Quanto resta della notte?

Il Sud d’Italia oltre la retorica e gli stereotipi di meridionalismo patriottico, tra mafie, antimafia e crisi della democrazia.
Umberto Santino (Centro Impastato di Palermo)

Più che un’espressione geografica, un’idea fondata su un’analisi, il Sud è soprattutto una rappresentazione che indica arretratezza, sottosviluppo, emarginazione di intere aree del pianeta. I processi di globalizzazione hanno avuto una doppia faccia: da una parte hanno generato un supermercato di iperconsumo per pochi, dall’altra sono una fabbrica di esclusione per la maggioranza della popolazione mondiale.
Per quanto riguarda il Sud d’Italia riporto alcuni dati recenti: secondo il Rapporto SVIMEZ del 2008 il divario Sud-Centro Nord si è acuito. Il tasso di occupazione (rapporto tra occupati e popolazione tra 15 e 64 anni) è 46,5 nel Mezzogiorno, 65,4 nel Centro Nord. Il tasso di occupazione è in diminuzione in Campania, Basilicata, Calabria e Sicilia. Se si considera la cosiddetta “disoccupazione implicita”, formata da tutti coloro che neppure si presentano sul mercato del lavoro, il tasso di disoccupazione aumenta nel Sud di oltre 15 punti.
Il lavoro sommerso e irregolare si concentra soprattutto nel Mezzogiorno con 1 lavoratore su 5, meno della metà nel Centro Nord. Il PIL per abitanti è 17.483 euro, 57,5 per cento del prodotto pro-capite del Centro Nord, pari a 38.381 euro.
Le previsioni sugli sviluppi della crisi attuale dicono che la recessione si farà sentire di più nel Mezzogiorno. Secondo uno studio ISTAT dei giorni scorsi, il 5,3% della popolazione meridionale, cioè un milione di famiglie, ha problemi per il cibo, in Sicilia il 10,1% . Dall’inchiesta del “Sole-24 ore” sulla qualità della vita, pubblicata ogni anno in dicembre, risulta che le ultime dieci province sono tutte nel Sud. Per di più le risorse destinate al Mezzogiorno sono sottoposte a tagli consistenti: dal fondo per le aree sottoutilizzate sono stati tagliati 29 miliardi di euro, con il risultato che è in discussione la programmazione unitaria del periodo 2007-2013.

LA QUESTIONE MERIDIONALE
Il Mezzogiorno per molti anni è stato considerato “un paradiso abitato da demoni” (un’espressione vecchia di qualche secolo, ripresa da Croce). Alcune delle immagini con cui è stato rappresentato, per esempio il familismo amorale (Banfield), la mancanza di senso civico (Putnam), sono ancora vive. La reazione sbagliata a queste rappresentazioni è stata il sicilianismo e il meridionalismo patriottico, che negano mali radicati come la mafia e considerano qualsiasi critica come denigrazione.
Gli studi più recenti hanno cercato di veicolare l’immagine di un Sud liberato dagli stereotipi del meridionalismo, complesso e differenziato al suo interno. Qualche esempio: le riflessioni sul “pensiero meridiano” (Cassano e altri) che presentano il Sud come soggetto di pensiero e di storia e quelle che parlano di un “bisogno di Sud”, come antidoto alla mercificazione e alla macdonaldizzazione (Tonino Perna in sintonia con le analisi sulla decrescita).
Apprezzo queste riflessioni, ma preferirei una rappresentazione più articolata, che ricostruisca una storia composita, fatta di grandi mobilitazioni e di sconfitte, che ha portato alla configurazione dei rapporti di dominio e subalternità con adeguati aggiornamenti attuale ancora oggi e alla sedimentazione di una classe dirigente fondata sull’autoriproduzione e sul clientelismo. All’interno di questo quadro va collocata l’analisi della mafia e dell’antimafia.
Secondo l’ipotesi definitoria utilizzata e verificata nelle ricerche del Centro Impastato la mafia è un’organizzazione criminale che svolge attività illegali e legali finalizzate all’arricchimento e all’acquisizione e gestione di posizioni di potere, ha un suo codice culturale e agisce all’interno di un sistema di rapporti che danno vita a un blocco sociale transclassista, dominato dai soggetti illegali (capimafia) e legali (professionisti, imprenditori, amministratori, politici, rappresentanti delle istituzioni) più ricchi e potenti, definibili come borghesia mafiosa.
La sua forza sta soprattutto in questo sistema relazionale e la sua storia è un intreccio di continuità e trasformazione. Essa ha avuto un ruolo nella società a economia agraria, supportando i proprietari terrieri nello sfruttamento dei contadini e reprimendo con la violenza, legittimata dall’impunità, le lotte popolari, dai Fasci siciliani (1891-94) alla seconda guerra, con centinaia di migliaia di persone, comprese le donne, impegnate in una vera e propria lotta di liberazione, dissoltesi nell’emigrazione (un milione nei primi anni del Novecento, un milione e mezzo tra gli anni Cinquanta e Settanta).
Negli anni Cinquanta e Sessanta, in un’economia prevalentemente terziaria, la mafia si è configurata come “urbano-imprenditoriale” e “borghesia di Stato” accaparrandosi ingenti risorse pubbliche, dedicandosi alla speculazione edilizia e avviando i traffici internazionali prima di tabacco e poi di droghe. Negli ultimi anni si può parlare di “mafia finanziaria” per il ruolo sempre maggiore che ha assunto l’accumulazione illegale che ha acuito la competizione interna (guerra di mafia 1981-83) e aggravato la violenza esterna con la lievitazione della richiesta di spazi economici e di potere e l’eliminazione di personaggi che ostacolavano il processo di espansione.
Dopo i grandi delitti e le stragi c’è stata una forte repressione e oggi possiamo dire che gran parte degli affiliati alle famiglie mafiose sono in carcere, però l’accumulazione illegale, soprattutto di organizzazioni similari come la ‘ndrangheta calabrese, che ha ricevuto meno colpi, è in crescita e i rapporti con la politica, nonostante i tentativi di sanzionarli con i processi per “concorso esterno”, sono sempre forti. Il voto in Sicilia per Cuffaro, condannato per favoreggiamento, e in Lombardia per Dell’Utri, condannato per concorso, sono la prova che nonostante le condanne questi personaggi godono di un ampio consenso, nei loro partiti e presso l’elettorato.

