Un’arte nobile e difficile
Non esiste l’“antipolitica”, che è sempre un modo di fare politica. In Italia è un fenomeno di lunga durata che ha assunto vari nomi: dannunzianesimo, futurismo, “sovversivismo delle classi dominanti”, qualunquismo, berlusconismo.
In ambito letterario sono state coniate immagini efficaci come “fattoria degli animali”, “grande fratello”. La definizione che spesso si usa è “populismo”, aperto a soluzioni riduttive o distruttive della democrazia. È anche per questo che sono nati “i regimi reazionari di massa” e che molte personalità della cultura hanno aderito a regimi totalitari di matrice fascista, nazista o stalinista.
Le forme dell’antipolitica
Oggi l’antipolitica, collegata alla distruzione dello stato di diritto, è una grande famiglia di forme antipolitiche che si sorreggono a vicenda. Parto dall’antipolitica “maggiore”: le organizzazioni mafiose (soprattutto la ‘ndrangheta); l’economia del crimine analizzata dal Financial Crimes Enforcement Networ; la “finanza nera” col circolo vizioso criminalità-traffico di droga e armi-riciclaggio del denaro sporco; l’ideologia totalitaria del “mercatismo” e delle guerre in nome dell’“esportazione” della democrazia; la
Don Tonino Bello
in Il vangelo del coraggio, San Paolo
C’è poi un’altra antipolitica “minore”che ha tante buone ragioni, ma spesso confusa e ambigua. Il “grillismo”, ad esempio, rappresenta un disagio reale, ma promuove un’agitazione distruttiva verso i partiti (terreno di coltura di qualunque dittatura), gli ‘indultati’ (per annullare la legge Gozzini), i rumeni (in nome dei “sacri confini”). L’urlo indifferenziato contro “la casta politica” non solo è ingiusto verso tanti politici onesti e laboriosi, ma rischia di coprire il vero pericolo di altre caste “primarie”, scambia gli effetti con le cause. Infine, il turpiloquio costante, il ‘vaffa’ urlato per sfogarsi e strappare applausi è un penoso insulto razzista, segno di omologazione alla volgarità diffusa, identico a quello leghista o neofascista.
La paura e il nemico
L’antipolitica “minore” è inefficace perché assomiglia a quella maggiore, riproduce la logica del personalismo e della demagogia. A volte si presenta come un moderno “santo uffizio”, lancia condanne contro tutto e tutti, generando rassegnazione e cinismo. Se le antipolitiche si assomigliano, si entra nel vortice dell’impoverimento civile, del populismo demagogico e dell’esibizionismo mediatico, che trasforma la politica in un nervoso avanspettacolo.
A chi giova la guerra di tutti contro tutti se non ai “padroni” dei centri di potere e delle oligarchie economiche che lavorano per lo scontro di inciviltà, per la limitazione dei diritti, per lo svuotamento della Costituzione?
È possibile essere radicali e alternativi senza vittimismi aggressivi, esorcismi verbali, turpiloquio permanente? È possibile superare o ridurre la logica del nemico? È possibile evitare il degrado senza degradarsi tutti? Contrastare la “barbarie” senza diventare “barbari”?
Per un operatore di pace, il fine presunto buono non può giustificare mezzi cattivi. La democrazia è nonviolenza in azione. È sempre un compito, un percorso, una realtà in divenire. Per fare questo, è bene non farsi rovinare dalle “litanie delle paure”, osservava nel 1988 don Tonino Bello.
Anche la birmana Aung San Suu Kyi, nel suo libro “Libera dalla paura” (1996), considera la paura una vera corruzione mentale e sociale. Essa, infatti, incattivisce tutti i rapporti e tutti i linguaggi, crea disperazione e cinismo anche nella ribellione, semplifica con violenza le soluzioni. L’hanno ribadito nei mesi scorsi a Milano più volte sia la Caritas che la diocesi quando hanno evidenziato la necessità di una politica sociale rivolta alla “sicurezza globale e umana”, sia il Coordinamento delle comunità di accoglienza col documento sulla sicurezza sociale nelle città.
La questione morale
La prima emergenza è quella della democrazia. Nel 2003, la rivista dei gesuiti “Jesus” ha parlato a lungo di “emergenza democrazia” identificata in cinque “punti di sofferenza”: il disprezzo della legalità, il rischio di un conflitto permanente tra istituzioni e società, la patologica concentrazione del potere mediatico in poche mani, l’eclissi del “ruolo europeista e pacifista” dell’Italia sulla scena internazionale, il dilagare della “religione del mercato”.
Oggi la sofferenza rischia di diventare patologia cronica. La nuova questione morale appare radicale e globale. Oggi più di ieri essa riguarda il cuore della politica, la sostanza della democrazia. Se il sistema legislativo stesso si orienta alla cura dell’interesse privato, la questione morale si installa nel midollo dello Stato. Oggi la situazione sembra peggiore di quella del 1992, sia perché il discredito coinvolge tutti i partiti (e parte della magistratura) sia perché l’interesse privato sembra dominare anche la società “incivile”, dove spiccano vaste zone di illegalità, di intolleranza, di nichilismo etico.
