La guerra mondiale al terrorismo: un caso didattico
Vogliamo aprire le ferite, pulirle, versare del balsamo e, se possibile, guarirle.
(Desmond Tutu, alla Conferenza di Durban, qualche giorno fa...)
Nella sventura, se avessimo voluto cercare con la lanterna un esempio di gestione negativa e violenta dei conflitti, non avremmo mai potuto sperare in un caso così didatticamente perfetto.
In esso si concentrano pressochè tutti gli elementi utili per individuare esattamente quel che sarebbe importante NON FARE alla luce non solo della teoria e pratica nonviolenta, ma di qualunque ricerca su questi temi condotta nell’ambito delle scienze sociali (comprese le ricerche portate avanti dalle istituzioni militari e di polizia, sempre che le leggano).
1. PERCEZIONE / RIMOZIONE
Una gestione negativa e distruttiva del conflitto nasce da atteggiamenti caratterizzati da bassa percezione e alta rimozione; frasi tipo ‘il conflitto? non lo vedo, non c’è...e se anche c’è, non vedo proprio come mi coinvolga...e se anche mi coinvolge, non vedo come io ne sia responsabile in qualche modo...e se anche c’entrassi qualcosa, non spetta certo a me risolverlo...etc etc...’...Tutto questo campionario in successione rappresentano il succo quotidiano della nostra modalità di avvicinarci (o meglio, allontanarci) dai conflitti.
La situazione di quiete che deriva da questo atteggiamento la chiamiamo PACE.
Gli effetti di questa pace sono evidenti e immediati:
- chi vede il conflitto e si sente coinvolto (magari perché ne soffre) sente una rabbia crescente per questa sottovalutazione, perde fiducia nella controparte, estremizza i suoi comportamenti.
Niente ci fa più arrabbiare di trovare un supertranquillo quando siamo allarmati per qualcosa che ci tocca (e dovrebbe toccare anche lui !).
-questa rabbia cresce quando, dopo aver trascurato il problema se ad essere toccati erano altri, la controparte gli dà invece un valore estremo se è lei a sentirsi parte lesa.
Alcuni esempi: quanto vale la vita di un americano o di un occidentale rispetto alla vita di un arabo o di un nero ? Nel conflitto algerino sono già morte 100.000 persone eppure nessun uomo politico è andato in parlamento a proclamare ‘siamo tutti algerini!’; i lavoratori del WTC sono state vittime innocenti, mentre le popolazioni serbe o irakene sono state bombardate e sottoposte ad embargo perché evidentemente complici e colpevoli con i loro regimi; gli islamici sono terroristi, gli israeliani che ammazzano e distruggono i campi profughi ‘reagiscono agli attacchi di Hamas’.
Sarebbe buona regola, se proprio si deve far finta di non vedere, essere perlomeno ciechi e sordi nella stessa misura verso tutti, almeno si preserverebbe una forma di equidistanza, per quanto negativa.
Ma così non è: una gestione violenta dei conflitti è caratterizzata da una assoluta discrezionalità. Essa non è casuale, anzi potremo dire che rappresenta il suggello del suo stesso, nefasto, potere.
DELIRIO / EQUILIBRIO
Niente è più radicato e diffuso nell’umanità che la rimozione della morte.
Alcune culture dalle antiche matrici hanno elaborato questa dimensione in forme evolute e complesse, attraverso la cultura, le religioni, i rituali sociali.
E’ il caso dell’Oriente, del Mediterraneo, dell’Islam.
I paesi anglosassoni hanno intrapreso, in via prioritaria, un’altra strada: quella che, radicata in un pensiero magico, affida alla scienza, alla tecnologia, all’invenzione di soluzioni pragmatiche, l’elaborazione del dolore e della morte.
Il male viene affrontato esorcisticamente esibendo una contropotenza-onnipotenza che lo combatte senza tregua attraverso protesi, farmaci, radar, scudi spaziali, depositi d’oro, manipolazioni genetiche e missili nucleari.
Così si costruisce il mito della sicurezza e della invulnerabilità. E, naturalmente, anche Dio sta dalla nostra parte. Siamo davanti ad un vero e proprio delirio mitomanico.
Il delirio tende a rafforzarsi ovviamente in situazioni di crisi d’angoscia interna: se nonostante tutto questo ben di dio accumulato per sentirmi inattaccabile mi sento in difficoltà ed in squilibrio e un gruppo di terroristi con dieci temperini e quattro aerei della mia flotta riesce ad attaccare e distruggere i due simboli fondamentali del mio sistema di sicurezza e di potere, ridicolizzandolo e umiliandolo, è evidente che ho davanti a me due strade possibili: la prima sarebbe quella di ripensare in profondità alle premesse e ai modelli che regolano i miei fallimentari sistemi di rassicurazione, provando a chiedere aiuto e cooperazione per fare un salto di cultura e di civiltà insieme agli altri; la seconda, quella che stanno intraprendendo i governi occidentali e gli integralisti islamici, è di rafforzare, irrigidire e moltiplicare esponenzialmente le procedure e gli effetti del modello stesso, procedendo ulteriormente nel delirio, che assume caratteristiche tipicamente paranoidi.
