Che cosa temiamo?
Per quasi tutto il corso della storia, erano i soldati a combattere le guerre, ed erano sempre i soldati a morire in guerra. Nella sua versione moderna, soprattutto in questo secolo turbolento, la guerra annienta molti più civili che soldati. Nei soli anni Novanta, secondo le stime più moderate, sei milioni di civili sono caduti sotto il tiro incrociato di un centinaio di guerre.
Di fronte a una contabilità delle guerre odierne in cui il 90% delle vittime durante gli scontri armati sono civili, di cui l’80% donne e bambini, non si può non parlare di decomposizione dello scenario classico dei conflitti: ogni guerra che si “rispetti” è ormai una guerra civile. La trasformazione dell’evento bellico da scontro tra apparati militari, a conflitto in cui la popolazione è vittima in quanto il suo controllo rappresenta una delle poste in palio fondamentali, rappresenta ormai un pilastro portante della politica e della pianificazione militare, l’esempio più conosciuto – ma non l’unico – è quello dell’attuale evoluzione della guerra in Iraq.
Non è fuor di luogo ritenere che caratteristiche del genere rappresentino ormai uno dei tratti peculiari dei conflitti nella nostra epoca, un tempo in cui la prospettiva di una guerra civile mondiale non sembra affatto campata in aria. In un conflitto del genere le popolazioni finiscono per essere offerte in olocausto al caos e la diffusione delle psicosi diventa uno degli strumenti preferiti per manipolarle, un vero e proprio sistema terroristico di go¬verno adatto a giustificare la scelta della logica di guerra, sul fronte interno come nelle relazioni internazionali.
L’ombra del terrorismo
Jean Baudrillard ha recentemente descritto la condizione degli inermi con parole drammatiche ma molto vicine alla realtà quotidiana di milioni di esseri umani: “Ci troviamo ormai di fronte all’esercizio di una potenza allo stato puro, di un potere senza sovranità. Il principio terrorista esteso a tutta la popolazione è l’ipotesi implicita del potere: le stesse popolazioni sono una minaccia terroristica per il potere. Finché il potere trae la sua sovranità dalla rappresentanza, finché ha una sua ragione politica, il suo esercizio può trovare un equilibrio, in ogni caso può essere combattuto, contestato. Ma l’annullamento di tale sovranità cede il posto a un potere sfrenato, senza contrappesi, allo stato brado (di una selvatichezza non più naturale ma tecnologica). E quel potere che non ha più riferimento legittimo, né un autentico nemico (perché lo trasforma in una sorta di fantoccio criminale) si ritorce senza problemi contro le proprie popolazioni”.In sintonia con la visione totalizzante della guerra asimmetrica, l’ex Segretario alla Di¬fesa statunitense Donald Rumsfeld ha sottolineato come “le guerre del ventunesimo secolo richiederanno in misura sempre maggiore la partecipazione di tutti gli elementi del potere nazionale e non solo della componente militare. Esse esigeranno l’impiego congiunto delle capacità in campo economico, diplomatico, finanziario, della difesa dell’ordine pubblico e dell’intelligence”.
Qual è la ragione per una simile mobilitazione totale e continua di tutte le forze di un Paese? Gli Stati Uniti o gli altri Paesi ricchi sono forse minacciati da nemici talmente potenti da giustificare lo stato di emergenza continuo? La risposta a queste domande l’ha fornita lo stesso Rumsfeld scrivendo che la sfida del nuovo secolo è costituita dalla necessità di difendere gli Usa “da ciò che non si conosce, dall’incerto, dal mai visto, dall’inaspettato”.
Il timore dell’incerto
L’incertezza è però un aspetto ineliminabile dell’esistenza umana, ragion per cui la “missione” individuata da Rumsfeld appare assai ardua, se non impossibile, a meno che non si precipiti in una concezione culturale che identifica tutte le espressioni sociali, culturali, demografiche ed economiche diverse dalla propria o semplicemente simili, ma “esterne” come minacce potenziali.
Ci si immerge così in un universo completamente disgiunto, dominato dal manicheismo binario del giudizio sul bene (noi) / male (gli altri). È precisamente in questo ambito concettuale che si deve collocare la teoria della guerra preventiva, quel nuovo modo di pensare e pianificare la difesa di una comunità che porta a individuare e sconfiggere gli avversari prima ancora che essi siano in grado di “minacciarla”.
