Marcia Perugia-Assisi - Settimana della pace 1-7 OTTOBRE 2007 Tutti i diritti umani per tutti

L’Agenda politica dei diritti umani

un contributo alla riflessione
12 giugno 2007

La 7° Assemblea dell’ONU dei Popoli cade quest’anno nell’Anno Europeo delle Pari Opportunità per Tutti, nel 50° dei Trattati di Roma, alla vigilia del 60° anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, del 60° anniversario della Costituzione della Repubblica Italiana, dell’Anno Europeo per il Dialogo Interculturale, dell’Anno Internazionale del Pianeta Terra. Il significato di queste coincidenze è che la bussola dei diritti umani deve realmente guidare l’azione politica dalla Città all’ONU.

1. I diritti umani interpellano l’Agenda della politica se è vero, com’è, che essi sono il nome dei bisogni vitali di cui è portatrice ogni persona “senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione” (Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, 10 dicembre 1948) e che pertanto il loro soddisfacimento deve essere realizzato, prima e più che con sentenze dei tribunali, peraltro necessarie e irrinunciabili in presenza di violazioni, soprattutto con adeguate azioni positive e politiche sociali in sede nazionale e internazionale.
La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani proclama che “tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza” (art.1). Il soggetto dei diritti umani non è la persona individualista, ma quella che nasce e si sviluppa nella comunità. La realizzazione dei diritti umani interpella l’impegno di ciascuno nel perseguire obiettivi di bene comune nella città e nello spazio dilatato di un mondo sempre più interdipendente.
La via sicura per il rispetto dei diritti fondamentali è quella di prevenire le violazioni, l’ottica è pertanto quella della promozione più che della sanzione. Il paradigma dei diritti umani, come sottolinea la Dichiarazione Universale, si propone quale “ideale comune da raggiungersi da tutti i popoli e da tutte le nazioni, al fine che ogni individuo e ogni organo della società, avendo costantemente presente questa Dichiarazione, si sforzi di promuovere, con l’insegnamento e l’educazione, il rispetto di questi diritti e di queste libertà”.
Il riconoscimento giuridico internazionale dei diritti umani, iniziato con la Carta delle Nazioni Unite e la Dichiarazione Universale, è la più grande conquista cui l’umanità è pervenuta nel secolo XX durante il quale sono avvenute le più sanguinose guerre della storia, genocidi, olocausto, gulag, pulizia etnica, l’impiego della bomba atomica e l’attacco all’ambiente naturale.
Il Diritto internazionale dei diritti umani che si è venuto sviluppando negli ultimi 60 anni ha innescato una rivoluzione umanocentrica all’interno dell’ordinamento giuridico internazionale, ponendo a suo fondamento il principio del rispetto della “dignità di tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti eguali ed inalienabili” e rendendo a questo strumentale l’esercizio della sovranità degli Stati.
A questa conquista si è giunti dopo secoli di rivendicazioni, di violazioni, di testimonianze pagate anche col sacrificio della vita, lungo un percorso che ha visto camminare insieme gli operatori della civiltà del diritto e quelli della civiltà del lavoro.
Alla vigilia del 60° anniversario della Dichiarazione Universale occorre ribadire con forza che questa conquista è irrinunciabile e che va pertanto difesa e sviluppata nello scrupoloso rispetto dei principi di universalità, di interdipendenza e indivisibilità di tutti i diritti umani – civili, politici, economici, sociali e culturali, diritto alla pace, diritto allo sviluppo umano, diritto all’ambiente -, nonché del principio secondo cui i diritti umani delle donne e delle bambine sono parte indissociabile dei diritti umani internazionalmente riconosciuti.
I diritti umani sono ciò che essi comportano sul terreno della loro pratica attuazione.
Sui diritti umani non si fanno, non si possono fare sconti.
Il Codice internazionale dei diritti umani non soltanto richiama gli stati e le pubbliche istituzioni al dovere di rispettarlo, ma legittima tutti a farsi soggetti attivi per l’effettività dei suoi principi e delle sue norme.
