Era il luglio 2001
La “macelleria messicana” evocata dal vice questore Michelangelo Fournier al processo per i fatti della Diaz, aveva uno scopo ben preciso: colpire e additare come violento ed eversivo il movimento sceso nelle strade di Genova per contestare i cosiddetti grandi”. Era il luglio 2001 e la contestazione al neoliberismo era in pieno fermento: c’erano state le proteste al vertice Wto di Seattle nel 1999 e la prima edizione del Forum sociale mondiale di Porto Alegre (gennaio 2001).
Era un movimento del tutto nuovo e sorprendente, che non si rifaceva alle icone e alle ideologie del Novecento, ma proponeva argomenti nuovi: la sovranità alimentare e la riforma democratica degli organismi sovranazionali (Wto, Banca mondiale Fondo monetario, ONU), la proposta di un’economia di giustizia e la denuncia del “pensiero unico” mercantilista. Era un movimento che portava in piazza migliaia di giovani e tante persone poco abituate alla protesta di strada: era trasversale e coinvolgente, attraversava le generazioni e le appartenenze culturali.
Era un movimento che spaventava i potenti. Perciò fu colpito con la violenza. Già a Seattle la polizia statunitense, di fronte ai sit-in organizzati per impedire le riunioni dei delegati, proclamò il coprifuoco; a Goteborg, pochi mesi prima del G8 genovese, le contestazioni a un vertice europeo furono affrontate con un vasto schieramento di polizia: un giovane, colpito da un proiettile, restò per giorni fra la vita e la morte.
A Genova, com’è ormai chiaro, ci fu la scelta politica di usare la mano pesante. Gli elementi che giustificano quest’affermazione sono numerosissimi. Basta scorrere decine di testimonianze e gettare lo sguardo sull’enorme quantità di fotografie e filmati girati il 20 e 21 luglio 2001. Ma c’è anche, da qualche tempo, una sorta di “certificazione giudiziaria”. Il tribunale civile di Genova, nel maggio scorso, ha condannato il ministero dell’Interno a risarcire Marina Spaccini, medico pediatra e attivista della rete Lilliput, che fu colpita a manganellate, insieme con altri, da un gruppo di agenti della polizia di stato. Il giudice, nella sentenza, ha scritto che non vi fu alcuna provocazione e che non si trattò dell’eccesso di uno o più agenti, ma di un’azione deliberata.
Anche la deposizione di Michelangelo Fournier, con la rottura della strategia dell’omertà seguita dalla polizia di stato, non ha fatto che confermare cose già note: alla Diaz, più che una perquisizione, fu organizzata una spedizione punitiva. Del resto, poco tempo prima di Fournier, aveva deposto al processo il vice capo della polizia dell’epoca, Ansoino Andreassi, il quale ha rivelato che il blitz alla Diaz fu deciso perché era arrivato da Roma l’ordine di fare un po’ di arresti, per salvare l’immagine della polizia, parsa incapace di gestire l’ordine.
La scelta della Diaz – e questo è il punto chiave dell’intera vicenda – non fu affatto casuale. La scuola era in quei giorni il quartier generale del Genoa Social Forum, la rete internazionale che aveva organizzato le proteste. Fu scelta per poter dire –come in effetti fu fatto – che quelli del black bloc, co-protagonisti dei disordini, erano tutt’uno col movimento, tanto da nascondersi nella loro sede, e non degli sconosciuti che danneggiavano le ragioni dei trecentomila partecipanti alle manifestazioni, come affermavano i portavoce del GSF. Era tutta una montatura. Ma è stato un gioco sporco che ha ottenuto un grande risultato: ha fiaccato l’energia del movimento.
L’opinione pubblica è rimasta spiazzata: i media hanno coniato l’espressione “no global” e l’hanno associata a fenomeni di teppismo; i temi della protesta sono stati offuscati; il movimento è stato spinto ai margini della vita pubblica.
Al centro della scena sono rimaste le macerie di Genova e cioè un rapporto malato fra democrazia e forze dell’ordine, fra diritti civili e sicurezza. I vertici delle forze di polizia, e i governi che si sono succeduti, hanno tutti evitato accuratamente di denunciare e rinnegare la “gestione” dell’ordine pubblico durante il G8.
Le stesse indagini della magistratura sono state ostacolate, si è impedita la costituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta, il capo della polizia è rimasto al suo posto e i dirigenti (di rango nazionale) imputati per il blitz alla Diaz sono stati addirittura promossi. In sostanza c’è stata una legittimazione politica della sospensione dello stato di diritto consumata a Genova.
A sei anni di distanza siamo alle prese, inevitabilmente, con forze di polizie prive di credibilità democratica e con una Costituzione che ha subìto colpi quasi letali, perché una Costituzione che non vive nei comportamenti di chi ricopre incarichi istituzionali e che non rappresenta il faro della vita pubblica, è una Costituzione morta.