Generazione nucleare
La riproposizione della scelta nucleare, sull’onda emotiva degli sconvolgimenti climatici, trova il suo punto di forza nell’assunzione che la generazione elettrica da fonte nucleare non comporti emissioni nell’atmosfera, se non in misura trascurabile. Ma è un’assunzione priva di fondamento.
Se è vero, infatti, che il processo di fissione che avviene nel nocciolo dei reattori è a emissioni zero, tutte le altre fasi del ciclo nucleare – estrazione e lavorazione del minerale, trattamento dei residui, smantellamento delle centrali – producono CO2 e gas serra in abbondanza.
Fattori inquinanti
Come noto, l’uranio naturale è composto da tre isotopi (U-238; U-235; U-234) di cui quello fissile è il U-235 che però è presente nell’uranio naturale in una percentuale dello 0,711% mentre l’U-238 ne rappresenta il 99,284% e l’U-234 lo 0,0055%. In pratica per ottenere la percentuale di U-235 comunemente impiegata nei reattori nucleari di potenza (intorno al 3%), occorre aumentarne la composizione isotopica di 3-4 volte cioè del 300-400%. La conversione dell’U3O8 in UF6, oltre a richiedere molta energia, avviene con impiego di fluoro (altamente tossico e corrosivo) e per quanto il procedimento avvenga in ambienti controllati e in depressione per impedire fughe all’esterno, i rilasci in atmosfera di questo gas incidono significativamente sull’effetto serra.
Altre voci significative del bilancio delle emissioni imputabili a un impianto nucleare riguardano le fasi di costruzione e di decommissioning. Nella prima è preponderante l’uso di energia necessario alla fabbricazione dei materiali impiegati nella costruzione, soprattutto ferro e calcestruzzo. A parità di potenza generata infatti, una centrale elettronucleare necessita di una quantità di calcestruzzo superiore del 40-50% a quella impiegata in una centrale a gas in ciclo combinato, a causa della voluminosità delle strutture di contenimento, della rilevanza delle fondazioni e delle altre opere principali come quelle per la captazione e rilascio dell’acqua di raffreddamento o per il sostegno dell’enorme turbina. Anche la fase finale del ciclo nucleare – comprendente le attività necessarie allo smantellamento dell’impianto (decommissioning), al trattamento dei rifiuti nucleari oltre che alla sistemazione delle miniere di uranio esaurite – comporta dispendi di energia non certo trascurabili.
Viceversa i sostenitori del nucleare prendono in considerazione solo il funzionamento della centrale, ignorando sistematicamente tutti i problemi delle fasi “a monte” e “a valle”: solo così essi presentano parametri di emissione di CO2 in rapporto all’energia prodotta (gr CO2/kWhe) dell’ordine delle unità o di una decina, a fronte di parametri attribuiti ai combustibili fossili dell’ordine delle centinaia di gr CO2/kWhe. Ciò non ha altra spiegazione se non quella di sostenere a tutti i costi la tesi dell’emissione zero in quanto principale veicolo di promozione dell’energia nucleare, senza la quale nessuna chance resterebbe ai fautori di questa tecnologia, visti gli allarmi che suscita nell’opinione pubblica. Ma altri studi di organismi indipendenti portano a concludere che l’energia elettrica prodotta da fonte nucleare può raggiungere livelli di emissione comparabili con quelli di una centrale elettrica alimentata a gas, fino ad arrivare a superarli se dovessero verificarsi determinate condizioni nell’approvvigionamento di uranio.
Il punto focale dell’analisi condotta dagli olandesi Storm Van Leeuwen, docente dell’Università di Gröningen, e Philip Smith, fisico nucleare risiede nella valutazione del fatto che l’energia necessaria ai processi di estrazione e lavorazione dell’uranio dipende in modo determinante dalla concentrazione del minerale uranifero nel giacimento originario. Nella letteratura corrente, infatti, si usa prendere a riferimento una concentrazione media di uranio per tutti i giacimenti come se questi fossero omogenei tra loro e di capacità pressoché illimitata.
In realtà le riserve conosciute di uranio sono costituite in larga parte da giacimenti con concentrazioni comprese tra lo 0,2 e lo 0,01%.