La Dichiarazione delle Nazioni Unite “sul diritto e la responsabilità degli individui, dei gruppi e degli organi della società di promuovere e proteggere le libertà fondamentali e i diritti umani universalmente riconosciuti” (8 marzo 1999) stabilisce infatti che “tutti hanno il diritto, individualmente ed in associazione con altri, di promuovere e lottare per la protezione e la realizzazione dei diritti umani e delle libertà fondamentali a livello nazionale ed internazionale” (art.1). Si fa qui appello alla responsabilità sociale di tutti, in particolare di singoli, di associazioni e di movimenti che operano attivamente per la promozione umana all’interno delle comunità sociali e politiche ai vari livelli, da quello locale a quello mondiale. Per i soggetti di società civile è la legittimazione a esercitare una responsabilità altissima, che supera la portata formale del freddo dovere giuridico e lo traduce in concrete azioni di solidarietà e di protagonismo democratico.

2. Con questa consapevolezza la Tavola della Pace agisce, fin dalla sua nascita, per la promozione e la protezione dei diritti umani quale impegno centrale della costruzione di un “ordine sociale e internazionale nel quale i diritti e le libertà enunciati in questa Dichiarazione possano essere pienamente realizzati” secondo quanto dispone l’art. 28 della Dichiarazione Universale, dunque per un ordine pacifico, più giusto, equo, solidale e democratico.
La Tavola marca il suo pacifismo politico nel segno della legalità e della progettualità.
Componente essenziale di questa identità attiva è l’impegno per l’estensione e il potenziamento della pratica della democrazia, in tutti i suoi contenuti (politici, economici e sociali), in tutte le sue articolazioni, a cominciare da quella partecipativa, a tutti i livelli (locale, nazionale e internazionale) e del dialogo e della cooperazione tra popoli e tra culture lungo il percorso che, senza soluzione di continuità dalla città deve arrivare fino alle Nazioni Unite e alle altre sedi istituzionali multilaterali. L’esercizio sempre più attivo e puntuale di questa identità è indispensabile per rompere i muri dei fondamentalismi, delle incomprensioni e delle discriminazioni e per squarciare la fitta coltre di opacità e di autoreferenzialismo che avvolge i vertici governativi e i potentati multinazionali economici, finanziari, tecnologici, dell’informazione.
Con la legittimazione che ci deriva dal Diritto internazionale dei diritti umani affermiamo con determinazione che non ci può essere pace se non si costruiscono le condizioni in cui le persone e i popoli possano realizzare i rispettivi percorsi di vita, condizioni cioè tali che consentano la piena realizzazione della personalità in tutte le sue potenzialità, materiali e spirituali, e nella pienezza della sua dimensione sociale.
Vita umana, diritti umani e pace costituiscono un nesso inscindibile ai sensi del vigente Diritto internazionale, tale da non ammettere eccezione alcuna. Pena di morte e guerra sono espressione di barbarie, nei loro riguardi esiste un divieto che è venuto assumendo il carattere, fortemente precettivo, dello ius cogens. Quando vi si attenta, si ferisce il cuore stesso della legalità, si accede alla perversa dinamica del prevalere della legge della forza sulla forza della legge, ci si avvita in una spirale che può rivelarsi, usando il monito che Giovanni Paolo II indirizzava ai fautori della guerra, ‘avventura senza ritorno’. In questo contesto di imbarbarimento degli ordinamenti giuridici e dei sistemi politici, diventa difficile distinguere tra offensori e offesi, tra carnefici e vittime, con gravissimi danni per le coscienze, in particolare per quelle dei più giovani.
Una coerente Agenda politica dei diritti umani deve, in via pregiudiziale, porsi al riparo da equivoci e strumentalizzazioni che portano a considerare i diritti umani in termini ora di emergenza ora di assistenzialismo ora di astratto garantismo processualistico.
La logica del Diritto universale dei diritti umani è quella della centralità della persona umana, dell’eguaglianza e della non discriminazione, dunque è la logica dell’inclusione, come tale postula la “città inclusiva” in un’Europa, in un Mediterraneo e in un mondo inclusivi, in cui sia dato a tutti di poter esercitare eguali diritti di cittadinanza: civili, politici, economici, sociali, culturali.
