Cefalonia: isola di pace

7 maggio 2009 - Carlo Bolpin

Sono nato il 20 settembre 1943. L’ipotesi più probabile è che mio padre, il 22 settembre, sia stato catturato e subito ucciso assieme ad altri suoi compagni mentre stavano scendendo dal monte Risiguzzolo per tentare di ricongiungersi al Comando italiano, che pensavano stesse ancora riorganizzando la resistenza nella capitale. Almeno questo scrive don Ghilardini, il cappellano della Divisione Acqui, che per molti anni si è dedicato a cercare di ricostruire la sorte dei dispersi e gli stessi corpi degli oltre 5.000 soldati fucilati dopo la resa, buttati nelle cisterne, bruciati, lasciati insepolti preda degli animali. Aveva da poco festeggiato i 26 anni. Mia madre, morta a 90 anni, lo ha sempre aspettato. Come lui, la maggior parte dei soldati era molto giovane e non aveva mai combattuto. Erano stati mandati a presidiare le isole Ionie, occupate dai tedeschi venuti in aiuto dell’esercito italiano sconfitto dai greci.
Nell’ultima lettera, del 5 settembre, mio padre esprime la grande preoccupazione perché la nuova situazione, creatasi dopo il 25 luglio, avrebbe portato la guerra anche in quelle isole, fino ad allora “in pace”. Si intuisce che tra soldati e ufficiali discutevano il da farsi. Scrive solo che si sarebbero comportati con “onore”, nonostante l’ansia per la moglie e il figlio che doveva nascere in quei giorni.
Delle sue lettere e della mia storia familiare, racconto nelle scuole dove da alcuni anni mi chiamano per parlare di Cefalonia. Cerco di mostrare come la “grande” storia collettiva sia fatta di tante vicende e scelte personali. Come scrive Jedlowski (Memoria, esperienza e modernità, Franco Angeli), per trasmettere alle giovani generazioni occorre che la “barbarie” non sia “commemorata”, ma che sia posta entro la luce della vita privata, là dove essa “è più assimilabile all’esperienza del ragazzo”, che è così chiamato a confrontarsi con qualcosa “che si manifesta all’altezza della sua vita ordinaria”, e in qualche modo “lo riguarda”. Negli incontri vengono anche raccolti e confrontati i racconti fatti ai ragazzi da nonni e parenti. Più spesso si cerca di capire perché i più anziani non hanno voluto parlare della guerra. Anche l’oblio diventa tema di riflessione. Cerco di far capire come la rimozione non sia stato solo un processo individuale, ma sia stato “prodotto” e utilizzato per costruire un’altra memoria collettiva, parlando della mia personale esperienza. In realtà, per tanti anni, io, come molti reduci e familiari, abbiamo vissuto questa vicenda come un dolore intimo. Le celebrazioni ufficiali, con le autorità politiche, militari e religiose, erano un rito totalmente separato dai nostri drammi e da ogni tentativo di ricostruzione storica. Ricordo, fino agli anni ’50, l’uso propagandistico dei dispersi, che, veniva detto, erano stati fatti prigionieri dai russi, i perfidi comunisti che non lasciavano tornare i nostri cari eroi. Nulla veniva detto dell’azione dell’esercito tedesco, diventato ora nostro alleato. Anzi, ora sappiamo, i Ministri Martino e Taviani, avevano nascosto la documentazione nel cosiddetto “armadio della vergogna”, rifiutando di consegnarla agli stessi magistrati tedeschi, che avevano avviato una indagine su quel crimine di guerra.
Si attuò quindi una “monumentalizzazione” degli eroici soldati che avevano compiuto il loro dovere, obbedendo fino alla fine, come ogni soldato deve fare: una celebrazione priva della comprensione del contesto storico e della scelta fatta da quei soldati. Questo tipo di commemorazione ha così creato una “immagine” di quel fatto che ha favorito l’oblio della reale dimensione della decisione di non cedere le armi ai tedeschi e ai loro alleati fascisti. Molti degli stessi protagonisti solo da poco hanno diffuso le loro memorie, spesso spinti dall’esigenza di verità dei nipoti. Una nuova generazione infatti partecipa all’Associazione, portando una nuova domanda di testimonianza e riconoscimento pubblico. Merito è stato del Presidente Ciampi.