È evidente che, se per ottenere 1 Kg di uranio da un giacimento con concentrazione dello 0,1% occorre estrarre e lavorare una tonnellata di materiale, ne occorreranno 10 volte di più per ottenere lo stesso quantitativo di uranio se la concentrazione del giacimento è dello 0,01%. Altrettanto evidente è che le caratteristiche del giacimento di uranio influenzano la convenienza a estrarlo in termini economici, ma soprattutto fisici: secondo questo studio il limite fisico oltre il quale l’energia necessaria ai processi di estrazione e lavorazione dell’uranio supera quella ottenibile dall’impiego dell’uranio stesso nei reattori si raggiunge per giacimenti che abbiano un grado di concentrazione compreso tra 0,03–0,04% di uranio.
I costi
Quantificare i costi di questa tecnologia è sempre un’operazione difficile per due ordini di motivi. Il primo riguarda il numero e la natura delle voci di costo da considerare perché, pur appartenendo al settore dell’impiantistica (una centrale nucleare è pur sempre un impianto che produce energia elettrica), non c’è tecnologia che richieda la conoscenza di così tante discipline e di così elevato standard applicativo come quella nucleare.
Tutti i materiali e componenti di una centrale nucleare sono classificati come nuclear grade, cioè devono rispondere a requisiti più stringenti, in termini di prestazioni e di affidabilità, di quelli che gli stessi materiali e componenti dovrebbero fornire se impiegati in una centrale elettrica convenzionale. Inoltre nel nucleare vige il criterio di ridondanza dei sistemi: laddove in una centrale convenzionale esistono due pompe o due misuratori (uno di riserva all’altro), in una centrale nucleare i componenti diventano tre (di cui due sempre in funzione e uno di riserva) o addirittura quattro di cui tre in funzione. Questi requisiti sono necessari in quanto una centrale nucleare è intrinsecamente esposta a rischi di incidente che potrebbero avere conseguenze assai più gravi di quelle che il medesimo tipo di guasto o anomalia di funzionamento, provocherebbero in una centrale elettrica convenzionale. Tutto questo incide sui costi di costruzione e di esercizio in modo rilevante, ma le stime correnti di parte nucleare non sembrano tenerne debito conto quando esplicitano le componenti di costo del KWh nucleare, preferendo adottare generici (e improbabili) costi budgetari invece di quelli – normalmente più elevati – che si registrano a consuntivo dei lavori.
Il secondo motivo per cui non è facile quantificare l’onerosità di questa tecnologia, è che per alcune voci di costo tipicamente nucleari esistono pochissimi parametri oggettivi di riferimento e ci si deve affidare a stime che, a seconda di come sono state elaborate, lasciano un ambito di incertezza nella quantificazione del costo del prodotto finale, cioè del KWh prodotto.
In particolare tra le attività “a valle” del funzionamento della centrale spiccano il suo smantellamento completo con relativo trattamento di decontaminazione dei componenti e del sito, la sistemazione dei rifiuti radioattivi, nonché la chiusura e risanamento delle miniere di uranio. È la parte finale del ciclo nucleare, spesso ignorata o genericamente quotata con costi assai inferiori a quelli risultanti dai programmi di smantellamento (molto pochi in verità) finora realizzati. Negli ultimi cinque anni, inoltre, i costi di costruzione del settore chimico-impiantistico sono aumentati di oltre il 25% e quelli del settore power (centrali nucleari comprese) di circa l’80% sulla scia dell’aumento vertiginoso di tutte le materie prime (ferro, cemento, rame, nichel) necessarie alla costruzione di questi impianti. Se debitamente conteggiate, queste voci portano a stime di costi unitari più che doppie rispetto a quelle dichiarate dai sostenitori del nucleare, sia in termini di costo di impianto, espresso in $/Kw installato, o di costo di produzione espresso in $/Kwh prodotto: le più note agenzie di rating fra cui Moody’s e Standard &Poor quotano i costi di impianto tra i 4000 e i 6000 $/kw contro i 2000-2500 indicati dai sostenitori del nucleare, mentre i costi di produzione salgono a 12-14 cent$/kwh.
Queste considerazioni spiegano perchè le imprese private, o le banche, siano tutt’altro che propense a buttarsi nel finanziamento di impianti nucleari, a meno che solide garanzie statali (cioè dei contribuenti) non garantiscano i capitali che verrebbero investiti e i loro rendimenti! Recentemente Amory Lovins, direttore scientifico del Rocky Mountain Institute, ha commentato così i piani di rilancio del nucleare negli Usa: “Sostanzialmente, possiamo avere tante centrali nucleari quante il Congresso sarà capace di far pagare ai contribuenti. Ma non ne avremo nessuna in un’economia di mercato”.