Il tradizionale istituto della cittadinanza nazionale è pertanto sollecitato a superare la logica dell’esclusione e del privilegio, una logica costitutivamente discriminatoria. La sfida è particolarmente forte per l’Unione Europea, oltre che per ciascuno dei suoi stati membri, in ragione del fatto che la cittadinanza dell’UE apre alla pluralizzazione della cittadinanza nello spazio europeo ma in termini di complementarietà rispetto alla cittadinanza nazionale.
L’Agenda politica dei diritti umani deve coerentemente ispirarsi al principio secondo cui “stato di diritto” e “stato sociale” sono le due facce di una stessa medaglia, in ossequio al sopraordinato principio di interdipendenza e indivisibilità di tutti i diritti umani, consacrato dal vigente Diritto internazionale. Chi discrimina tra diritti civili e politici da un lato, e diritti economici, sociali e culturali dall’altro, non soltanto compie un’operazione arbitraria dal punto di vista logico e giuridico, ma soprattutto attenta all’integralità della persona, fatta di anima e di corpo, di spirito e di materia: il diritto all’alimentazione, il diritto al lavoro o il diritto alla salute non sono meno fondamentali del diritto alla libertà di associazione o del diritto di elettorato attivo o passivo.
Pertanto, nell’Agenda politica dei diritti umani, in conformità con il predetto principio della loro interdipendenza e indivisibilità, devono trovare eguale spazio e peso le garanzie dei diritti civili e politici e le garanzie dei diritti economici, sociali e culturali.
Nel costruire questa Agenda politica si è supportati dal fatto che le norme internazionali sui diritti umani, le quali costituiscono il nucleo ‘costituzionale’ dell’ordinamento internazionale generale, si saldano con le pertinenti norme della Costituzione della Repubblica italiana, a cominciare dagli articoli 2 e 3, con la norma “pace diritti umani” che, a partire dal 1991, risulta oggi inclusa in migliaia di statuti di comuni e province, nonché in numerose leggi regionali.
Il reciproco rafforzamento degli ordinamenti ai vari livelli, dalla Città all’ONU, risponde pienamente al principio statuito dalla Dichiarazione Universale secondo cui “il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana, e dei loro diritti, eguali e inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo”. La dignità della persona è quindi, come prima ricordato, principio fondativo dell’ordine mondiale e di qualsiasi altro ordinamento, e l’esercizio della sovranità degli stati diventa strumentale al perseguimento di ciò che deve permettere a “tutti i membri della famiglia umana” di realizzare, nella libertà dal potere, dalla paura e dal bisogno, il loro percorso di vita.

3. Pienamente consapevoli di farci assertori di legalità costituzionale dalla Città all’ONU e con rinnovata determinazione civica e politica, denunciamo che, mentre si diffonde la cultura dei diritti umani nel mondo delle organizzazioni e dei movimenti transnazionali di società civile, in quello degli enti di governo locale e regionale, nonché nelle scuole e nelle università, il comportamento di molti governi, sia all’interno dei rispettivi stati, sia nel sistema delle relazioni internazionali, dimostra di volere orientarsi in altre direzioni. All’insegna di “più sicurezza meno libertà” si registra la perniciosa tendenza a far prevalere interessi e logiche di spregiudicata Realpolitik sulle esigenze di sviluppo pacifico e democratico delle società.
La tortura è disinvoltamente praticata anche in paesi che vantano antiche tradizioni di rispetto dei diritti umani e dei principi dello stato di diritto. Come denunciato dal Parlamento europeo, non pochi tra questi paesi si sono prestati alla pratica illegale delle “renditions”.
Si moltiplicano i casi di tratta di esseri umani, in particolare di donne e bambini. La violenza nei confronti delle donne e delle bambine, prima ancora di costituire violazioni flagranti dei diritti fondamentali alla loro integrità fisica e psichica e alla salute, è un vulnus direttamente portato al cuore della dignità umana, anzi a tutti i membri della famiglia umana, a prescindere da differenze di genere.
La lotta al terrorismo nelle sue varie forme e matrici non legittima in nessun caso le violazioni flagranti del vigente Diritto internazionale.
