PAROLA A RISCHIO

La tentazione dell’insignificanza

Tra l’abuso e il conformismo che ha invaso anche l’uso delle parole, due voci, una femminile e una maschile, ci propongono quest’anno un percorso nuovo. Per rileggere con occhi liberi le Scritture.
Lidia Maggi e Angelo Reginato

Tutte le parole sono a rischio, non solo alcune. Non si tratta di isolare qualche vocabolo soggetto al fraintendimento in modo tale che non venga intaccata la purezza di una lingua. Non è una rubrica affidata agli accademici della Crusca! L'operazione che proponiamo è quella di “nominare” il nostro vissuto contemporaneo; e di farlo attingendo all'immensa biblioteca delle Scritture ebraico-cristiane. Queste ultime non offrono una zona franca, una corsia preferenziale, dove non ha accesso l'uso improprio delle parole. Piuttosto attraversano l'ambiguità costitutiva della vita, cercando di strapparne una pur debole luce, di salvaguardarne un senso.

L'USO E L'ABUSO DELLE PAROLE
Nessuna parola è esente dal fraintendimento e dall'abuso. “Che consapevolezza ha la maggior parte di noi riguardo alla sostanza delle parole? Estraniate dal terreno dell'anima, le nostre parole non crescono come frutto di discernimento, ma si rivelano aridi cliché, rifiuti tratti dalle discariche dell'intelligenza. Per l'uomo d'oggi niente è più familiare e al tempo stesso trito e ritrito quanto le parole. Sono le cose più a buon mercato, più abusate e insieme meno curate. Sono oggetto di frequenti profanazioni. Tutti viviamo in esse, sentiamo in esse, pensiamo in esse, ma poiché non riusciamo a sostenere la loro indipendente dignità, a rispettarne il peso e la potenza, le parole divengono dei relitti, si fanno elusive, come una boccata di polvere. Le parole hanno smesso di essere impegnative. La nostra sensibilità alla loro forza va inesorabilmente scemando. Ed è amaro il destino di quelli che hanno smarrito completamente il senso del loro peso, perché le parole si vendicano con quanti hanno abusato di loro” (A. J. Heschel).
La Scrittura si apre con la celebrazione di quanto esiste, creato da un Dio che dice. Qui la Parola è efficace: il dire coincide col fare.
È potente: vince il caos dell'abisso, dando forma al mondo.
È positiva: crea ciò che è buono e bello. Ma non appena la voce divina passa per le orecchie e le bocche degli esseri umani, essa viene subito stravolta, diviene oggetto di sospetto. Peggior sorte tocca alle parole umane, incapaci di custodire anche i legami più forti, usate per creare distanza nell'intimità della coppia e morte nella relazione fraterna. La Bibbia, già nel suo portale d'ingresso, ci avverte del rischio. E per chi non volesse accorgersene, l'intera storia umana si fa carico di ricordare questa costitutiva ambiguità delle parole. Comprese quelle “alte”, che risuonano solenni, che accendono speranze, sulle quali ognuno sarebbe disposto a scommettere. Se la storia ci presenta un uso spregiudicato e strumentale delle parole che dicono la vicenda umana, diversa dovrebbe essere la sorte per quanto riguarda il divino. Ma anche la parola “Dio”, come ci ricorda Martin Buber, “è la più sovraccarica di tutto il linguaggio umano. Nessun altra è stata tanto insudiciata e lacerata”.
Che fare, dunque? Mollare il colpo? Subire passivamente (e un po' cinicamente) la situazione, sapendo che le parole, necessarie per vivere, sono allo stesso tempo inaffidabili? Muoversi opportunisticamente in un orizzonte dove tutto si equivale, dove niente tiene, dove fa testo la parola del più forte? Buber, dopo aver preso atto del tragico abuso della parola “Dio”, continua le sue considerazioni affermando: “Proprio per questo non devo rinunciare ad essa. Generazione di uomini hanno scaricato il peso della loro vita angustiata su questa parola e l'hanno schiacciata al suolo. Ora giace nella polvere e porta tutti i loro fardelli. Generazioni di uomini hanno lacerato questo nome con la loro divisione in partiti religiosi; hanno ucciso e sono morti per quest'idea e il nome di Dio porta tutte le loro impronte digitali e il loro sangue... Non possiamo lavare di tutte le macchie la parola 'Dio' e nemmeno lasciarla integra; possiamo però sollevarla da terra”.

