PALESTINA

Silenzio stampa

Il sangue nelle strade di Gaza svela i silenzi della stampa e delle coscienze. Attribuire falsi pregiudizi a persone di altre culture è grave responsabilità. E la colpa è di tutti.
Filippo Landi (corrispondente Rai da Gerusalemme)

Il lungo silenzio su Gaza dei media italiani e l’immobilismo internazionale sulla situazione in Medio Oriente è stato spezzato, il dicembre scorso, dal suono delle armi e dei pianti di uomini, donne e bambini. Se quel silenzio si fosse interrotto prima, forse la comunità internazionale sarebbe stata costretta a guardare in faccia la realtà e si sarebbe evitato  un bagno di sangue. 

Su questo, proponiamo un testo dolorosamente attuale tratto dall’intervento di Filippo Landi, corrispondente della RAI da Gerusalemme, al convegno “Terra Santa, terra ferita. Dalla memoria alla profezia”, tenutosi a Firenze il 29 novembre 2008.

Tema di questo intervento è il silenzio complessivo calato sulla vicenda mediorientale, silenzio che riguarda tanti episodi della vita di un intero popolo, quello palestinese, e di quello israeliano. Innanzitutto mi chiedo: io sono dentro o fuori da questo silenzio? Ne faccio parte! Non mi sento assolto solo perché il TG3 e il giornale radio per i quali lavoro mi consentono di tanto in tanto di parlare di qualcuno di questi episodi. 

Spesso ricevo richieste per fare altri servizi che mi sembrano perlomeno folkloristici: mi salvo, perché preparando il servizio lo inquadro in contesti più rilevanti. Così in testa metto, su 17 righe, 11 righe sul tema commissionatomi, mentre uso le altre 6 righe per dar notizia di altro, aggiungendo: “ma oggi è accaduto anche questo...”. Utilizzo così la mia autonomia professionale anche per apportare spicchi di verità che a Roma sembrano non interessare. 

Ma perché questo accade? Perché i media frenano anche giornalisti che, per la loro cultura, esperienza e storia, vorrebbero dire più cose? Ho individuato alcune risposte, che aiutano a comprendere la complessità di fatti che in parte ci sovrastano, in parte ci vedono dentro e in parte, ora, non possiamo cambiare. 

Il silenzio dei media

1. La sindrome del terrorismo. È sufficiente aprire un giornale per verificarla a tutti i livelli. La sindrome denuncia come onnipresente il terrorismo e fa sì che venga ritenuto più importante di ogni altro problema. 

2. La fobia verso il mondo arabo e islamico. C’è una grande responsabilità dei media italiani e una responsabilità morale di una parte dei giornalisti nell’aver alimentato e nell’alimentare oggi tale ossessione.

3. Un senso religioso (e cattolico) anti-islamico. Talvolta, a Gerusalemme incontro pellegrini e guide religiose di gruppi di visitatori. Fermandosi davanti alle moschee della Città Vecchia, le guide proferiscono: “Ecco, queste sono le moschee costruite contro le chiese cattoliche!”. Il pellegrinaggio diventa allora, purtroppo, la ricerca della propria radice cristiana in Terra Santa, ma in una continua sfida contro gli islamici. 

4. Il senso di colpa europeo per la Shoah. Questo fa sì che vengano giustificate molte cose. È anche in aumento una pregiudiziale politica filoisraeliana, che è un passaggio successivo. Accade così che vengano scagionati molti atti compiuti dai governi israeliani, indipendentemente da ogni valutazione etico-morale. Non si devono esprimere “giudizi” su quello che i governi israeliani fanno e si cade così nel ridicolo. I giornalisti israeliani appaiono molto più liberi di noi: hanno una capacità critica verso gli atti del loro governo che noi italiani non abbiamo più.

5. Le pressioni di istituzioni israeliane e di gruppi ebraici europei e italiani. Le istituzioni israeliane incidono sui corrispondenti e, saltandoli, direttamente sui quartieri generali a Roma, Londra, Parigi, ecc. Ci sono dei corrispondenti a Gerusalemme che dopo un po’ di tempo diventano sgraditi e le istituzioni israeliane, comprese le ambasciate all’estero, chiedono, ad esempio, al direttore della BBC di sollevare dall’incarico una collega perché troppo filopalestinese. Oggi questa collega lavora in Pakistan. Inoltre, ci sono i gruppi ebraici dei singoli paesi che cercano di incidere su chi fa informazione, arrivando direttamente al direttore della testata. Una collega finlandese mi raccontava che era letteralmente subissata di e-mail per quello che scriveva a Gerusalemme. La stessa cosa capita a noi italiani. 