Persiste la tendenza a indebolire le legittime istituzioni multilaterali, a cominciare dalle Nazioni Unite, preferendo la via dell’unilateralismo e delle coalizioni multinazionali à la carte secondo le convenienze degli stati più potenti e aggressivi.
Denunciamo con forza la tendenza di classi governanti senza scrupoli a riappropriarsi di quel pernicioso “diritto di fare la guerra” (ius ad bellum) che la Carta delle Nazioni Unite, avvalorata dalle successive convenzioni giuridiche sui diritti umani, ha loro sottratto una volte per tutte. L’art. 20 del Patto internazionale sui diritti civili e politici dispone al riguardo in maniera perentoria: “1. Qualsiasi propaganda a favore della guerra deve esser vietata dalla legge”. Dai vertici di classi governanti sempre più avvitate nella spirale dell’illegalità viene propagandata la tesi secondo cui la “autotutela successiva” ad attacco armato di stato contro stato, prevista in termini rigorosamente circostanziati dall’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite quale eccezione alla proscrizione della guerra e al divieto dell’uso della forza da parte degli stati, andrebbe intesa come “legittima difesa preventiva”, trasformando così l’eccezione in norma generale. In base a calcoli di mera potenza si distingue arbitrariamente, per quanto riguarda l’impiego del militare nelle situazioni di crisi, tra “uso della forza” e “peace-keeping”, demandando il primo agli stati e concedendo il secondo alle Nazioni Unite. Invece di far funzionare il sistema di sicurezza collettiva previsto dalla Carta delle Nazioni Unite, si mette a repentaglio la pace nel mondo con la strategia dello scudo anti missile e alimentando la corsa al riarmo. Le tensioni tra Russia e USA, che riportano alla mente la lunga notte della guerra fredda e del bipolarismo, hanno riflessi negativi, fortemente destabilizzanti, sulla politica mondiale e, in particolare, sulla politica estera dell’Unione Europea la quale, dal canto suo, si sta dimostrando incapace di alzare la testa e svolgere un ruolo autonomo di attore civile sulla scena mondiale. Quanto sta avvenendo in termini di riarmo, di proliferazione del nucleare e di diffusione delle cosiddette armi leggere è in linea con la vecchia, nefasta logica del “si vis pacem para bellum”, se vuoi la pace, prepara la guerra. Come dire, nella parentesi che si apre tra due guerre guerreggiate, preparati a combatterne un’altra. La “parentesi” viene eufemisticamente definita “pace negativa”, in realtà è essa stessa guerra, “guerra-istituzione”, fatta di ricerca e di investimenti di pubblico danaro in armamenti sempre più sofisticati. Non soltanto non c’è disarmo, non c’è neppure controllo del commercio. Le armi prodotte dai nostri ‘civilissimi’ paesi prendono vie sempre più tortuose e finiscono anche nelle mani della criminalità transnazionale e delle reti terroristiche.
Persistono gli ostruzionismi al funzionamento dei tribunali internazionali, in particolare della Corte penale internazionale, insieme con la strumentalizzazione e l’abuso flagrante della filosofia dello “umanitario” e del principio etico della “responsabilità di proteggere” per fini che sono estranei alle missioni di pace e sicurezza umana delle Nazioni Unite e che riproducono invece lo schema delle classiche operazioni di guerra, con obiettivi di distruzione, occupazione e controllo di territori altrui.
Tra questi comportamenti, tanto palesemente illegali quanto clamorosamente inefficaci anche secondo la logica del calcolo costi-benefici, c’è l’esportazione della democrazia con la forza delle armi. Un indicatore preoccupante di questo “richiamo della foresta” che si traduce nel rilancio della nefasta politica delle sovranità statuali, armate e confinarie è fornito, tra gli altri, dal primo anno di attività del Consiglio diritti umani delle Nazioni Unite che ha sostituito la vecchia Commissione diritti umani e dal quale, come noto, gli USA sono rimasti fuori. In una materia delicata come quella dei diritti umani, che esige indipendenza e imparzialità per l’esercizio di appropriate forme di promozione e di controllo, si registra la tendenza a rafforzare la valenza intergovernativa, quindi compromissoria, a scapito di quella sopranazionale, più trasparente e democratica, esercitata da organi formati da persone indipendenti.
