Fede di migranti

23 febbraio 2009 - Renato Zilio (missionario scalabriniano)

Maria mi avverte delicatamente:“Padre, la prossima domenica non verrò alla messa!” È un po’ mortificata nel dirmelo, ma capisco subito, andrà alla chiesa del suo quartiere, alla sua età non è poi così facile muoversi... D’altronde, mi dico, è bello anche questo: sentirsi a casa qui alla missione italiana o andare senza paura a messa insieme... agli stranieri, in un’altra lingua, con un altro stile. Siamo all’estero, è vero.
Da giovane, tutte le domeniche, era qui alla missione cattolica italiana tra una marea di altri italiani. Ritrovarsi insieme è ritrovare se stesso. Cioè sentirsi se stessi fino in fondo, recuperare la propria identità, respirare il medesimo clima, cogliere le cose al volo... Dopo una settimana che si sta in un paese dove tutto è straniero come la lingua, il ritmo, le abitudini e i volti, sentirsi tra i suoi alla domenica è qualcosa di magico. E poi, la fede è stata già da piccoli legata alla comunità, alla festa insieme, ai santi, alla parola reciproca di conforto o di compagnia... e qui alla missione italiana è proprio questo che si respira.
In una comunità di emigranti è una dinamica abituale: sistole e diastole, duplice movimento del cuore, è il ritrovarsi per poi disperdersi, il perdersi tra gli altri per incontrarsi di nuovo. La stessa dinamica, in fondo, che vive ogni grande religione settimanalmente il venerdì, il sabato o la domenica con i propri credenti: lo si nota, qui all’estero, con i vicini di casa che sono musulmani, ebrei o protestanti. Incontrarsi per celebrare la vita, disperdersi per viverne la fede. Stupenda ambivalenza.
È sempre la stessa fede di Abramo che rivive in questa nostra gente. E non solo per quella fiducia cieca che li ha fatti partire e atterrare in un altro mondo o in un altro emisfero... Mi sembra ancora di rivedere la tristezza infinita di siciliani o di pugliesi nell’arrivare smarriti in un paesaggio innevato e freddo della Svizzera: “Ma chi mai sapeva cos’era la neve?!” O in villaggi neri di foschia e di fuliggine attorno alle miniere del Belgio: “Dover lavare ogni settimana i muri esterni della casa sporchi di smog, si dicevano tra loro, ma chi se lo era mai sognato di fare?!”. E così lasciare alle spalle per sempre il loro sole, i bei panorami che si godevano nelle terre del Sud e che erano, anche se non sembra, una parte della loro vita... E poi i ritmi di lavoro, come quello a cottimo, tanto più lavori e tanto più ti pagano. Per una manciata di soldi in più un lavoro che ti illude e ti consuma fin dentro all’anima: impari a diventare una macchina che sa solo lavorare e niente più!
Ormai è la fede della provvisorietà e dell’itineranza che li insegue continuamente e ovunque. Tutto rimane fragile, provvisorio, quotidiano, a cominciare dalla realtà che ti sembrava più sicura: i figli. Ogni giorno che crescono si allontanano un passo di più da mamma e papà, dalla nostra stessa cultura: parlano un’altra lingua, hanno altri gusti, vivono altri sogni... “Si annoiano perfino del nostro tesoro: quel pezzo di casa rimasto in Italia che serve nei pochi giorni di ferie all’anno!” Ritornare sempre al solito posto ormai non li incanta più...“Ma non sono questi i nostri figli?!” ci si chiede a volte con amarezza, guardandoli crescere. Legge amara e paradossale: il migrante sarà accolto in un Paese nella misura in cui i figli diventeranno in casa propria degli stranieri!
Ed è quella fede che ritrovi nella preghiera di Angela, domenica scorsa: “Ti ringrazio, Signore, perchè questo tumore che mi è arrivato mi ha fatto capire che la vita non è mia. Veramente, è un dono che mi fai ogni mattina e non so fino a quando...” Solamente in una vita di emigrazione può nascere una preghiera simile che, ascoltandola, fa stringere il cuore. Preghiera della provvisorietà. Dove ancora vive lo spirito di Abramo e quella fiducia ad occhi chiusi nella notte di una prova. Cammino oscuro da fare soli insieme a Dio: non si vive unicamente di certezze, ma anche di fede, di fiducia. E, in fondo, è questa che fa rinascere il mondo...
Se provi poi a chiedere a qualche nostro emigrato qui che cos’è la fede... non ti risponderà, non saprebbe neanche farlo. Dagli occhi, però, dal modo di guardarti capirai subito che per lui è un motore. È quella forza, insomma, che Dio stesso ha trasmesso a lui, ai suoi e alla sua originale avventura. Non è tanto per lui una visione, una credenza, un’idea ragionata o un sentimento improvviso... È qualcosa che gli ha fatto superare tutti gli ostacoli che, in una vita di migranti, sono stati così tanti da sembrare infiniti.
Ogni volta alla celebrazione dei 25, 40 o 50 anni di matrimonio di emigranti guardo salire all’altare una coppia spesso incerta e barcollante. Prendo loro le mani, le tengo ben strette insieme e invitandoli a chiudere gli occhi - come ha fatto la loro fede - invoco lo sguardo di Dio su questa storia coraggiosa e fiduciosa costruita insieme. “Siamo stati bravi, Padre, tanti anni insieme...” mi soffiano a bassa voce con emozione mista ad una punta di orgoglio, sufficiente affinché i figli possano sentire e forse imparare...
Sì, sono stati bravi! Difficoltà e sofferenze affrontate insieme, umiliazioni e illusioni provate, una speranza grande vissuta dentro, tutto li ha solidificati: sono vittoriosi insieme. Lo si vede ora dal loro sguardo luminoso, anche se il corpo ormai è malandato.
Sentono che la loro vita di emigranti si può riassumere in due sole parole: una lotta e una danza, allo stesso tempo. Qualcosa di duro, di amaro e di inimmaginabile che non potranno mai più dimenticare. Ma anche qualcosa di bello che ha aperto l’orizzonte e il cuore, li ha fatti rinascere in un altro mondo che ora sentono come proprio. Nel loro piccolo - ma essi non lo sanno - la loro fede ha trasformato il mondo. Ogni emigrante fa incontrare e riconciliare, senza saperlo, mondi differenti, visioni della vita ben diverse. Attraverso di lui, valori e culture lanciano dei ponti nel mare aperto dell’umanità. Anche Dio, un giorno, ha fatto lo stesso tra il cielo e la terra: divenne come uno di noi, migrante... E fu Natale.

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