La costruzione di fittizie comunità d’appartenenza, non regolate da emozioni e vissuti condivisi e quotidiani (che anzi tendono a perdersi e ad essere soppressi), ma da proclami di guerra ed appelli a solidarietà obbligate e con le lettere maiuscole (o con Noi o coi Terroristi, la Civiltà contro la Barbarie, la Guerra santa contro gli Infedeli, il Bene contro il Male, Dio opposto a Satana...e via discorrendo).
Ma ancora una volta gli esseri umani in questione peccano in coerenza e rivelano forti dosi di discrezionalità nell’applicazione di un modello che vorrebbero venderci come totalizzante e in sé perfetto:
- i ruoli di buoni e cattivi si scambiano non solo tra le parti, ma anche nella valutazione che di volta in volta ognuno dà dei suoi alleati di un tempo, ora divenuti nemici implacabili, e viceversa;
- la contaminazione, l’interdipendenza tra le culture (di cui si auspica, nel delirio, la separazione assoluta) riappare nella contrapposizione tra uno sceicco tecnocratico e miliardario e di uno sceriffo votato alla creativa parodia di un’impresa mistico-religiosa (Giustizia Infinita!);
- la confusione emerge anche dalle forme assunte nei riti di ricomposizione della comunità colpita: quando ancora non si accettava la realtà della morte e si continuava disperatamente, contro ogni logica, ad affiggere le foto degli ‘scomparsi’, migliaia di americani si sono ritrovati a cantare insieme, in una mescolanza davvero inedita, ‘We shall overcome’, ‘Blowin’ in the wind’, ‘God bless America’ e ‘Glory glory alleluia’. Come si possano mettere insieme canzoni militariste e pacifiste, antinazionaliste e statolatriche, razziste ed antirazziste, e sentirsi uniti in questo, solo il delirio lo può spiegare. E il fatto che sia logicamente inspiegabile, non lo rende meno efficace.
3. COMPETIZIONE / MEDIAZIONE
Il delirio mitomanico-paranoide va a strutturarsi operativamente nella guerra, cioè nell’approccio più premeditato e distruttivo che l’umanità conosca all’interno del pur vasto panorama delle gestioni negative e violente dei conflitti.
Più in astratto (ma più concretamente per noi, rispetto alla nostra vita quotidiana) possiamo dire che il delirio si organizza all’interno dei modelli supercompetitivi (vincere/perdere, aggredire/subire, violenza/passività, up/down) tipici delle nostre società e della attuale forma assunta dalla globalizzazione.
La procedura automatica prevede un processo che alterna scontri simmetrici a fasi di apparente tregua complementare, che coprono le ragioni profonde del conflitto e producono, a medio termine, una escalation della violenza diretta e/o strutturale.
Come tutti gli automatismi radicati nelle nostre premesse è difficile che, a gioco iniziato, possano fare capolino delle alternative credibili. La guerra è preparata e attesa, anche in questi giorni, come se fosse ineluttabile. Ad umiliazione subita si risponde con l’umiliazione agita, in un circolo infinito e perverso, che rafforza già da solo il sistema di guerra.
Altre strade sarebbero possibili in alternativa alla guerra (il boicottaggio, l’isolamento politico, la mediazione, l’interposizione non armata, l’aiuto umanitario) e sono conosciute; ma esse possono eventualmente essere utilizzate solo dentro la cornice della guerra, dentro e dopo di essa.
Questa è la grande, ipocrita illusione: che le pratiche di mediazione siano compatibili con quelle che mirano ad accrescere la competizione e la violenza tra le parti.
L’esperienza psicosociale ci induce, ovviamente, alla convinzione inversa: le possibilità della mediazione e della cooperazione si riducono proporzionalmente al procedere delle opzioni belligeranti. Di fatto, risultano incompatibili e tra loro essenzialmente concorrenziali.
Ma anche qui permangono gli stessi elementi di discrezionalità , insieme incongrua ed efficace, già visti agli altri livelli:
-le vittime stesse fanno i giudici nella loro causa, i servizi segreti e le forze dell’ordine conducono le ispezioni e individuano le prove ed i colpevoli di reati commessi contro di loro, i governi scelgono i mediatori tra i loro alleati e sudditi, quando non si propongano come negoziatori sedicenti neutrali;
-ogni parte in guerra, così come accadeva nella corsa agli armamenti USA-URSS, intrattiene rapporti segreti col nemico di turno, gioca su vari tavoli anche all’insaputa di altri nel proprio stato od organismo, coopera ad incrementare lo sviluppo della produzione bellica e dello stato di guerra da una parte e dall’altra, utilizza l’escalation per colpire i nemici eterni ed interni...