Dopo la plateale corsa al seggio permanente nel Consiglio di sicurezza registrata nel 2005, ristagna la riforma delle Nazioni Unite. L’inerzia riformista degli stati copre il loro attivismo nel depotenziare le legittime istituzioni multilaterali. Nonostante le buone intenzioni espresse nel Rapporto Cardoso su “We the peoples: Civil Society, the United nations and Global Governance” (2004), lo statuto di consultazione delle ONG presso le Nazioni Unite non registra alcun apprezzabile sviluppo in termini di potenziamento del loro ruolo di partecipazione politica e democratica al funzionamento della massima organizzazione mondiale.
Continua la distruzione dell’ambiente naturale, nonostante l’allarme lanciato da qualificate istituzioni internazionali e nazionali. Mentre i cambiamenti climatici sono già in atto, c’è un colpevole ritardo nel fare ricorso alle tecnologie di risparmio energetico e di impiego delle fonti rinnovabili.
L’economia mondiale continua a rimanere estranea ai dettami della giustizia sociale, condizionata com’è dal mito del mercato e penalizzata dai danni provocati dal neo-liberismo e dalla de-regulation. I governi sono flagrantemente inadempienti nel rispettare la tabella di marcia stabilita per i Millennium Development Goals, fissata dalle Nazioni Unite nel 2000.
È stata messa in circolazione la parola “flexicurity”, la quale nasconde un nuovo, insidisoso disegno di insicurezza e precariato a livello planetario dopo il costoso insuccesso dell’offensiva neo-liberista. Nell’Unione Europea, insieme con persistenti e talora violenti rigurgiti di razzismo, xenofobia, nazionalismo e populismo, si registra lo stallo del processo di costituzionalizzazione del sistema UE, nonostante che 18 stati membri su 27 abbiano ratificato il Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa. A prescindere da valutazioni di questa o quella parte del Trattato, il fatto è estremamente negativo perché impedisce o comunque ritarda che la Carta dei diritti fondamentali dell’UE assuma forza giuridicamente vincolante. La Carta è importante anche per superare le contraddizioni che marcano l’attuale statuto di “cittadinanza dell’UE”, fondato sulle cittadinanze nazionali degli stati membri e non sui diritti fondamentali di tutti coloro che risiedono regolarmente nel territorio europeo.
L’Europa sociale, cioè quella dei diritti economici e sociali per tutti e della piena occupazione, stenta a prevalere sulla nuova, ambigua strategia della flexicurity. I “dialoghi” politici e per i diritti umani che l’UE promuove con i paesi terzi e i gruppi regionali registrano un momento di stasi. La stessa “clausola diritti umani” nei trattati con i paesi terzi non ha ancora trovato metodi appropriati di monitoraggio sulla sua implementazione da una parte e dall’altra. Nel nuovo Consiglio diritti umani delle Nazioni Unite, i paesi dell’UE che ne sono membri si trovano ingabbiati all’interno di quella che si sta rivelando essere una minoranza permanente. Si registrano incertezze ed esitazioni nel dar seguito concreto alla filosofia della human security, in particolare per le missioni di pace comportanti l’impiego del militare. Per quanto concerne il Corpo civile di pace europeo, all’ordine del giorno delle istituzioni europee a partire dal 1995, non si registrano progressi di rilievo al di là di un progetto di fattibilità, peraltro non del tutto coerente col paradigma dei diritti umani, predisposto per iniziativa della Commissione europea.
Il Partenariato euromediterraneo, avviato con la Dichiarazione di Barcellona del 1995, ristagna, condizionato com’è dalle vicende medio-orientali e per la mancanza di una congrua iniziativa politica da parte dell’UE, in particolare dei suoi paesi membri che si affacciano sul Mediterraneo.
In Italia, nonostante lo sviluppo dell’attenzione ai diritti umani che è dato registrare a livello di comuni, regioni, ecc., soprattutto sotto lo stimolo delle associazioni e dei gruppi di volontariato nonché di scuole e di università, le forze politiche dimostrano scarsa o punta ricettività a tradurre i diritti umani nella loro agenda operativa.
