Chernobyl non docet
Si stanno moltiplicando sulla stampa e in internet documenti e scritti, spesso ammantati di una certa autorevolezza scientifica, che indicano l’opportunità di tornare di nuovo a produrre elettricità con centrali nucleari. Le tesi revisioniste filo-nucleari sono basate sui seguenti punti:
- l’elettricità nucleare non è associata alla produzione di gas serra;
- l’elettricità nucleare non è inquinante, a differenza di quella ottenuta bruciando prodotti petroliferi e carbone;
- l’elettricità nucleare costa, per KWh, meno di quella ottenuta dai combustibili fossili e, a maggior ragione, dalle fonti rinnovabili;
- la produzione di elettricità nucleare permette di affrontare con tranquillità il problema del graduale impoverimento delle riserve di petrolio;
- il problema della sistemazione delle scorie radioattive è fastidioso, ma è risolvibile.
Errori e bugie
Come tutte le operazioni di revisionismo, tali tesi nascondono errori e bugie dietro alcune verità:
- è vero che l’uso dei combustibili fossili comporta un aumento delle emissioni nell’atmosfera di gas (i cosiddetti “gas serra”) responsabili del lento, continuo, riscaldamento planetario dell’atmosfera e degli oceani e dei mutamenti climatici;
- è vero che le riserve mondiali di petrolio (presto, anche di gas naturale) stanno impoverendosi e i problemi di scarsità e di relativo aumento dei prezzi si faranno sentire in uno o due decenni, anche come conseguenza della crescente conflittualità associata al controllo politico e militare delle riserve;
- è vero che l’estrazione, il trasporto e la combustione degli idrocarburi e del carbone negli attuali motori e centrali e macchine termiche immettono nell’ambiente sostanze nocive;
- è vero che l’estrazione del carbone comporta un alto prezzo di vite umane;
- è vero che il calore o l’elettricità ottenuti dalle fonti energetiche rinnovabili, tutte direttamente o indirettamente di origine solare, calore a bassa, media o eventualmente alta temperatura, elettricità fotovoltaica o termoelettrica, dal vento o dal moto ondoso, calore dalla combustione di materie organiche derivate dalle biomasse hanno, con le attuali tecniche, un costo in euro per joule o per KWh, superiore alle corrispondenti forme di energia ottenute dai combustibili fossili.
Infine i revisionisti sostengono che l’energia nucleare è sicura perché nelle molte diecine di anni in cui alcune centinaia di reattori hanno funzionato ci sono stati due soli incidenti “importanti”, quello di Three Mile Island negli Stati Uniti, in cui non è morto nessuno, e quello di Chernobyl, in Ucraina, che si è verificato in forma catastrofica perché era stato costruito dai comunisti.
Non è vero
Non è vero, però, che l’energia nucleare risolve o attenua i precedenti problemi. Essa, infatti, non è né economica, né sicura né pulita. Si può pensare che sia “economica” se si fanno i conti del costo, non del prezzo, che con il costo non ha niente a che fare. Il costo dell’elettricità nucleare è ben più alto del costo dell’elettricità ottenibile dai combustibili fossili, da fonte idroelettrica o geotermica e anche da fonti rinnovabili.
I costi monetari dell’elettricità nucleare devono essere calcolati in riferimento al suo intero ciclo: si comincia con i costi relativi all’estrazione dei minerali di uranio e alla relativa concentrazione a ossido, con formazione di grandi quantità di scorie, sia pur blandamente, radioattive. Seguono i costi della trasformazione per via chimica dell’ossido di uranio in esafluoruro di uranio, con formazione anche qui di scorie, sia pur blandamente, radioattive. A questo punto vi sono i costi della trasformazione dell’esafluoruro di uranio in un concentrato di esafluoruro di uranio contenente dal 3 al 4% di uranio-235, con formazione di sottoprodotti di uranio “impoverito” contenente meno dell’1% di uranio-235.