SOCIETÀ MAFIOGENA
Come spiegare tutto ciò? Nei miei studi ho parlato di “società mafiogena”. Che vuol dire? Certamente non si tratta di una criminalizzazione in blocco, della Sicilia e dell’intero Mezzogiorno. Vuol dire che c’è un contesto sociale che presenta alcuni caratteri: l’accettazione di buona parte della popolazione della violenza e dell’illegalità come mezzi di sopravvivenza e canali per l’acquisizione di un ruolo sociale, l’esiguità dell’economia legale, la rappresentazione dello Stato e delle istituzioni come lontani, estranei e collusi con i gruppi mafiosi, la mancanza di memoria delle lotte precedenti, di cui rimane solo o soprattutto il peso delle sconfitte, la fragilità del tessuto di società civile, la diffusione di una cultura della sfiducia, una vita quotidiana dominata dalla frammentazione e dall’aggressività.
Questi caratteri che concorrono alla riproduzione del fenomeno mafioso prima erano presenti in società circoscritte oggi si ritrovano nella scena mondiale, dopo il crollo del “socialismo reale” e con l’impatto dei processi di globalizzazione che hanno un duplice effetto criminogeno: l’aumento degli squilibri territoriali e dei divari sociali emargina quasi l’80 per cento della popolazione che ha come unica o principale risorsa l’accumulazione illegale gestita da professionisti del crimine in forme più o meno assimilabili al modello mafioso; i processi di finanziarizzazione dell’economia rendono sempre più difficile distinguere capitale legale e illegale, per cui le mafie proliferano sia nelle periferie che nei centri.
Negli ultimi decenni, dopo la dissoluzione del movimento contadino, l’impegno antimafia è stato assunto soprattutto da organizzazioni della “società civile”, termine che indica l’associazionismo al di fuori del quadro istituzionale, anche se il rapporto con le istituzioni è inevitabile, a cominciare dall’approvvigionamento finanziario, troppo spesso legato a schemi personalistici e clientelari.
La mobilitazione antimafia, con il coinvolgimento di un numero consistente di persone, è stata precaria e sporadica, dettata dall’emozione e dallo sdegno suscitati dai grandi delitti e dalle stragi, ma ci sono state e ci sono iniziative continuative su vari fronti. In prima fila sono le scuole, che coniugano prassi istituzionali e impegno volontario, con le attività di “educazione alla legalità” che, però, sono al di fuori dei programmi curricolari e risentono di un eccesso di formalismo e di astrattezza. Il Centro Impastato, che interviene nelle scuole dai primi anni Ottanta, ha cercato soprattutto di fornire ai docenti alcuni strumenti per chiarire che non si tratta del mero rispetto della legalità, ma di acquisire una visione critica che guardi ai contenuti e alla rispondenza con i valori della Costituzione e della democrazia.
Il movimento antiracket vede attualmente all’opera circa 110 associazioni con alcune migliaia di soci in tutta Italia, quasi tutte al Sud, mentre estorsioni e usura sono ormai diffuse sul territorio nazionale, con un Centro Nord in cui prevale la cultura leghista della difesa personale e delle ronde.
L’uso sociale dei beni confiscati ha dato vita a qualche decina di cooperative, soprattutto nelle regioni meridionali, con qualche centinaio di soci. I beni sono ancora pochi e i tempi per l’assegnazione troppo lunghi. A Palermo le lotte dei senzacasa sono riuscite a ottenere l’assegnazione di case confiscate ai mafiosi, portando sul fronte antimafia settori di strati popolari. Tutte queste esperienze sono preziose ma minoritarie.
L’informazione libera ha strumenti inadeguati e spesso è minacciata, come nel caso di giornalisti e di TeleJato. Considero una pesante intimidazione alla libertà di ricerca le citazioni in sede civile contro di me per il libro L’alleanza e il compromesso e contro Claudio Riolo per un articolo su una rivista, che si sono concluse con condanne a pene pecuniarie. La campagna per la libertà di ricerca in tema di mafia ha portato alla costituzione di un fondo che ci ha consentito di affrontare le spese giudiziarie ma le proposte di sottrarre all’autorità giudiziaria le cause per diffamazione a mezzo stampa affidandole a un giurì d’onore e di sostituire le pene pecuniarie con altre misure, come le repliche e le precisazioni, sono rimaste sulla carta. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha recentemente condannato lo Stato italiano che non ha rispettato il diritto di critica di Riolo, un’inversione di tendenza significativa il cui impatto sulla legislazione e sulla giurisprudenza italiana è tutto da vedere.
Manca un progetto complessivo, ma questa non è una specificità dell’antimafia, è il carattere delle mobilitazioni del nostro tempo che si svolgono in un contesto che spesso rema contro.
In questo quadro dovremmo dire qualcosa sul ruolo della Chiesa cattolica: Nelle varie fasi del movimento contadino, tranne poche eccezioni, come Sturzo e i preti sociali, di cui due, Costantino Stella e Stefano Caronia sono stati uccisi dalla mafia, la Chiesa stava dall’altra parte, poiché alla testa delle lotte c’erano socialisti e comunisti. È nota la figura del cardinale Ruffini che riteneva la strage di Portella della Ginestra del primo maggio 1947 una reazione a un’inesistente violenza dei comunisti e polemizzava con il pastore valdese Panascia. Negli ultimi anni le prese di posizione del card. Pappalardo, di papa Giovanni Paolo II, l’impegno di alcuni preti hanno portato aria nuova, ma le riflessioni sulla mafia come “struttura di peccato” e “peccato sociale” sono rimaste allo stato embrionale.