-culture scientifiche e tecnologiche, sempre attente alle statistiche e alle verifiche funzionali, non valutano l’efficacia della violenza secondo gli stessi parametri: non considerano il fatto che la pena di morte non ha mai funzionato come deterrente per gli omicidi, e che la guerra non ha mai migliorato la situazione dei popoli che si proclama di difendere nè ha mai punito o travolto i dittatori che si vorrebbero apparentemente sconfiggere. Né valutano il fallimento di qualunque politica di militarizzazione del conflitto rivolto a gruppi terroristici di matrice etnico-religiosa all’interno di singoli stati nazionali (vedi il caso dell’Irlanda, dei Paesi baschi, della Corsica, della Cecenia, della stessa Palestina).
OLTRE LA GUERRA
In una situazione simile, dopo quel che è appena successo, l’intervento militare unilaterale da parte statunitense non trova e non troverà a breve alcuna resistenza in ambiti governativi ed istituzionali, civili, politici e militari.
Né i popoli e i movimenti appaiono realisticamente in grado di opporsi a questo atto di violenza programmata in modo tale da impedirlo.
Credo che sia utile porsi in questa prospettiva proprio per evitare un eccesso di frustrazione e di impotenza. La lotta è attualmente impari.
Questo non significa naturalmente che si debba stare inattivi, anzi.
E’ fondamentale testimoniare, protestare, dissociarsi, fare pressioni, obiettare, riflettere, comunicare.
Credo che si debba tener conto, a medio termine, di alcuni motivi di speranza:
- la tenuta dei vertici, sia islamici che cristiani, rispetto alla tentazione di coprire la guerra con motivazioni religiose; al momento, la posizione nonviolenta assoluta regge, la guerra non viene giustificata, è rifiutato lo spirito di crociata. Permane una difficoltà, per entrambe le parti, a persuadere gran parte dei propri seguaci e questa difficoltà tenderà a crescere quando inizieranno le operazioni belliche. Va, quindi, valorizzata e incoraggiata, davanti a qualunque accadimento;
- la presenza di un movimento ampio e variegato, diffuso in tutto il mondo e adeguatamente interconnesso, come è quello detto ‘di Seattle e Porto Alegre’. E’ evidente come quel che sta accadendo sia anche un tentativo di ammutolirlo e di neutralizzarlo, spostando il conflitto su un campo ad esso sfavorevole. Ma credo che sia ben più forte e radicato di quanto possa apparire nella attuale situazione, segnata inevitabilmente da un relativo disorientamento;
- la complessità della globalizzazione, l’inestricabilità dei legami e degli intrecci, l’inerziale esigenza di libertà nella comunicazione e negli scambi appaiono ormai dei processi irreversibili, contro i quali il sistema di guerra dovrà fare i conti; l’interdipendenza planetaria, i vincoli ambientali e sociali, le istanze di relazione economiche e culturali non potranno perdere totalmente e definitivamente il loro significato e il loro peso. Per quanto la guerra abbia già dimostrato in altre epoche tutta la sua capacità di trascurare e violentare qualunque altro agente e attore in gioco, è possibile credere che la globalizzazione rappresenti, anche per il modello bellico, una situazione nuova e in gran parte imprevedibile .
E intanto, che fare ?
Da un punto di vita formativo, credo sarebbe importante ed urgente che ciascuno di noi provi ad iniziare degli esercizi-training con se stesso e con gli altri. Proposte semplici, ma già difficili, soprattutto di questi tempi.
Provo, schematicamente, ad illustrarne alcuni:
-esercizi di eterocentrazione: davanti alla tv o ai giornali che ci toccano da guardare o da leggere (e chissà cosa ci aspetta...) mi sto ponendo domande del tipo: e se fossi un afghano, un arabo, un palestinese, cosa penserei di queste parole, di questi atti ?
-esercizi di avvicinamento e integrazione comunitaria quotidiana: se si vive in città o in quartieri multietnici provare a stare di più insieme, guardare insieme e commentare le notizie che arrivano dal mondo, scambiarsi idee, manifestare insieme contro la guerra;
-esercizi di smarcamento: sviluppare la nostra capacità di pensare con la nostra testa, di dare solidarietà senza entrare in recinti o trappole, di sentirsi parte dell’umanità intera e non di singoli gruppi umani contro altri; ricordarsi di Empedocle che chiamava Amore l’incontro dei dissimili e Odio quello dei simili;
-esercizi di nonviolenza assoluta: manifestare il rifiuto della violenza, da qualunque parte provenga, la nostra ferma e totale obiezione, la nostra diserzione da obblighi di distruzione e di morte.
‘Non in mio nome’, ripetono ossessivamente i Living Theatre durante i loro spettacoli contro la pena di morte. Credo che sarebbe forte e coraggioso ripetere questo mantra in tutte le occasioni in cui vediamo insorgere il sostegno alla violenza e alla guerra, nei luoghi pubblici e privati, a scuola, nei luoghi di lavoro, per strada...
Piccole cose, forse, rispetto all’enormità di quel che sta avvenendo.
Ma proviamoci.