Sentire con la Chiesa
Quando fu nominato vescovo (21 aprile 1970), come ausiliare di mons. Chávez y Gonzalez, arcivescovo di San Salvador e sostenitore delle innovazioni conciliari, mons. Oscar Romero non poteva certo immaginare dove l’avrebbe condotto il motto scelto per il proprio episcopato: “Sentire con la Chiesa”. Per lui significava ancora semplicemente un’adesione incondizionata e rassicurante, benché intelligente, alla dottrina ecclesiale e alle direttive del Magistero: “Da parte nostra abbiamo preferito ancorarci a ciò che vi è di sicuro, aderire con timore e tremore alla roccia di Pietro, ripararci all’ombra del magistero ecclesiastico, porre gli orecchi vicino alle labbra del Papa, invece che andarcene come acrobati audaci e temerari per le speculazioni di pensatori azzardati e di movimenti sociali di dubbia ispirazione” (O. Romero, Editoriale di Orientación, 15 ottobre 1974). Una fedeltà indiscussa, quindi, che sebbene da tempo gli procurasse conflitti nell’ambito ecclesiale locale – fortemente segnato dalla recente Conferenza di Medellín e dagli albori della Teologia della Liberazione – lo compensava però con una profonda pace interiore. Interiore al suo cuore e a quegli uffici curiali, da cui si allontanava il meno possibile. Durò poco. Appena cinque anni... poi sul muro della sua “cella interiore” iniziarono a profilarsi delle crepe: all’inizio quasi impercettibili, poi sempre più apparenti e minacciose. Cominciarono soprattutto a vacillare molti pregiudizi, nel sistema ben ordinato delle sue convinzioni. L’evento scatenante fu la nomina alla sede di Santiago de María (dicembre 1974), dove – in un rapporto finalmente diretto tra pastore e gregge – si scontrò tragicamente con la miseria: “con quei bambini che morivano per l’acqua che bevevano, con quei contadini maltrattati durante i raccolti” (M. Lopez Vigil, Mons. Romero. Frammenti per un ritratto, NdA, p. 111). Per lui tutto cambiò: nelle frequentazioni, nella pratica pastorale, nei rapporti con le istituzioni civili... uniche a resistere, incrollabili fino alla fine, la fede e la fedeltà alla Chiesa, entrambe però purificate e trasfigurate dal sangue dei poveri.
DISCONTINUITÀ NELLA CONTINUITÀ
Seguire l’evoluzione che le esperienze pastorali impressero al ministero di mons. Romero è un cammino obbligato – oltre che affascinante – per comprenderne la figura e cogliere come in lui profezia e istituzione abbiano potuto convivere, in modo a tratti doloroso, ma senza dicotomia o contraddizioni. Al contempo rappresenta una sfida, perché obbliga a vigilare costantemente per non cadere in nessuno dei diversi e opposti cliché che nel tempo si sono formati. A Santiago, dunque, arrivò un vescovo con idee molto chiare, quanto al proprio ruolo e all’impronta da imprimere alla Chiesa, come testimoniano i discorsi inaugurali e le iniziative dei primi mesi... a partire dalla cura per la formazione del clero, che oltre a essere il più scarso del paese era anche il più impreparato. Unica eccezione: i missionari passionisti, malvisti però da buona parte dei parroci e dall’aristocrazia locale per la loro opera di evangelizzazione congiunta alla promozione umana e sociale dei contadini. Saranno proprio due di loro, Zacarías Díez e Juan Macho, non solo a ricordare come all’inizio del 1975, il nuovo vescovo regalò a tutte le parrocchie l’abbonamento alla rivista dell’Opus Dei, “Palabra” – segno evidente delle sue simpatie e della direzione auspicata per il cammino diocesano – ma soprattutto ad accompagnarlo in quei due anni, fondamentali per la sua trasformazione. Il destino, infatti, o meglio lo Spirito attendeva mons. Romero sull’aia di un piccolo villaggio, “Tres Calles”, dove sei contadini furono brutalmente assassinati dagli agenti della Guardia nazionale, il 21 giugno 1975. Fu per lui un vero battesimo di sangue: la prima volta in cui dovette “andare a raccogliere cadaveri”, come in seguito definirà il proprio ministero e soprattutto guardare direttamente negli occhi i sopravissuti, per leggervi il dolore, il terrore e quell’impotenza che grida giustizia al cospetto di Dio. Allora si rese conto della complicità delle autorità nazionali – della cui buona fede non aveva ancora dubitato – ma anche della distanza, se non della connivenza, di ampi settori ecclesiali. Così quando, alcuni mesi dopo, dovette affrontare l’“affaire” del Centro Los Naranjos, gestito dagli stessi passionisti, accusati d’impartire “lezioni di comunismo” nelle ore di “realtà nazionale”, mons. Romero, dopo infinite indagini, consultazioni e sopralluoghi, si schierò con piena convinzione dalla loro parte, approvandone il metodo, tanto da nominare uno di loro, il p. Juan Macho vicario della pastorale diocesana. Impegnato com’era, si “dimenticò” persino di rinnovare quegli abbonamenti... In realtà stava cambiando a una velocità che forse nemmeno lui percepiva. Stava cambiando, però, per non cambiare e la sua era una discontinuità nella continuità: le trasformazioni esteriori, infatti, ben visibili nella prassi, erano profondamente motivate e radicate in quella stessa fedeltà a Dio e nella ricerca indiscussa della sua volontà, che lo avevano sempre caratterizzato. Per questo restava un radicale: come lo era stato prima in un senso, lo sarà dopo nell’altro. Ed è questo l’uomo che – perso di vista da tutti: amici e nemici – nel febbraio del 1977 divenne arcivescovo di San Salvador, nominato dal Vaticano, su richiesta pressante dell’aristocrazia locale.