Il conflitto etico-culturale, infatti, non è tanto tra vertici e base, istituzioni e popolo ma è interno al popolo e alle istituzioni, è diffuso ovunque. Ha a che fare col “nichilismo” (perdita di senso etico e di spirito pubblico). Il compito di una politica nonviolenta è immenso perché si tratta di ricostruire il cervello etico politico dell’Italia devastata dalla logica del più forte, del più ricco, del più furbo.
Che pensare-fare?
L’azione nonviolenta punta sulla qualità del sistema democratico. Penso sia necessario percorrere tre strade: ripartire (dalla Costituzione), riattivare (la cittadinanza attiva), ricostruire (la politica).
Ripartire dalla Costituzione, riconfermata dal voto popolare del 2006, perché contiene principi “indisponibili” contro ogni “relativismo”. La Costituzione costituisce una bussola fondamentale per l’etica pubblica e per una civiltà del diritto. Frutto di un incontro tra culture diverse, essa è modello di convivenza
Primo Mazzolari in Tu non uccidere, 1955
Essere movimento di cittadinanza attiva. Ogni cittadino, secondo l’art. 49 della Costituzione, può “concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Il “movimento dei movimenti” nella sua varietà operante è soggetto determinante di cittadinanza attiva che afferma in primo luogo il valore della persona umana e incarna la democrazia in azione.
Senza trasformarsi in partito, esso può diventare lievito profetico di ogni ambiente capace di tessere pace, etica, economia, politica, pedagogia e profezia.
Nel 2007, da Nairobi ad Assisi esso ha depositato semi e lanciato segnali. Quelli del Forum Sociale Mondiale e quelli della Tavola della pace con la marcia Perugia-Assisi del 7 ottobre idealmente collegata a Nairobi, col suo corposo programma “Le politiche di pace del governo Prodi” contenente proposte riguardanti: la cooperazione internazionale; Medio Oriente, Palestina-Israele, Libano, Iraq e Afghanistan...; la politica estera e di difesa, le basi nucleari, le spese militari e per armamenti, il commercio d’armi, l’industria bellica; l’ambiente e il clima; i diritti umani e l’educazione alla pace; l’informazione e la comunicazione; la lotta alle mafie; i migranti e il pluralismo culturale.
In tale ambito possono diventare buoni strumenti operativi sia il testo “La pace si fa a scuola” del 4 ottobre 2007, firmato dal ministro Fioroni e dal Sacro Convento di Assisi, sia l’argomentazione emersa al Corso di Studi della Cittadella di Assisi su “lo scandalo della mitezza”, dove il vescovo di Locri ha proposto un percorso di lotta nonviolenta contro le mafie.
È possibile ricostruire la politica sia aggregando forze in ambito politico (Partito Democratico, Sinistra Democratica, Lista Civile) sia, soprattutto, organizzando una società nonviolenta (Tavola della pace, Libera, Comunità libere della Calabria, Comunità di accoglienza, Campagne per il disarmo e un’economia di giustizia). È possibile vivere la pace come “cuore pensante” della politica. La politica può trovare nella pace il suo radicamento. L’azione per la pace può diventare politica come arte paziente di costruire la convivenza. Pace, politica e democrazia si sostengono e si rafforzano a vicenda. Operare per la pace significa dare sostanza alla democrazia come partecipazione, esercizio della sovranità civile, gestione dei conflitti, etica della liberazione.
In tal modo può riemergere la politica come “arte nobile e difficile” (Gaudium et spes 75); come “maniera esigente di vivere l’impegno cristiano a servizio degli altri” (Paolo VI); come “l’attività religiosa più alta dopo quella dell’unione intima con Dio. Perché è la guida dei popoli, una responsabilità immensa, un severissimo servizio” (La Pira); come passaggio “dalla profezia del gesto alla profezia della legge” per inaugurare “la stagione degli uomini liberi” (Tonino Bello, Ti voglio bene, La Meridiana, Molfetta 1994, p. 52).
Un nuovo inizio
Nella Chiesa si sta riparlando di dottrina sociale e di bene comune. C’è una riflessione sull’avidità di ricchezze come “idolatria”(il Papa a Velletri, Ravasi, Le porte del peccato) e sulla lotta alla criminalità (esortazione di Bagnasco). Il Papa a Loreto ha invitato i giovani a essere “vigilanti e critici”, a preferire “le vie alternative indicate dall’amore vero: uno stile di vita sobrio e solidale; relazioni affettive sincere e pure; un impegno onesto nello studio e nel lavoro; l’interesse profondo per il bene comune”.
È un appello alla liberazione dalle paure. Ci aiuta in questo cammino la testimonianza della Birmania. Essa incarna la nonviolenza come virtù pubblica e come progetto politico. Si collega alla forza della verità di Gandhi, al potere dell’amore di L. King, al perdono-ubuntu di Desmond Tutu, alla convivialità di Tonino Bello.
L’agire politico, animato dalla profezia della pace, può generare un nuovo inizio.