Apolide per scelta
Chi
pensa che la filosofia sia materia solo per specialisti rifletta su come essa
registri, non crei, il pensiero corrente. Se la si toglie dai registri polverosi
in cui sovente l’immobilizza l’istituzione scolastica o lo snobismo degli
intellettuali, la filosofia è in realtà strumento di lettura del proprio
tempo, consente una intelligenza sul mondo, dà la speranza che, conoscendo,
possa darsi l’opportunità dei cambiamenti, delle evoluzioni. Gli autori che
hanno sporcato le loro conoscenze accademiche con un impegno serio nei confronti
della propria contemporaneità hanno lasciato segni sulla storia, segni più
duraturi di quelli che si imprimono sui manuali scolastici. Se c’è da
annotare che la critica filosofica non vive di mode come quella cinematografica,
letteraria o artistica, è pur sempre vero che anche in questo settore gli
autori conoscono fama effimera o oblii immeritati.
Doverosa
memoria
Tenendo
Nata
nel 1906 da una famiglia tedesca di origine ebraica ad Hannover, Hannah Arendt
si dedica ben presto a studi filosofici con alcuni dei grandi maestri del 1900:
Jaspers, Husserl, ma soprattutto Heidegger, a cui fu legata per qualche tempo
anche sentimentalmente e da cui ricevette l’atroce delusione della sua
adesione al Partito Nazionalsocialista. Compagna di studi di Hans Jonas, conobbe
a suo pari le persecuzioni razziali. Dapprima emigrò in Francia nel 1933, poi
negli Stati Uniti, dove dal 1941 insegnò nelle università più importanti, ma
ne acquisì la cittadinanza solo nel 1951: fino ad allora visse da apolide,
condizione che divenne emblematica anche del suo pensiero. La resistenza a
definirsi sulla base di una appartenenza rigida, che escludesse le potenzialità
di una cittadinanza libera da legacci nazionalisti, la portò a essere critica
anche nei confronti del sionismo e a esprimere forti perplessità alla nascita
dello Stato di Israele, nel 1948. Dal 1961 seguì a Gerusalemme, per conto della
rivista “New Yorker”, il processo al tecnico dello sterminio nazista Otto
Adolf Eichmann: dal suo reportage scaturì il bellissimo La banalità del
male. Il suo pensiero, estremamente versatile, si concentrerà soprattutto
sullo studio dei fenomeni totalitaristi del secolo scorso, in particolare
nazismo e stalinismo, e sull’indagine della natura e delle condizioni
dell’agire politico. Una riflessione attenta sarà dedicata alla cosiddetta
“era atomica”, vissuta con grande preoccupazione. Intervenne ripetutamente
sulle questioni di attualità da un punto di vista rigorosamente libertario (ma
mai liberista) e in difesa dei diritti umani, fu critica verso il marxismo e le
tendenze totalitariste negli USA durante il maccartismo e la guerra del Vietnam.
Dalle tematiche trattate si evince il livello di polemica che i suoi scritti
suscitarono e che ne hanno condizionato il favore del mondo accademico e la
notorietà presso il grande pubblico. Ma quando, giunte al tramonto le grandi
ideologie del secolo scorso, sarà necessario tornare a un pensiero libero dai
loro influssi, l’opera della Arendt conoscerà un nuovo successo, anche per
questa sua caratteristica (acquisita dal percorso di vita) di voler riflettere
sulla realtà umana rifiutando i presupposti dati, le rigidità acquisite nel
legarsi a identità mai più ridiscusse. La coincidenza tra biografia e fase
storica di appartenenza ha riservato ad Hannah Arendt la possibilità di leggere
e analizzare le grandi vicende del secolo scorso: cosa che ella ha fatto con
grande sensibilità, con la peculiarità specifica dell’essere donna e il
grande coraggio di porsi oltre le appartenenze e le accademie.Per essere – e
continuare a essere, con coerenza – un’apolide del pensiero, libera e
leggera come solo coloro che non hanno casa riescono a essere. È
morta a New York nel 1975, lasciando incompiuto (uscirà postumo) il suo ultimo La
vita della mente.