Non esiste ancora un partito politico che abbia fatto dei diritti umani, puntualmente, altrettanti capitoli del proprio programma. In sede governativa, si registra la persistente opposizione a creare un’adeguata “infrastruttura diritti umani”, nonostante la proposta, avanzata da un cartello di 72 organizzazioni nongovernative, di istituire la Commissione nazionale dei diritti umani, il Difensore civico nazionale e il Garante nazionale dell’infanzia e dell’adolescenza in conformità con quanto insistentemente raccomandato dalle Nazioni Unite e dal Consiglio d’Europa.
Perfino nel mondo delle associazioni e dei gruppi d’interesse economici e finanziari si registrano prese di posizione contrarie alle suddette proposte.
Persistono in sede centrale, ancor più che in sede locale, forti resistenze al riconoscimento degli elementari diritti di cittadinanza agli immigrati.
La piena occupazione quale risposta strutturale al precariato, non figura tra gli obiettivi prioritari della maggior parte delle forze politiche.

4. E tuttavia c’è spazio per la speranza. La situazione dei diritti umani nel mondo è segnata anche da realtà e tendenze che vanno nella giusta direzione. Occorre innanzitutto segnalare che il corpo di norme internazionali relative ai diritti umani si è recentemente arricchito di tre nuove Convenzioni giuridiche rispettivamente sulla promozione e la protezione delle diversità culturali da parte dell’UNESCO, sulla protezione di ogni persona dalle sparizioni forzate e sui diritti umani delle persone con disabilità da parte delle Nazioni Unite. Si segnala altresì l’adozione, da parte della Conferenza generale dell’UNESCO, della Dichiarazione universale sulla Bioetica e i diritti umani.
Sempre al positivo si segnala l’entrata in funzione dell’Agenzia Europea dei Diritti Umani e della Corte Africana dei diritti dell’uomo e dei popoli, nonché l’incremento di attività dell’Alto Commissario per i Diritti Umani delle Nazioni Unite e del Commissario Diritti Umani del Consiglio d’Europa, dei Rapporteurs speciali e del Rappresentante speciale del Segretario generale delle Nazioni Unite per i Difensori dei diritti umani. Si segnala altresì la crescente attenzione delle Organizzazioni internazionali per il dialogo interculturale, in particolare da parte dell’UNESCO, del Consiglio d’Europa e dell’Unione Europea. Altamente significativo è il percorso intrapreso nell’ambito delle Nazioni Unite all’insegna di “Alleanza delle civiltà”.
Nell’Unione Europea si segnala positivamente la messa a punto di “linee guida sui diritti umani”, con particolare attenzione alle materie della pena di morte, della tortura, dei bambini nei conflitti armati, degli “human rights defenders”.
Ancora al positivo registriamo che ONG e movimenti solidaristici transnazionali, sempre più numerosi, sempre più informati e consapevoli, sempre più coordinati in “reti”, si riconoscono nel Diritto internazionale dei diritti umani e lottano per la sua traduzione in Agenda politica dalla Città all’ONU.
In particolare in Italia l’insegnamento e l’educazione per i diritti umani si vanno diffondendo nelle scuole e nelle università, grazie soprattutto all’impegno di gruppi di insegnanti e di amministratori locali particolarmente sensibili. Da segnalare anche l’adozione di nuove leggi regionali specificamente portanti sulla protezione dei diritti umani e la promozione della cultura “diritti umani-pace-cooperazione e solidarietà internazionale”, nonché l’inclusione della norma “pace diritti umani” in statuti comunali e provinciali che ne erano privi.

5. Per ogni diritto umano, un capitolo dell’Agenda politica dalla Città all’ONU. Questa Agenda deve prevedere azioni concrete all’insegna di “tutti i diritti umani per tutti” sia per la politica interna sia per la politica estera. L’elenco – aperto – dei diritti fondamentali è quello sancito dal vigente Diritto internazionale e dalla Costituzione Repubblicana. La sfida è quella di tradurre in pratica il principio dell’interdipendenza e indivisibilità dei diritti umani – civili, politici, economici, sociali e culturali – e il principio dell’inclusione, che significa offrire occasioni per l’esercizio di eguali diritti di cittadinanza a tutti coloro che risiedono nel territorio nazionale.