PAROLE DA ARRISCHIARE!
Alla sconsolata presa d'atto dell'ambiguità delle parole, dobbiamo aggiungere la possibilità, da sempre coltivata, di muoversi in questo campo minato, di risollevare quanto spregiudicatamente usato e gettato, di guadagnare anticorpi alla resa patologica.
Poiché la stessa chiave che chiude può anche aprire! Quella libertà che usa la parola per ingannare è pure in grado di mettersi in gioco prendendola sul serio. La parola da oggetto abusato può tornare a essere soggetto che ci interpella, che rimette in moto l'esistenza, offrendosi come voce che chiama, bussola che orienta, suono carezzevole che incoraggia.
Le parole a rischio sono anche da “arrischiare”!
L'esperienza credente lo attesta con forza. La fede è consegnata nelle parole, di cui si teme la riduzione a “lettera morta”, ma di cui soprattutto si esalta la potenza: in esse agisce lo Spirito inviato dal Padre per svelare la verità della vita, per promuovere la sequela di Gesù, Verbo fatto carne. Qui le parole sono “spirito e vita” (Gv 6,63). E non si tratta di un'esperienza magica della parola, del tutto incontrollabile.
La fede propone ai figli “maggiorenni” di Dio un'esperienza “adulta” della parola, consapevole sia dei limiti che delle potenzialità; in grado di discuterne il senso e di sottoporla alla prova del confronto critico.
Abbiamo bisogno della lucidità per denunciare gli abusi, per mettere in allerta da pericolosi slittamenti semantici. E, allo stesso tempo, dobbiamo recuperare una nuova innocenza che faccia del nostro linguaggio un “sì,sì; no, no” (Mt 5,37), che ci spinga a fidarci della parola, a prenderla sul serio. Come ha proposto Claudio Magris, occorre coniugare utopia e disincanto.
La Scrittura mette in scena sia il disincanto critico che la visione utopica. “Non chi dice: 'Signore, Signore'... ” (Mt 7,21): anche perché persino i demoni lo dicono (Lc 4,34)! Le parole, e ancor più le parole religiose, vengono smascherate nella loro ipocrisia. Eppure, la pesca infruttuosa, svolta nel buio della comunicazione umana, non spegne quell'ultimo tenace tentativo: “Ma sulla tua parola getterò di nuovo le reti” (Lc 5,5).

QUANDO LE PAROLE SONO SEMI
Alla scuola della sapienza biblica proveremo a compiere questa doppia mossa per cercare di uscire dallo stagno delle parole-trappola e per sperimentare la fecondità delle parole-semi, capaci di produrre frutto in terreni buoni (bonificati!).
La posta in gioco è alta: far parlare di nuovo alcune parole, ritenute inutilizzabili poiché cadute in discredito. Un compito da svolgere non in astratto, al riparo di un particolare momento storico. “In ogni epoca bisogna cercare di strappare la tradizione al conformismo che è in procinto di sopraffarla” (W. Benjamin). E il nostro tempo rende ardua la sfida, dal momento che oggi più che mai la parola inflazionata è a rischio di insignificanza. Nella società dello spettacolo, in cui le parole saturano l'orecchio, non consentendogli il necessario silenzio per l'ascolto; nell'era delle identità difensive, dove le parole, strappate alla narrazione di una storia complessa, vengono urlate fondamentalisticamente come slogan: in questo nostro “oggi” ci è chiesto di salvaguardare un dire responsabile, di salvare le parole.
Vogliamo assumerci il compito rischioso di fare parlare le parole al punto che dicano la verità delle nostre vite. Il vocabolo italiano in questione - parola- viene da parabola. La vocazione delle parole non è quella di essere suoni convenzionali usati per intendere. Esse hanno la pretesa di dire il mondo, denunciandone le miserie e indicandogli la via del riscatto. Proprio come nelle parabole evangeliche, dove gli ingredienti umani vengono utilizzati per esprimere il Regno di Dio.
Le parole sono chiamate a interpellarci nel profondo, a consegnarci un mondo da costruire e da amare. Di fronte a una tale posta in gioco non possiamo sottrarci alla fatica di un ascolto rinnovato.
Stupore e penitenza si sovrapporranno lungo il percorso proposto, proprio come in quel sapiente gioco di bambini dove (non a caso!) il dire è anche fare, baciare, lettera e testamento!
C'è ancora molto fuoco sotto la brace. Soffiarne le scorie e ravvivarne la fiamma; andare oltre la superficie e riaccendere la passione per la vita, per lo shalom del Regno: è questa la sfida per chi sceglie di mettersi in ascolto della Parola di Dio e, insieme, opera per la salvezza delle parole umane.

Note

Lidia Maggi e Angelo Reginato si occupano entrambi di ecumenismo e formazione biblica.

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