Ma
se l’affermarsi di sistemi totalitaristi ha seminato la storia di lutti immani
(nazismo prima, stalinismo poi: l’analisi congiunta di queste due realtà
storiche costò all’autrice molte diffidenze a sinistra), il problema è
comprendere quale sia la mentalità, la motivazione, l’identità
dell’aguzzino. Se in un primo momento la figura di quest’ultimo assume
nell’opera di Hannah Arendt tratti quasi luciferini, l’esperienza fatta a
Gerusalemme per seguire il processo a uno dei responsabili teorici della Shoa,
Otto Adolf Eichmann, la condurrà a porre la questione della drammatica
mediocrità del solerte funzionario nazista. I mostri non appaiono come tali, se
li si estranea dai crimini commessi; sono molto abili a giustificarsi
nascondendosi dietro il ruolo subalterno giocato: l’aver obbedito a degli
ordini è la modalità con cui, dal processo di Norimberga in poi, i boia si
sono difesi, cercando di annullare le loro responsabilità. La violenza più
allucinante ha esecutori del tutto irriconoscibili nell’apparenza: le loro
sono esistenze normali, banali, in cui solo le circostanze sono state occasioni
per atti orribili. La notizia che il comandante del campo di sterminio di
Auschwitz avesse la sua abitazione personale nel perimetro del campo stesso, vi
abitasse con la sua famiglia e che il suo ultimo figlio sia stato concepito e
sia nato lì, mi ha profondamente sconvolto.
La
banalità del male
La
banalità del male (è
il titolo del libro che la Arendt trasse dai suoi reportage giornalistici sul
processo, 1963) è l’aspetto più inquietante della violenza di massa che
caratterizza il secolo scorso: se a questa facilità con cui si può diventare,
a propria volta, dei mostri, si aggiunge il potenziale distruttivo che
l’umanità acquisisce con gli arsenali atomici, si delineano i motivi della
profonda crisi antropologica che scaturisce dalla seconda guerra mondiale, e che
continua a tutt’oggi. Anche le vittime hanno le loro responsabilità: è uno
dei passaggi più discussi de La banalità del male, allorquando la sua
autrice – senza confondere le ragioni degli inermi e dei loro carnefici o
sminuire il giudizio etico che consegue alle vicende – ricorda il ruolo avuto
dalle autorità giudaiche che, nell’illusione di salvare alcuni dei propri,
resero sovente più facile il compito degli aguzzini. Insieme alla critica a
molti aspetti del sionismo e alla creazione dello Stato di Israele, questa
notazione costò alla filosofa la diffidenza di buona parte della sua stessa
gente. La contemporaneità – afferma tra le righe Arendt – ci introduce in
un contesto di terribile complessità: ma gli strumenti umani per venirne a capo
esistono, il principale è la politica. La riflessione della nostra autrice si
dispiega (soprattutto in Vita activa, il cui titolo originale è The
human condition, 1958) per definire l’enorme e insostituibile compito
della politica nel garantire un futuro: la fiducia nelle potenzialità umane non
viene rinnegata, ma occorre riportare la politica sui binari della fedeltà al
valore dell’umano in quanto tale, senza che esso venga messo in discussione
dai vincoli di appartenenza etnica o nazionalista. Nella società contemporanea
la politica va riscattata dal mero esplicarsi elettorale, dalla difesa degli
interessi di parte, dall’inavvertenza di fronte ai problemi realmente urgenti
di un mondo che rischia di non essere tale, se non è solidale: non è un caso
se Hannah Arendt è una delle prime a denunciare l’emergere di una crisi
ecologica, “l’espropriazione del mondo” a cui consegue la morte della
politica, la drammatica solitudine dell’umano contemporaneo, la minaccia reale
al cosmo naturale.