La credibilità e la legittimazione della politica si giocano sul terreno della concretezza. L’Agenda politica dei diritti umani non può esaurirsi in un astratto preambolo e in generiche indicazioni programmatiche, essa deve dire cosa concretamente comporta in termini di azioni positive e politiche pubbliche soddisfare, per esempio, il diritto all’integrità fisica e psichica, il diritto alla salute, il diritto al lavoro, il diritto alla libertà religiosa, il diritto all’assistenza in caso di necessità, il diritto all’educazione, il diritto alla pace, il diritto all’ambiente, ecc. Nell’ordine di priorità dell’Agenda, devono figurare al primo posto, l’educazione, l’occupazione, la ricerca, le pari opportunità, l’ambiente, la cooperazione internazionale e il disarmo.
L’Agenda presuppone che, oltre alla volontà politica, ci siano strutture e istituzioni capaci di raccogliere la domanda politica che proviene dagli ambienti di società civile. In altri termini occorre attrezzare adeguatamente il sistema Italia. Occorre pertanto creare le istituzioni nazionali per i diritti umani: Commissione diritti umani, Difensore civico, Garante dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza secondo i principi raccomandati dalle Nazioni Unite, dal Consiglio d’Europa e dall’Unione Europea.
Occorre che l’Italia sia presente, con personale qualificato, in tutte le sedi internazionali in cui si trattano i diritti umani e le questioni di human security e di human development.
È necessario che ogni anno il Parlamento dedichi una apposita seduta all’esame sullo stato dei diritti umani nel paese e su ciò che gli organismi internazionali di garanzia raccomandano in risposta ai rapporti che l’Italia è tenuta a presentare in adempimento di precisi obblighi giuridici.
Tra le priorità deve figurare la rapida accettazione della parte C della Convenzione del Consiglio d’Europa (1992) sulla partecipazione degli stranieri alla vita pubblica a livello locale, già ratificata dall’Italia nel 1994 limitatamente alle parti A e B, che prevede per gli immigrati il diritto di voto, nonché una più organica attuazione di quanto disposto dalla Carta sociale europea.
Urge che l’Italia ratifichi le convenzioni Internazionali rispettivamente sui diritti umani delle persone con disabilità, sulla protezione di ogni persona dalle sparizioni forzate, sui diritti dei lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie.
La strada dei diritti umani comporta che si riduca la spesa militare e si aumenti la spesa destinata a politiche di pace, a cominciare dalla cooperazione allo sviluppo, la tutela dell’ambiente e gli Obiettivi di sviluppo del millennio. Giudicheremo i partiti politici sulla base della loro capacità di dare concretezza ai diritti umani nelle loro piattaforme.

6. L’Italia è un Paese che, ancor più di altri, deve agire nel sistema internazionale come “attore civile”, consapevole delle risorse di potere costituite dal suo patrimonio fatto di autonomie locali, formazioni solidaristiche di società civile, beni artistici, monumentali e paesaggistici.
In quanto attore civile, l’Italia è sollecitata dalla sua fertile società civile a farsi protagonista di nuovo, integrale umanesimo per la governance in sede di Unione Europea, di Nazioni Unite e di partenariato Euromediterraneo. Il nostro Paese deve pertanto dimostrare sul campo come e quanto siano efficaci le politiche intese a prevenire i conflitti violenti attraverso la diplomazia preventiva, la diplomazia delle città (city diplomacy), la cooperazione internazionale, il disarmo.
È importante ricordare che disarmo reale può avvenire soltanto se si pongono le Nazioni Unite e, in stretto coordinamento con l’ONU, anche le altre legittime istituzioni internazionali multilaterali, nella condizione di operare con efficacia e tempestività. Il disarmo dipende in grande misura dalla messa in funzione del sistema di sicurezza collettiva quale previsto, nelle sue linee generali, dalla Carta delle Nazioni Unite.

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