L'Olocausto visto dai carnefici
L'Olocausto è stato quasi sempre raccontato dal punto di vista delle vittime, oppure da quello neutro di chi non ne è stato direttamente coinvolto. Si è versato un mare d'inchiostro per delineare e commentare la tragedia dello sterminio perpetrato dai nazisti nella seconda guerra mondiale. Alle ricostruzioni storiche, che vogliono avere il taglio della fredda obiettività scientifica, vanno aggiunti gli scritti più personalizzati, a volte vere e proprie testimonianze degli scampati, oppure riflessioni che intendono preservarci dall'eventualità che l'orrore si ripeta. Pensiamo alle opere di Anna Frank, di Primo Levi, di Etty Illesum, oppure agli studi appassionati come il libro di Hanna Arendt, il famoso La banalità del male che ci fa scoprire tutto l'orrore che può derivare dal comportamento ubbidiente, tenace e meticoloso di un burocrate dello sterminio, quell'Eichmann tristemente famoso per essere stato l'organizzatore zelante della deportazione di centinaia di migliaia di ebrei.
Lo sterminio raccontato dalle vittime, dunque, oppure analizzato da studiosi che hanno cercato di capire…di aiutarci a capire. E il racconto, in questo caso, ci mette davanti all'idea di quanto male possa venire da coloro che, in nome di una folle e spietata ideologia, sono riusciti a perpetrare lo sterminio di massa.
I tedeschi degli anni '30 e '40, tuttavia, erano persone di questo mondo, come lo sono io, con i piedi ben saldi a terra. Essi hanno creduto a un uomo, alle sue idee deliranti che al momento non sembravano poi tanto assurde, essendo la Germania desiderosa di riscattarsi da una condizione di avvilimento derivato dalla precedente catastrofe mondiale. Adolf Hitler, quindi, non era un marziano, un essere alieno comparso su questa terra senza che nessuno lo volesse. E troppo sbrigativa risulta anche l'idea che egli fosse un mostro, una mera incarnazione del demonio, un anticristo. Se poi non ci fossero stati, insieme alle SS, tutti quegli individui che rappresentavano gli elementi (anche inconsapevoli) dell'ingranaggio, l'orrore dello sterminio non avrebbe potuto concretizzarsi. Come avrebbero potuto i convogli della morte portare il loro carico ad Auschwitz, se non ci fosse stato l'umile deviatore (a volte per niente inconsapevole), impegnato a fare funzionare gli scambi?
L'orrore dell'Olocausto ci interpella direttamente, ci deve interpellare perché anche noi potremmo essere un domani gli artefici di qualcosa di simile. Bisogna capirne bene i meccanismi, ma soprattutto le coordinate mentali che l'hanno generato.
Ecco perché potrebbe essere molto interessante un lungo racconto fatto dai carnefici. Sono pochi gli scritti di questo tipo: alcuni brevi racconti di soldati tedeschi o frammentarie testimonianze di ufficiali delle SS, rilasciate soprattutto durante i numerosi processi a loro carico.
In questa penuria spicca oggi il romanzo Le Benevole, di Jonathan Littel, tradotto per la Casa Editrice Einaudi ed uscito nell'ottobre del 2007.
Si tratta di un romanzo, certamente, ma che ha tutto lo spessore, direi tradizionale, del romanzo storico. Un racconto (davvero tosto) di quasi mille pagine, rigorosamente dettagliato per quanto riguarda gli avvenimenti della seconda guerra mondiale che interessano il periodo fra il giugno del 1941 e la primavera del 1945, soprattutto su quello che venne chiamato il fronte orientale. Quindi, pur intrattenendo con il suo impianto narrativo, possiede tutte le qualità della ricostruzione storica.
La vicenda è narrata dal protagonista, l'ufficiale delle SS Maximilien Aue, in cui si è identificato il giovane scrittore Jonathan Littel, qui alla sua prima grande fatica letteraria. Aue si trovò direttamente coinvolto negli avvenimenti che riguardarono l'Ucraina, la Crimea, la Polonia, l'Ungheria durante i tristi anni della dominazione nazista. Parla anche della Francia occupata e della Germania, soprattutto durante i mesi tristi del '44, quando Berlino e le altre città venivano costantemente bombardate dagli aerei anglo-americani.