6. La divisione all’interno dei palestinesi. Dal punto di vista di chi fa informazione, questa divisione ha accentuato la scelta di non parlare dei problemi dei palestinesi.

L’immaginario

Questi sei elementi fanno sì che non solo venga censurata una parte della realtà palestinese, ma anche una parte della società israeliana. Il problema è che si è formata un’immagine della società israeliana a livello di chi dirige i mezzi di comunicazione di massa e di chi influenza la politica, per cui è difficilmente accettabile un servizio che, ad esempio, faccia vedere il livello di povertà che c’è a Gerusalemme. Nell’immaginario, gli israeliani sono ricchi. I poveri, per loro colpa, sono i palestinesi. 

Le violenze sessuali nelle famiglie ebree osservanti sono uno dei fenomeni più in crescita e più rilevanti della società israeliana: ma questo non coincide con l’immaginario che qualcuno vuole trasmettere, perché sono invece le donne musulmane le sole vittime di cattivi mariti, ovviamente anch’essi musulmani. Emblematico è stato il caso di un rabbino fuggito in Canada inseguito da un ordine di cattura per violenza: l’avvenimento è stato ignorato, in primo luogo dalle agenzie di stampa.

Così anche il fenomeno dei refusnik, i ragazzi israeliani che non vogliono fare il servizio militare nei Territori occupati: “Ok, si può fare un pezzo, ma senza esagerare!”. L’immaginario è fermo al fatto che tutti i giovani israeliani difendono la loro patria. 

Semplicemente persone

In otto anni vissuti tra Il Cairo e Gerusalemme e in diciassette in Medio Oriente, ho imparato che gli arabi e i musulmani sono innanzitutto persone come noi. Hanno desideri esattamente uguali ai nostri. L’aspirazione, ad esempio, a una felicità familiare, a far studiare i propri figli. Nel mondo arabo, molto più che da noi, le famiglie si ammazzano di lavoro e di debiti pur di mandare i figli a scuola. Inimmaginabile è stato il dolore delle famiglie di Gaza, quando all’inizio dell’anno scolastico si è dovuta fare una selezione perché non c’erano soldi per comperare i quaderni e i libri per tutti all’interno di ciascun nucleo familiare. Alcuni figli son potuti andare a scuola mentre altri sono stati costretti a lavorare. Di loro, moltissimi sono musulmani, come ci sono anche arabi cristiani. Quello che non può sfuggire è che tutti sono realmente delle persone! Questo dato è stato cancellato dall’informazione. Così, le persone vengono descritte come “musulmani”, intendendo con ciò che sono potenzialmente dei terroristi: ciò è gravissimo! 

Inoltre, dal punto di vista dei cattolici, è in gioco il nostro modo di guardare alle persone. Mi chiedo: la fede permette a un cattolico di avvicinarsi a un musulmano senza paura? Uno è abbastanza convinto di quello che ha incontrato nella propria vita da potersi avvicinare all’altro senza timore oppure no? Ci sono cattolici che hanno invece questo timore e questo fa sì che il rapporto si complichi. Sono spesso invitato alla prudenza su questo argomento, io rispondo in un altro modo: ricordo il giorno dei funerali di papa Giovanni Paolo II, che ho vissuto a Gerusalemme. Non c’era televisione nelle case o nei negozi dei musulmani che non fosse accesa sulle “televisioni dei terroristi”, Al Jazeera e Al-Arabyia, che trasmettevano in diretta i funerali da San Pietro. 

Non c’era musulmano che quel giorno, incontrandomi, non mi abbia fatto le condoglianze. 

Anche i musulmani sanno riconoscere chi tra i cattolici parla a loro avendo a cuore la loro umanità. Per questo, nell’affrontare i problemi dei cristiani in Palestina, e nel parlare dell’esodo dei cristiani da Betlemme, si deve ricordaree che spesso i problemi riguardano, ad esempio, ogni singola persona che vive a Betlemme. Cristiana o musulmana che sia. Se poi il cristiano ha la fortuna di avere il visto per espatriare e il musulmano no, l’esodo si fonda su un problema comune.

 

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