Solo con lui, infatti, quella memoria è diventata pubblica con il riconoscimento di quella scelta come primo atto della rinascita civile e morale dell’Italia, portata allo sfascio dal fascismo. Particolarmente importante è quanto affermato dal Presidente: “il conflitto non era più tra Stati, ma tra principi, tra valori”. “Educati” alla sottomissione, all’obbedienza cieca, alla retorica fascista della guerra e della superiorità della propria razza, ciascuna persona allora si trovò a decidere secondo coscienza, e si riappropriò della propria vita e della propria morte, come, anche simbolicamente, esprime l’atto del referendum promosso tra i soldati (unico nella storia di tutti gli eserciti). La totalità di quegli uomini scelse, in una condizione di isolamento, confusione e senza ordini. Ruppe con la passata ideologia etnica razziale, bellicista e violenta, rifiutò la guerra e la subordinazione all’ex alleato tedesco, contrariamente a quanto invece fecero coloro che aderirono alla Repubblica sociale di Salò.
Per reazione a questo modo corretto di collocare la vicenda e di attualizzarla, si ha ora un nuovo tipo di uso politico della memoria. Non c’è lo spazio per sviluppare le diverse forme di questo utilizzo, fatto da più parti nel passato e che ora viene ripreso da chi vorrebbe sminuire la Resistenza come fondamento della nostra Costituzione e pretende di distinguere tra una generica maggioranza di furbi (secondo il nostro caratteristico costume del “Tutti a casa”) e chi combatté in nome dei propri ideali, e si comportò con pretesa “uguale” dignità, sia pure in parti opposte.
Per fare chiarezza, le iniziative che stiamo facendo come sezione di Padova e Venezia dell’Associazione Reduci e Famiglie Caduti Divisione Acqui, intendono inserire questa vicenda in quella più generale dei militari italiani all’estero: dai molti episodi dimenticati di Resistenza fin subito dopo l’8 settembre; ai più di 650.000 soldati, che, totalmente abbandonati, seppero dire di no al nazismo e al fascismo di Salò, deportati e uccisi nei campi di lavoro e di concentramento, passati alla Resistenza organizzata nei paesi dove si trovavano; fino alla Resistenza civile diffusa nelle città e nelle campagne.
Siamo in collegamento con l’Associazione italo-greca”Mediterraneo” che cura nella capitale dell’isola il Museo della Divisione Acqui e che ha promosso “Cefalonia isola della pace”.
Con il Comune di Venezia si sta realizzando un programma per dare continuità all’opera di trasmissione della memoria. Nel 2007 alla Divisione Acqui è stato dedicato il piazzale del Parco Albanese della Bissuola di Mestre. All’interno degli “itinerari educativi” promossi dall’Assessorato all’educazione, sono realizzati incontri con gli studenti (ora 18 sono le classi coinvolte). In occasione delle iniziative per il “Giorno della Memoria”, con la Municipalità di Mestre, l’Istituto veneziano per la storia della Resistenza, il Centro culturale Candiani, abbiamo quest’anno promosso un incontro di studio su “La scelta della Divisione Acqui e la resistenza dei militari al nazismo”
Tutti questi soggetti stanno ora organizzando, a partire dal 28 febbraio, una mostra storico-documentaria, comprendente materiali di carattere nazionale – già predisposti dalla sezione dell’Associazione di Bologna e Ferrara- e una parte dedicata ai caduti e reduci del Veneto. Si intende così anche avviare la raccolta di lettere, foto, memorie, diari. La mostra, assieme ad una parte didattica, sarà particolarmente aperta alla partecipazione di gruppi di studenti ed insegnanti.
Non c’è quindi nessun tentativo di ricordare degli “eroi” dimenticati, ma si intende costruire un percorso per trasmettere alle giovani generazioni la consapevolezza che sempre uomini normali hanno la possibilità e il dovere di assumersi le proprie responsabilità, di decidere con la propria testa contro le ideologie totalitarie e le barbarie della guerra. Si vuole inoltre porre l’attenzione dei giovani e dei docenti sulle forme, anche oggi presenti, di manipolazione della storia, di uso politico ed ideologico della memoria e dell’oblio.

“Si può perdonare solo là dove non c’è stato oblio, là dove la parola è stata resa agli umiliati” (Ricoeur)

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