La stessa ossessione per la sicurezza e per la tolleranza zero nei confronti della criminalità nelle aree urbane statunitensi, che ha contribuito a frammentare le comunità, a diffondere la violenza, la paura e l’angoscia, a bloccare il dialogo tra le diverse componenti della società e a identificare la condizione di povero con quella di “potenziale criminale”, va applicata nelle relazioni internazionali, un universo nel quale esistono solo minacce asimmetriche. Di conseguenza le risposte devono essere a loro volta flessibili e asimmetriche e Rumsfeld, citando la famosa affermazione di von Clausewitz (“La guerra è la continuazione della politica con altri mezzi”), elimina dal ragionamento ogni considerazione sulla natura violenta di tali mezzi e si premura di sottolineare che “in questo secolo, la maggior parte di questi mezzi potrebbe non essere militare”.
L’ambigua utopia della “guerra con zero morti”, figlia di quella che è stata definita l’economia militare del risparmio, si presenta così nella sua versione asimmetrica, capace di realizzare le “economie di scala”, ovvero di scaricare i costi umani e materiali dei conflitti solo sulle loro vittime, mediante l’impiego variegato e adattabile di tutte le capacità e i saperi espressi da una società.
In nome del dio interesse
L’attuale dilatazione del significato della parola “interesse”, utilizzata come cardine concettuale nella formulazione delle politiche militari di tutte le maggiori potenze mondiali e della stessa Unione Europea, e impiegata per giustificare molte scelte politiche gravemente destabilizzanti o la decisione di intervenire militarmente, fa parte a pieno titolo del nuovo arsenale concettuale che forma le impalcature “culturali” delle politiche o modelli di difesa del dopo Guerra Fredda.
La tutela degli “interessi” (nazio¬nali, europei, dell’Occidente, ecc.) quale obiettivo supremo perseguito dalle dottrine di sicurezza fa si che non si possa riconoscere chiaramente un’unica forma o “pianificazione razionale” del conflitto; le guerre appaiono oggi come le arene dove si scontrano gruppi diversi con dinamiche fuzzy. Ma la vaghezza e la flessibilità delle strategie sono funzionali a una visione che traspone nell’ambito della fenomenologia della guerra uno dei dogmi della vulgata economica attuale, quello della competizione.
Competition, War and Transformation è il titolo, assai emblematico, di una comunicazione di Todd Kiefer, teorico dello Stato Maggiore statunitense. L’autore ha il pregio di essere estremamente chiaro, tra¬sformando la classica definizione clausewitziana di guerra intesa come continuazione della politica con altri mezzi, e precisamente mezzi violenti, in quella di guerra come espressione suprema e letale della competizione tra popolazioni (ultimate expression of competition; lethal competition between populations).
Obiettivo principale da raggiungere in un conflitto così concepito è l’aumento della propria libertà d’azione (freedom of action, intesa come incremento della capacità di agire indipendentemente), a scapito di quella del nemico. La vittoria totale teorica si concretizza solo se la capacità competitiva dell’avversario viene annichilita attraverso il suo sterminio, persino la resa senza condizioni lascia infatti al nemico un residuo di libertà d’azione.
Spetta dunque alla politica stabilire quale dovrà essere il grado di libertà concesso all’antagonista. Tale è il fine militare e strategico che deve perseguire uno Stato piuttosto che voler ottenere la pace e la stabilità per mezzo dell’uso dello strumento militare. Kiefer ritiene, infatti, che questi due obiettivi siano difficili da definire e ancor più ardui da conseguire, mentre viceversa livelli elevati di libertà d’azione contraddistinguerebbero le nazioni “sane e in crescita” (healthy and growing nations). Alain Joxe ha acutamente osservato al riguardo come le oligarchie conquistatrici odierne, a differenza di quanto avveniva nel passato, non ambiscono più “alla stabilizzazione dei territori di conquista e alla creazione di un nuovo ordine pacifico”.
La costruzione di un nuovo assetto politico e sociale legata a un progetto di ampio respiro richiede, come prerequisito irrinunciabile, la vittoria completa sul nemico.