Congresso mondiale sulle orme di Gandhi

19 luglio 2007 - Antonino Drago

A Londra, lo studente Gandhi ha avuto modo di fare un paragone tra la civiltà indiana dalla quale proveniva e la civiltà occidentale (britannica). Prima aveva ceduto ai miraggi della nuova civiltà, poi conobbe un minoritario capì che cercava una alternativa a questa civiltà, che era proprio del tipo che la sua civiltà indiana aveva già anticipato. Allora capì che c’era da fare una grande rivoluzione.
Lo spunto per come fare gli fu dato dall’antico insegnamento indù dell’ahimsa, la nonviolenza. Da questa, per una serie di avvenimenti quasi casuali, si sviluppò una prima rivoluzione di otto anni in Sud Africa, poi per trenta anni in India. Sotto la sua guida. un popolo coloniale, l’indiano, per primo riuscì a conquistare la indipendenza politica dal più grande impero della storia, esteso su quasi metà della Terra.

La sua rivoluzione nazionale era così piena di significati nuovi che promosse ulteriori rivoluzioni o ebbe effetti a lungo termine.
Per prima la riforma di religione, come la chiamava il primo nonviolento europeo, Aldo Capitini (1899-1968); che ha tentato di riformare ogni religione in una sua concezione religiosa-politica (Per una rivoluzione nonviolenta, Bibl. F. Segantini, Pisa, 2003).
Per il cristianesimo questa riforma era stata iniziata, ancor prima di Gandhi, da Tolstoy a livello di religiosità personale (Il regno di Dio è in voi (1892), M. Valerio, Torino, 2001); poi è stata compiuta dall’unico discepolo cattolico di Gandhi, Lanza del Vasto (1901-1981), soprattutto mediante la interpretazione di due testi sacri, Genesi 3 and Apocalisse 13 della tradizione ebrea-cristiana, i quali danno una risposta su che cosa sono i tempi moderni, che hanno sconvolto tutte le culture e le civiltà del mondo, omogeneizzando i popoli secondo un nuovo modello antropologico (I quattro Flagelli, SEI, 1996, cap. I). In realtà questi testi sono in comune con tutte le grandi religioni, perché esse devono considerare: 1) non solo il peccato personale, ma anche quello strutturale, commesso dalle collettività o da loro istituzioni; 2) la vita spirituale oppressa da forze sociali costruite dagli uomini stessi.
La conversione – sia a livello personale che a livello sociale dalle situazioni dette sopra – è chiamata da Lanza del Vasto nonviolenza; la quale così riceve una fondazione teologica. In più essa costituisce l’inizio di un fondo comune di tutte le religioni, col quale esse possono trovare ponti di dialogo e collaborazione sincera. Questo fondo comune è costituito da aspetti etici piuttosto che da dichiarazioni di fede (dogmi): così come Gandhi chiedeva a ogni religione.
In particolare questo concetto di fondo comune indirizza le religioni a convertirsi dalla soggezione dalle guerre che lanciano gli Stati. In effetti, da due decenni le grandi religioni hanno iniziato a collaborare secondo uno spirito interreligioso, col fine concreto di combattere le ingiustizie del mondo, dove 850 milioni di persone soffrono la fame, mentre i grandi Stati spendono 1100 miliardi di dollari per armi. Oggi alla maggior parte delle religioni una guerra giusta non appare più la guerra tra religioni, ma solo la guerra spirituale per la giustizia e per la pace nel mondo. Anche la Chiesa Cattolica, la più pesante, tradizionalista e giuridica, con il Concilio Vaticano II si è aperta a questa nuova avventura nella storia umana e ha preso iniziative clamorose, ad esempio contro le guerre in Iraq.
Lanza del Vasto dà la responsabilità principale della odierna oppressione nel mondo alla tradizione occidentale di esaltare la Scienza e la Tecnologia. In effetti la stessa parola “non violenza” richiede una rivoluzione scientifica, perché essa porta a ragionare in modo differente da quello della scienza occidentale dominante. Infatti “non violenza” è una doppia negazione (perché anche “violenza” è una parola negativa); inoltre essa non può essere uguagliata ad una parola positiva corrispondente (benevolenza, amore, attaccamento alla verità, ecc.); in questo caso non è vero che “Due negazioni affermano”, come dice la gente. Gli studi di logica matematica del secolo scorso hanno chiarito che è la legge della doppia negazione che fa da confine tra la logica classica e quelle non classiche. Perciò la parola nonviolenza porta a ragionare in una logica non classica, cioè in un mondo differente dal modo della scienza occidentale dominante, che è basata sul metodo deduttivo, regolato dalla logica classica. Si può far vedere che questa idea porta a una completa rifondazione della scienza dominante, il risultato più grandioso e più astratto delle menti più avanzate di questa civiltà (Le due opzioni, La Meridiana, 1991).