Una parte dei costi di arricchimento è pagato dal fatto che il residuo di fluoruro di uranio impoverito può essere trasformato in uranio metallico, blandamente radioattivo che, essendo un metallo pesante, trova impiego come zavorra per battelli e aerei e, essendo piroforico, trova “utile” impiego come proiettile di cannoni o di aerei. Il ricavato di questo commercio va detratto dal costo (ben mag- giore) del processo di arricchimento. A questo punto vanno contabilizzati i costi di trasformazione chimica dell’esafluoruro arricchito di uranio-235 in ossido, che viene introdotto nei reattori per liberare calore per fissione nucleare.
Cominciano poi i costi relativi alla costruzione e all’installazione del reattore e della centrale. Sfuggono a una reale valutazione del costo dell’elettricità nucleare i costi coperti da finanziamenti pubblici, da concessioni da parte di enti pubblici dei suoli, dell’acqua di raffreddamento, della protezione da assalti, delle norme di sicurezza dei lavoratori e altri costi ancora. Ogni uno o due anni il combustibile deve essere estratto dal reattore, sotto forma di “combustibile irraggiato” ed entra in un’altra parte del ciclo che genera costi da attribuire all’elettricità prodotta.
Il combustibile irraggiato deve stazionare per mesi o anni in una piscina sott’acqua, e anche questo costa.
Un bivio
Il combustibile irraggiato può seguire due strade.
La prima strada è quella del recupero del plutonio e sua separazione dai prodotti di fissione o di irraggiamento e dall’uranio, con i relativi costi a cui vanno aggiunti altri costi sconosciuti, ma elevati, per la sepoltura, per migliaia di anni, dei residui radioattivi diversi dal plutonio; tale operazione può peraltro avere anche un piccolo ritorno monetario sotto forma di plutonio venduto a fini militari, nessuno può dire a quale prezzo; un piccolo ritorno monetario si può anche avere dalla vendita (nessuno sa a quale prezzo) del plutonio come “combustibile” per altri reattori nucleari in forma di ossido misto di uranio-plutonio, dopo che è svanita la follia dell’uso del plutonio in reattori autofertilizzanti.
La seconda strada consiste nella sepoltura, per migliaia di anni, del combustibile irraggiato (nessuno sa come e dove e nessuno sa quali siano i costi delle prospezioni geologiche), della costruzione di gallerie sotterranee, dei tentativi poi abbandonati.
Le precedenti considerazioni indicano che qualsiasi “ragionevole” indicazione di un basso costo dell’elettricità nucleare è falsa, essendo noti (con forti incertezze) e contabilizzabili soltanto alcuni costi ed essendo del tutto sconosciuti in gran parte i costi complessivi. Il lettore avrà notato che non ho preso in considerazione nessun costo monetario associato agli esseri umani, come spese per il ricovero di operai o di persone esposte a radiazioni, perdita di ore di lavoro, spostamento di popolazioni dalle zone a rischio, costi della militarizzazione e del controllo poliziesco delle zone coinvolte con attività nucleari.
Energia pulita?
Non è vero che la produzione di elettricità di origine nucleare è sicura; i casi sempre citati degli incidenti ai reattori di Three Mile Island (“Tutti vivi ad Harrisburg”, come scrisse ironicamente Dario Paccino) e di Chernobyl, dovuto alla nota arretratezza della tecnologia comunista (?), sono solo due episodi di una lunga, e solo in parte conosciuta, serie di incidenti che hanno avuto effetti di inquinamento ambientale e di avvelenamento di lavoratori, incidenti verificatisi lungo l’intero ciclo di funzionamento delle centrali, di separazione e trattamento del combustibile irraggiato, di trasporto e smaltimento dei materiali radioattivi associati a tale ciclo.
Non è vero che la produzione di elettricità nucleare è pulita. Inquinamenti radioattivi si verificano durante l’intero ciclo dal minerale alla sepoltura delle scorie, anche se i dati sono poco noti; gran parte delle contaminazioni umane e ambientali sono destinati a verificarsi – con certezza – in futuro. I più delicati punti di inquinamento sono associati alle attività minerarie, alla fase di trattamento chimico del minerale, alla fase di arricchimento, allo stesso funzionamento del reattore che inevitabilmente è accompagnato da, sia pure in genere abbastanza limitate, emissioni di elementi radioattivi nell’atmosfera e nelle acque. Ma la parte più inquinante del ciclo nucleare si ha nella fase di ritrattamento del combustibile irraggiato e, sotto forma di contaminazioni future e certe, nelle fasi di sistemazione e sepoltura delle scorie radioattive e di quanto resterà dei reattori dopo la fine della loro vita utile. La contaminazione futura si può solo intuire perché mancano proposte affidabili di sistemazione delle scorie radioattive in modo che, per migliaia e diecine di migliaia di anni le materie radioattive non vengano a contatto con le acque e con esseri viventi.
