OTTOBRE 2003

Banche armate

A cura di Tonio Dell'Olio e Renato Sacco

“Certo, l’idea è anche giusta… Ma quando dobbiamo chiedere alle Banche qualche contributo per le nostre strutture, per i restauri o per il seminario, come facciamo? Dovremmo mettere in conto di non avere più sovvenzioni dalle banche… ma quei soldi ci servono”. È la risposta dell’economo (che chiede di restare anonimo) di una diocesi italiana alla proposta di chiedere conto ufficialmente alla banca coinvolta nel commercio d’armi, banca presso la quale sono depositati molti soldi della diocesi.
“Con i soldi aiutiamo anche chi ha più bisogno, varie strutture pastorali e caritative. Se la banca ci aiuta, con un interesse più alto o con qualche donazione, non possiamo che ringraziare. Se rompiamo i rapporti non avremo più quel denaro che ci serve anche per tante opere di bene!”. È il commento che giunge dall’economato di un’altra diocesi. Insomma, in linea di principio si possono pensare o dire alcune cose, però quando si tratta di fare, di scegliere, soprattutto se si tocca il portafoglio, arrivano molti se e molti ma.
Il dossier che presentiamo vuole andare a toccare un nervo scoperto, a volte anche doloroso: il denaro, il nostro rapporto personale, delle comunità, delle diocesi, degli istituti religiosi con quello che, nei nostri ambienti, spesso viene francescanamente definito lo sterco del diavolo.
Vuole riproporre il collegamento denaro e armi e il ruolo delle banche armate, facendo il punto su una campagna lanciata dalle riviste “Nigrizia”, “Missione Oggi” e “Mosaico di pace”, nel dicembre 1999, alla vigilia dell’anno giubilare 2000. Tale sterco che si maneggia spesso con disinvoltura, chiudendo occhi e naso o senza tanti perché, nella convinzione che “Pecunia non olet” (il denaro non ha odore). Con il rischio di accorgersi che i soldi raccolti, ad esempio per la giornata missionaria, siano depositati sul conto di una banca coinvolta nella vendita di armi leggere che andranno in mano a qualche bambino di qualche Paese del Sud del mondo… magari dove lavorano gli stessi missionari a cui invieremo il denaro raccolto!
Se per combattere il terrorismo si interviene anche sui conti e sui legami finanziari, perché non accendere i riflettori con più decisione sul commercio delle armi che la Santa Sede del 1976 ha definito “Aggressione che si fa crimine: gli armamenti, anche se non messi in opera, con il loro alto costo uccidono i poveri, facendoli morire di fame”? Si tratta di porsi come urgenza etica, anche nei nostri rapporti con le banche, la domanda “che senso ha?”, come scrive il teologo Giannino Piana, e non solo chiedersi “a cosa serve?”.
Cosa potrebbe succedere se le parrocchie, le diocesi, gli istituti religiosi, i movimenti, le associazioni, oltre alle singole persone, cominciassero a scrivere alle proprie banche, a chiedere conto del loro coinvolgimento nell’export d’armi, magari pensando anche di trasferire il proprio denaro, chiudendo il conto?
Non riusciamo a immaginarlo, ma, ne siamo certi, provocherebbe un grosso scossone nel mondo bancario e aprirebbe una forte riflessione etica, politica economica, forse più efficace di tanti documenti, riflessioni e dichiarazioni di principio che se non vanno a toccare il portafoglio rischiano di essere lettera morta.
E poi, nel Vangelo non c’è scritto che non si può servire a Dio e a Mammona? E qui Mammona è a mano armata.

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