposti.
Rilasci di quantità nocive di sostanze radioattive avvengono poi nella routine quotidiana delle centrali di riprocessamento, come documentato dall’elevata incidenza di leucemia infantile e giovanile a Sellafield e La Hague dove, nei campi vicino al deposito, nel 2005, sono stati riscontrati livelli medi nelle falde di 9000 Bq/l (Bequerel per litro), mentre il limite europeo è di 100 Bq/l.
Ma non possiamo certo dimenticare che, oltre ai gravi incidenti di Three Mile Island e di Chernobyl, molti altri sono stati gli incidenti anche mortali verificatasi nelle varie centrali nucleari sparse per il mondo. Possiamo ricordare che in Francia, per esempio sono state presentate oltre 200 denuncie da cittadini con cancro tiroideo e 277 incidenti nucleari sono stati catalogati dall’osservatorio atomico di Vienna.
Limitandoci poi solo all’ultimo periodo va ricordato che la Kansai Electric Power Company (la compagnia proprietaria dell’impianto nucleare giapponese di Mihama) è stata messa sotto inchiesta con pesanti accuse di negligenza: la conduttura che ha provocato un incidente mortale nel 2004 non veniva adeguatamente controllata dal momento dell’installazione, nel 1976. Prima di questo incidente, negli ultimi anni in Giappone c’era già stata l’esplosione nell’impianto di Tokaimura nel 1999, con tre operai morti, molti feriti e centinaia di cittadini contaminati anche in modo grave.
Sempre a Tokaimura, nel 1997, un’esplosione aveva disperso in atmosfera gas radioattivo. Infine il 16 maggio 2004 vi è stato un incidente in una centrale nucleare francese vicino a Strasburgo: uno dei reattori è stato fermato in seguito a un incendio.

Allegati

  • Richiesta di energia per la vita operativa di un reattore ad acqua pressurizzata (PWR) da 1000 MWe, con 0,3% di arricchimento (Chattanooga Shale), che produce 197.100.000 MWh.

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