Dovunque passa, il ciclo nucleare genera e lascia materiali radioattivi formatisi, spesso per irraggiamento o di parti di macchinari; lo si vede dalla circolazione di crescenti quantità di merci rese radioattive dall’impiego, nel loro ciclo produttivo, di materie che sono state a contatto con la radioattività delle centrali o dei vari processi. Anche in questo caso si hanno poche notizie sotto forma di scoperta di metalli radioattivi, soprattutto alluminio e acciaio, importati anche in Italia e provenienti da parti del ciclo nucleare, non solo come sottoprodotti di incidenti. Se si considera che esistono in funzione oltre 400 reattori nucleari, alcuni già abbandonati, ma che finiranno la loro vita utile entro alcuni decenni, e che alla fine i milioni di tonnellate di cemento, metalli e residui, tutti radioattivi, dovranno essere sepolti “da qualche parte”, nessuno sa come e dove, si vede che davvero, con la scelta nucleare è stato stretto quel “patto col diavolo” di cui scrisse Alvin Weinberg, nel 1972. In cambio dell’elettricità il moderno Faust chiede alle società umane una lungimiranza, una capacità di controllo, una onestà, una stabilità delle istituzioni e una vigilanza che nessuna società umana sembra capace di garantire.
Finora ho cercato di indicare perché, a mio parere, deve essere fermata la moltiplicazione delle centrali nucleari e delle relative attività “commerciali”. Esiste poi un mondo in cui gli stessi problemi, moltiplicati per molte volte, sono associati al ciclo nucleare relativo alla produzione di esplosivi e di materiali militari, dall’uranio ad alta concentrazione dell’isotopo 235, al plutonio, al trizio, un ciclo che, a maggior ragione si può definire non sicuro e non pulito e che deve essere fermato, come chiede l’articolo VI del trattato di non proliferazione nucleare. Lo smantellamento delle armi nucleari esistenti e del ciclo nucleare militare pone problemi di sicurezza e di contaminazione radioattiva ancora più grandi di quelli del ciclo nucleare “commerciale”, talvolta spacciato per “pacifico” ma che pacifico non è perché i suoi sottoprodotti trovano impiego in attività militari. Un ultimo commento merita l’affermazione, spesso ripetuta dal revisionismo nucleare, che il referendum del 1987 è stato un clamoroso errore dettato dalla frettolosa e sconsiderata pressione del movimento antinucleare. Esaminiamo brevemente perché il “popolo” italiano decise di vietare la costruzione di altre centrali nucleari e di interrompere il finanziamento ENEL al reattore francese Superphenix, quel famoso reattore autofertilizzante che avrebbe dovuto produrre più energia di quella ricavabile dalla carica di uranio, e perché l’esito del referendum del novembre 1987 non fu dovuto soltanto allo spavento seguito alla catastrofe del reattore ucraino di Chernobyl, allora nell’Unione sovietica.
Negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento l’Italia era alla gloriosa avanguardia nel campo dell’energia nucleare; c’erano ambizioni di costruire una bomba atomica nazionale, una nave a propulsione nucleare, ma soprattutto i vari governi, sotto la pressione dell’ENEL, volevano costruire “tante” centrali nucleari. Bisogna riandare al 1973 e alla prima crisi petrolifera, quando il prezzo del petrolio greggio schizzò, in pochi mesi, da 2 a 10 dollari al barile, e fece intravedere un’Italia a piedi e al buio; in quello spavento il governo del tempo non trovò di meglio che proporre il primo “programma energetico nazionale” del 1975, che prevedeva la costruzione di un numero imprecisato, fra 40 e 60, di centrali nucleari da 1000 megawatt ciascuna che sarebbero andate ad aggiungersi alle tre piccole centrali esistenti (in Piemonte, Lazio e Campania) e a quella ad acqua bollente costruita in Lombardia nella golena del Po a Caorso, fra Piacenza e Cremona. Già in quegli anni i dati disponibili mostravano che, dopo un avvio entusiasmante, la produzione di elettricità dalla fissione del nucleo atomico cominciava a mostrare i suoi limiti; sopravviveva bene negli Stati Uniti, nell’Unione sovietica, in Inghilterra e in Francia dove le attività nucleari civili erano funzionali a quelle militari; il plutonio, formatosi dall’uranio durante il funzionamento delle centrali, veniva separato in impianti costosi e soggetti a incidenti e inquinamenti, e aveva un “mercato” come esplosivo per armi atomiche; negli anni Cinquanta, Sessanta, Settanta e Ottanta del Novecento sono state esplose a fini sperimentali centinaia di bombe atomiche nell’atmosfera e nel sottosuolo.
Ma l’Italia voleva ugualmente la sua gloria; molti si chiesero dove avrebbero potuto essere messe le tante centrali del primo programma energetico e che cosa sarebbe stato del combustibile irraggiato. Per farla breve, nel successivo “programma energetico nazionale” del 1977 il numero delle centrali nucleari previste era sceso a quattro, ma ciascuna da 2000 megawatt. Un’altra sul Po in Piemonte, una nel Mantovano, una nel Lazio a Montalto di Castro, una da qualche parte in Puglia.
Chi sa che qualche studente un giorno non faccia una tesi di laurea sugli errori e le menzogne e le compiacenze politiche di quegli anni; il materiale non è facile da ottenere. Una parte imponente si trova a Brescia presso la Fondazione Archivio Luigi Micheletti www.fondazionemicheletti.it, in corso di schedatura.
Apparirà allora che le proposte di insediamento erano fatte su informazioni cervellotiche, senza tenere conto dei vincoli territoriali, sulla base di valutazioni di impatto ambientale approssimative e talvolta errate, e mirate a giustificare le scelte del governo e delle autorità locali attratte dalla gran quantità di soldi che lo Stato offriva a chi accettava una centrale nucleare nel suo territorio.
In questa generale confusione si verificò l’incidente al reattore americano di Three Mile Island (marzo 1979) a cui seguirono i lavori di una commissione sulla sicurezza nucleare, resi pubblici a Venezia nel gennaio 1980; neanche questo rallentò la passione nucleare. Le popolazioni condannate a ospitare le previste centrali nucleari intanto si informavano e perfino modesti contadini impararono a conoscere parole come isotopi, radioattività, plutonio, dose massima ammissibile, eccetera. E capirono perché non dovevano essere costruite le centrali né nel loro territorio, né altrove.
Gli anni Ottanta del secolo scorso sono stati caratterizzati dall’avvio della costruzione delle centrale di Montalto di Castro che avrebbe dovuto produrre 2000 megawatt con due reattori ad acqua sotto pressione, dalle continue difficoltà del reattore di Caorso, dalle notizie sempre più scoraggianti sul funzionamento del “perfettissimo” reattore francee Superphenix nel quale l’ENEL aveva investito, di soldi pubblici, un terzo del capitale iniziale, reattore definitivamente chiuso nel 1997 con la sua carica di sodio metallico e di plutonio. A Rotondella in Basilicata cominciava il ritrattamento delle barre irraggiate importate dal reattore americano di Elk River funzionante col ciclo toriouranio, chiuso dopo appena tre anni, barre che i proprietari avevano provvidenzialmente rifilato all’Italia dove il lavoro di separazione delle varie frazioni altamente radioattive è stato inquinante e del tutto inutile. E le relative scorie sono ancora lì, sul mar Ionico. Quando si verificò la catastrofe al reattore di Chernobyl la protesta era già al culmine e da qui il risultato del referendum del 1987, che contestava gli sconsiderati programmi nucleari italiani che qualcuno sta oggi pensando di resuscitare.