Di conseguenza, il progresso occidentale, che nel passato Tolstoy e Gandhi criticarono per ragioni etiche (Gandhi: Civiltà occidentale e rinascita dell’India, Ed. Mov. Nonviolento, Perugia, 1984), non è un vero progresso anche per ragioni scientifiche! Allora la rivoluzione politica della nonviolenza ha portato ad una alternativa allo sviluppo occidentale, che può essere stabilita e che deve essere seguita.
Questa idea di uno sviluppo alternativo taglia trasversalmente l’asse politico occidentale, costruito da due secoli sulle due polarità della libertà (destra) e giustizia (sinistra); ovvero, secondo due opposti tipi di organizzazione sociale, verticale o autogestita. La nonviolenza ha aggiunto un altro asse indipendente, con le polarità dello sviluppo duro (progresso) e sviluppo dolce; le quali sono apparse chiare col problema energetico: o il nucleare o il solare; e anche nel 1989: o la difesa gerarchica delle bombe nucleari o la difesa nonviolenta dei popoli che hanno liberato l’umanità dalla divisione di Yalta.
Incrociando i due assi si ottengono quattro quadranti, ognuno dei quali rappresenta un modello di sviluppo, secondo i concetti di Lanza del Vasto e di Galtung (Ci sono alternative!, EGA, 1986). Per la prima volta è nata una teoria politica pluralista, che propone una lotta politica non per sconfiggere o sopprimere l’avversario, e così ridurre ogni conflitto alla vittoria di un modello “superiore” che elimina gli altri; ma una lotta democratica che, almeno col modello di sviluppo nonviolento, non vince ma convince le persone degli altri modelli di sviluppo; il modello nonviolento oggi vuole sopprimere solamente la guerra moderna, che attraverso gli ordigni di distruzione di massa ha raggiunto livelli di distruzione assurdi.
Attraverso le tre rivoluzioni di sopra la nonviolenza ha raggiunto l’obiettivo della sua lunga marcia attraverso gli eventi terribili del XX secolo: offrire una nuova teoria politica ben sviluppata, in alternativa alle teorie politiche distruttive seguite da alcune Nazioni senza alcuno scrupolo per le orribili devastazioni che hanno compiuto.
Quanto di tutto ciò è compreso nel mondo? Molto poco, avendo l’India abbandonato la politica di Gandhi, per seguire quella dominante. Nei giorni 26-27 gennaio il Partito del Congresso ha organizzato un convegno a cui ha invitato premi Nobel e capi politici (compreso il nostro Rutelli); ma per farsi propaganda, tanto che non ha invitato le opposizioni indiane. All’estero, la nonviolenza, non avendo uno Stato rappresentativo, appare semplice buona volontà.
Ma fortunatamente si alzano molte voci nel mondo per chiedere che l’esempio e il pensiero di Gandhi siano presi a guida della storia dell’umanità. Sono uomini di razze, tradizioni, cultura e religioni diverse, che però hanno una speranza incarnata da questo Eroe, Santo e Saggio che è stato Gandhi: una persona che tutte le tradizioni possono riconoscere come propria guida perché il suo operato era profondamente radicato nell’umanità.
Perciò nel 60° della morte, occorre organizzare un congresso sul Pensiero e sull’Economia gandhiana, cioè sui temi: 1) La sovranità alimentare dei popoli, il controllo popolare dei semi, la lotta contro gli OGM e la brevettabilità della vita, i diritti all’acqua potabile, all’aria pura e al suolo non inquinato. 2) L’intervento civile di pace nelle guerre e contro il terrorismo. La gestione nonviolenta dei conflitti interpersonali, sociali e internazionali. 3) L’importanza di associare all’azione individuale l’azione collettiva e viceversa. Il ruolo della società civile. 4) L’educazione alla pace e alla nonviolenza, alla fiducia in sé, all’autonomia, alla responsabilità, alla resistenza e alla disobbedienza civile, se necessario. 5) Il rispetto dei diritti fondamentali: la libertà di coscienza e di pratica religiosa nel rispetto degli altri, la libertà di espressione; la protezione dei più deboli (bambini, donne, handicappati, ecc.); la liberazione della condizione femminile; la democrazia partecipativa. 6) La valorizzazione della semplicità di vita.

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