ULTIMA TESSERA

La ribellione di Lorenzo

Don Milani tra il passato e il futuro, tra i diritti e la cultura: cosa ne rimane oggi?
Quali speranze per una politica partecipata così come auspicata dal priore di Barbiana?
Paolo Ferrero (Ministro della Solidarietà Sociale)

Don Lorenzo Milani, oltre a essere una grande figura di intellettuale, è sicuramente un bravo scrittore. Il coraggioso prete di cui è trascorso qualche giorno fa il quarantennale della morte, è famoso soprattutto per Lettere a una professoressa. La lettera, quindi. Strumento diretto, di facile comprensibilità, adatto a un’epoca e a una cultura di trasformazioni veloci, come fu quella in cui don Milani visse e operò, gli anni Sessanta. Lettere per trasmettere idee. Lettere per confortare, dare coraggio, esprimere sentimenti e comunicarli.
Ma soprattutto lettere come strumento di critica, di confronto aperto, serrato, leale. Critica al sistema scolastico, critica all’obbedienza e alla gerarchia militari, critica alla disuguaglianza di classe. Don Milani non accetta che la scuola serva solo a formare la futura classe dirigente, così come rifiuta l’idea di una società che premi il criterio selettivo, o che esalti la vocazione alla guerra.
A don Milani più che l’originalità di quello che scrive sta a cuore il destino di quelli che lo leggeranno. Talmente gli sta a cuore che spesso l’atto dello scrivere è percorso comune, da fare assieme. Molte lettere, molti articoli l’autore li compila assieme ai suoi ragazzi, i suoi allievi. Che scrivere gli piaccia, è cosa che si sa. Ne parla spesso. E forse il suo destino era di diventare uno scrittore. Appartiene infatti a un’agiata famiglia di intellettuali fiorentini.
È capace, lo sa fare. Ma scrivere può essere tante cose. Si può scrivere per intrattenere, per sopravvivere, o come ha fatto lui, per cambiare la vita propria e di chi non ha risorse. Scrivere come strumento di liberazione e, quindi, di ribellione. Che, come tutte le ribellioni non può mai essere gesto individuale, spontaneistico, lasciato al caso. Ciò che si scrive va discusso. Ciò che si scrive deve essere sempre, e prima di tutto oggetto di una critica partecipata. Ciò che si scrive è spesso frutto di lavoro di gruppo.
E ancora, per scrivere, bisogna tenersi all’indispensabile. “Io scrivo solo l’indispensabile, ho sempre scritto solo le cose essenziali. Perché mi vergogno a scrivere quando so che, poi, mi leggerebbero tutti i borghesi: come i miei parenti. E mi leggerebbero tutt’al più per far quattro chiacchiere da salotto!”.
In questa breve frase sta la sua mentalità, tutta intera. Don Milani ama scrivere, ma si vergogna di farlo. E la stessa vergogna che prova all’idea che si passi il tempo in chiacchiere, è quella che lo spinge a compilare Lettere a una professoressa, e L’obbedienza non è più una virtù.
Vergognarsi del proprio tempo per lavorare a cambiarlo. In questo sta il senso e il succo del lavoro di questo intellettuale generoso e originale. Vale però la pena chiedersi, dopo tanti dalla pubblicazione del suo lavoro, che cosa ne resta sul piano più propriamente politico?
Se per don Milani la cultura è costruire il sapere con e per chi non sa, e la politica è il contrario dell’egoismo, come stiamo messi oggi? Che valore ha oggi quello che lui dice?
Credo che mentre sottolineiamo il valore letterario e sociale delle lettere del suo lavoro, dobbiamo ammettere la sua, e la nostra sconfitta sul piano politico e culturale. Perché? Perché la sua idea che il sapere sia la costruzione di un percorso che va condiviso con chi non sa, o che il lavoro politico sia la costruzione con gli altri di un progetto, di un’elaborazione teorica, trovano poco posto nel nostro tempo. La cultura dominante oggi, pretende che il sapere, almeno quello scolastico, premi la selezione, e chiede gerarchie, premi. Chi studia deve essere obbediente.
Non diversa è la condizione per quel che riguarda la politica, che oggi è un sistema in larga parte autoreferenziale che ha poco a che vedere con la vita degli uomini e delle donne che abitano il nostro Paese. La politica che per don Milani era lo strumento attraverso il quale risolvere collettivamente i problemi, oggi non ha questo significato per milioni e milioni di persone, a partire dai più deboli. Non a caso la guerra tra i poveri, nelle mille facce con cui sempre si presenta, appare in più di una situazione come l’esito drammatico di questa deprivazione. L’uguaglianza, l’altro grande principio fondativo per don Milani delle relazioni umane, viene vista oggi più come un freno per lo sviluppo produttivo che come un possibile principio etico.
Quello che è restato sono purtroppo, come le chiamava Don Milani, le chiacchiere da salotto. In questa situazione, in cui pure germogliano mille forme di partecipazione dal basso, occorre quindi affermare che la lezione di don Milani, più che da commemorare, è “semplicemente” da riprendere.
Riscrivere “lettere a una professoressa” è l’esercizio che dobbiamo fare per ricostruire una idea e una pratica della politica che abbia il significato dell’emancipazione collettiva.
Occorre riscoprire i percorsi attraverso cui le mille forme di partecipazione dal basso possono assumere una dimensione politica, cioè una dimensione di trasformazione sociale.
Questo mi pare il miglior modo per ricordare don Milani.

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