LA CHIESA È IL POPOLO
Il cammino di mons. Romero era però irreversibile e – se ce ne fosse stato bisogno – lo sigillò definitivamente l’assassino di padre Rutilio Grande (12 marzo 1977), suo grande amico e direttore spirituale della maggior parte dei giovani sacerdoti salvadoregni. Non solo. Su richiesta del presbiterio, Romero decise che, la domenica successiva, in tutta la diocesi si sarebbe celebrata un’unica messa, nella cattedrale, partecipata da tutti, per esprimere l’unità della Chiesa in quel drammatico momento. Questo gli costò il primo grave scontro con il Vaticano e la disobbedienza della prelatura dell’Opus Dei che, per non costringere i propri addetti a mischiarsi con il popolo, celebrò nelle cappelle private. Al tempo stesso, però, aiutò l’arcivescovo ad aprire ulteriormente gli occhi su quelle connivenze che stavano favorendo i crimini più efferati. Di conseguenza, Romero non fu disposto a sacrificare il popolo per salvaguardare il simulacro di una fittizia unità ecclesiale, posto che quanto il Concilio Vaticano II aveva magistralmente insegnato da oltre un decennio, l’aveva finalmente imparato sul campo: la Chiesa altro non è che il popolo di Dio... e pertanto tutto ciò che minaccia la vita e la dignità del popolo, minaccia direttamente la missione della Chiesa. “La Chiesa non può tacere di fronte a queste ingiustizie di ordine economico, politico, sociale. Se tacesse, la Chiesa sarebbe complice... Questa è la voce della Chiesa, fratelli. E finché non le si permetterà di proclamare queste verità del suo Evangelo, ci sarà persecuzione. Si tratta di cose sostanziali, non di poca importanza. È questione di vita o di morte per il Regno di Dio, su questa terra” (omelia del 24 giugno 1977).
Per Romero dunque esiste piena identificazione tra missione della Chiesa e difesa della giustizia, tra ministero e profezia, tra la Chiesa e il popolo. Per lui “sentire con il popolo” è ormai l’unica via sicura per “sentire con la Chiesa” e rappresenta quella certezza definitivamente acquisita che lo porterà ad affrontare infinite traversie in patria, nello spazio di pochi mesi, ma soprattutto a subire incomprensioni e ostilità interne all’amata Chiesa, fino ai livelli più alti. Questo lo farà soffrire, terribilmente, ma non lo porterà mai ad accettare quelle posizioni che pretendevano di scomporre e contrapporre dall’interno la Chiesa, in comunità di base e gerarchia. Per Romero, infatti, la Chiesa è e non può che essere una e indivisa: quando soffre e quando insegna, quando serve e quando profetizza. Così nelle ultime ore del suo ministero possiamo assistere alla piena identificazione – nella sua persona – tra profezia e servizio istituzionale. “La Chiesa, difensora dei diritti di Dio, della Legge di Dio, della dignità umana, della persona, non può restare in silenzio di fronte a tanta abominazione… In nome di Dio, quindi, e in nome di questo popolo sofferente, i cui lamenti salgono fino al cielo ogni giorno più tumultuosi, vi supplico, vi prego, vi ordino in nome di Dio: cessi la repressione!” (omelia 23 marzo 1980).
Romero aveva ormai raggiunto la piena e definitiva consapevolezza che la sua parola non era soltanto l’estremo appello di un coraggioso profeta, ma l’autorevole voce della Chiesa che esegue il mandato ricevuto da Cristo: di lì a poche ore, lo sigillerà con il proprio sangue.