L'hauptsturmfuhrer Aue non era un sadico, nemmeno un potenziale criminale che voleva liberare i propri istinti approfittando dell'avventura nazista. Non era nemmeno uno di quei frustrati e meschini borghesucci che avevano trovato un'insperata opportunità di fare carriera nell'apparato hitleriano. Egli era figlio di una borghesia illuminata, possedeva una laurea e una vasta cultura, amava la musica, la letteratura e godeva del contatto con le altre persone. Aveva un animo sensibile e in certo modo raffinato, non privo di tormento che gli derivava da qualche scheletro nell'armadio familiare: un padre prematuramente scomparso, una madre fredda, la presenza ingombrante di un patrigno egocentrico, l'amore incestuoso per una sorella gemella e una tendenza all'omosessualità.
Egli si trovò ad essere un perfetto funzionario dello sterminio di massa. Quella cosa era crudele, ma andava fatta.
La parabola di Maximilian Aue come ufficiale della SS risultò alla fine breve (come breve fu l'avventura del Reich Millenario vagheggiato dal Furher). Arruolatosi nel 1937 quasi per caso (doveva farlo per depistare alcuni sospetti di omosessualità), si trovò sul fronte russo nell'estate del 1941. Era iniziato il grande assalto all'URSS e Maximilien partecipò come tenente alle attività di un Einsatzgruppe, una di quelle unità tristemente famose per le fucilazioni di massa di commissari sovietici, partigiani ed ebrei. Poi si trovò in Crimea, e presso gli avamposti tedeschi ai piedi del Caucaso. Venne spedito a Stalingrado e lì si salvò per miracolo dopo essere stato ferito ed evacuato all'ultimo momento in modo fortunoso. A Berlino ricevette un incarico di ispettore dei campi di sterminio e di lavoro forzato. Doveva assicurarsi, per conto del ministro Speer, che lo sfruttamento dei prigionieri coniugasse nel modo migliore le esigenze dello sforzo bellico e quelle dell'eliminazione degli indesiderati. Nel 1944 assistette alla deportazione di centinaia di migliaia di ebrei ungheresi e poi si trovò coinvolto nell'ultimo atto: la battaglia di Berlino e la fine del Terzo Reich.
Maximilien Aue, divenuto Oberturmbannfuhrer delle SS, fece la sua carriera. Entrò nella folta schiera dei cosiddetti carnefici e alla fine seppe che doveva rendere conto delle sue responsabilità. Ma la sua non fu una passeggiata. Egli vide morire tanta gente in quell'ingranaggio perverso di cui era un elemento, ma fu sempre consapevole dell'orrore e questo orrore infondo lo rese irrimediabilmente guasto, lo colpì nel profondo dell'animo, trasformandolo a sua volta una specie di vittima. Eppure non fu mai sadico, né propriamente spietato o gratuitamente crudele, come invece lo erano tanti suoi camerati. Mantenne sempre la sua finezza d'animo, la sua lungimiranza culturale, anche nei momenti peggiori. Fu sempre una persona normale nel vero senso della parola, addirittura squisita. Fece solo il suo dovere fino in fondo. Fece quello che andava fatto, punto e basta. Questo è l’aspetto davvero allucinante della vicenda, che tanto ci deve inquietare.
Alla fine, Aue non può dichiararsi pentito, ma nemmeno cerca di giustificare la sua partecipazione a quell'orrendo crimine. Egli si limita a mettere tutti noi davanti a quell'orrendo fatto per chiederci come ci saremmo comportati, noi persone perbene, al suo posto di persona altrettanto perbene.
Le Benevole, le furie che hanno accompagnato le gesta di Aue e dei suoi colleghi carnefici, si sono eclissate. La guerra è finita, lasciando ai posteri la testimonianza di tanto orrore.
Così l'autore ci vuole mettere in guardia sul fatto che l'orrore si può ripetere e questo potrebbe avere già gettato il suo seme in questo mondo che è sempre inquieto, dove il razzismo e l'odio sono duri a morire, e dove tutti, anche i più illuminati possono essere presi in un perverso ingranaggio di oppressione e di morte.