Il futuro alle spalle, Il Mulino, Bologna 1981
Le origini del totalitarismo, Bompiani, Milano 1982
Sulla rivoluzione, Edizioni di Comunità, Milano 1983
La disobbedienza civile ed altri saggi, Giuffrè, Milano 1985
Politica e menzogna, SugarCo, Milano 1985
La vita della mente, Il Mulino, Bologna 1987
Carteggio (con Jaspers) 1926-1969. Filosofia e politica, Feltrinelli, Milano 1988
Tra passato e futuro, Garzanti, Milano 1991
La lingua materna, Mimesis, Milano 1993
Il pescatore di perle.Walter Benjamin 1892-1940, Mondadori, Milano 1993
Ebraismo e modernità, Feltrinelli, Milano 1993
Vita activa, Bompiani, Milano 1994
Sulla violenza, Guanda, Milano 1996
Liberarsi
dei mostri?
Hannah Arendt espone il suo rovello riguardo alla sorte di Eichmann: la sua impiccagione è un forte segnale etico, capace di essere lezione significativa; oppure sarebbe molto più efficace lasciarlo morire di vecchiaia in carcere, monito continuo alla facilità con cui si diventa preda del male, esempio vivente di come la mediocrità, il conformismo, l’incapacità di costruirsi come soggetti autonomi nel coraggio della propria identità siano un attentato costante non solo alla propria libertà, ma anche a quella degli altri. Se non altro perché consentono l’avvento dei tiranni e dei dittatori come pure l’instaurarsi di regimi (siano essi politici, economici, teocratici o tecnocratici) capaci di annientare, con l’autonomia degli individui, la loro potenzialità politica. Quasi a malincuore concorda con la decisione del tribunale di Gerusalemme che decreta l’impiccagione: il crimine è troppo grande perché possa non essere punito nel modo più drastico. Ma a noi resta la difficile realtà di un mondo in cui sembra impossibile liberarsi dai mostri, perché quando li si uccide si rischia di diventare come loro, avendone assunta la logica di morte. Forse un punto di equilibrio tra giustizia (e sacralità delle ragioni delle vittime) e misericordia sta nelle diverse vicende di due personaggi con cui Hannah Arendt visse e filosofò: Martin Heidegger e Hans Jonas. Il primo, ateo, conclude il suo geniale percorso di pensiero con una frase che fece gioire molti credenti: “Ormai soltanto un Dio ci può salvare”. Il secondo, credente, lascia un segno indelebile con Il principio responsabilità, attraverso la riflessione che l’umano, dopo l’abisso di violenza delle guerre del Novecento, non può nascondersi dietro a nessun Dio o a nessun principio superiore per negare la propria responsabilità di fronte alla storia, al mondo, agli altri esseri umani: e a nessuno, tantomeno a Dio, può delegare tale responsabilità. Il primo aderì al nazismo, fu complice delle sue nefandezze: il secondo, anch’egli esule (come Hannah) per sfuggire alle persecuzioni razziali, si rifugiò in Inghilterra e da lì, arruolato nella Jewish Brigade dell’esercito alleato, combatté la barbarie nazifascista. In una responsabilità assoluta verso il mondo e – soprattutto – l’umano sta il senso dell’esistenza e quindi, in ultima analisi, anche della fede.Tale responsabilità è presa anche nei confronti di un male che si sa anche proprio, nel potere di suggestione e nella sua banalità; ma giustappunto il sapersene coinvolti consente di combatterlo meglio, ricorda che con i suoi strumenti non si può venire a patti, non se ne può comunque assumere le logiche, sia pure per affrontarlo. Il male si vince solo se si è capaci di essere, comunque e di continuo, critici verso se stessi, senza nessuna riserva, senza giustificarsi nelle esigenze di appartenenza o di convenienza. Hannah Arendt, apolide non solo per tragiche circostanze ma anche per libera scelta nella ricerca di verità, sarebbe di certo d’accordo con tale riflessione.