IL CONTESTO
L’attuale quadro politico-istituzionale è desolante. Le forze di centro-destra non hanno nessuna cultura liberal-democratica e quelle di centro-sinistra sono deboli e alcune vicine alla sparizione. Già nel 1994 Giuseppe Dossetti in un intervento che riprendeva il verso di Isaia “Sentinella, quanto resta della notte?” dava l’allarme. Rileggiamo le sue parole: un diritto costituzionale regredito a diritto commerciale (ma potremmo dire privato, anzi individuale), il politico ridotto a contrattazione economica, le riforme costituzionali ispirate da uno spirito di sopraffazione e di rapina, il dissolversi di ogni legame comunitario mascherato dietro l’appello al federalismo, il prevalere di una forte emotività imperniata sulla figura del grande seduttore, la trasformazione di una casa economico-finanziaria in signoria politica. Oggi possiamo dire che la notte era appena iniziata. Viviamo una profonda crisi della democrazia e della politica, con un forte rischio di imbarbarimento della vita civile, segnata dalla aggressività nei confronti dei più deboli, a cominciare dagli immigrati e dalle donne.
La retorica della legalità si coniuga con la legalizzazione dell’illegalità. La Costituzione, nata come patto culturale e politico tra realtà diverse accomunate dall’antifascismo, è attaccata e rischia di essere archiviata e svuotata. L’ostentato bigottismo di molti personaggi politici, atei-devoti che godono della solidale confidenza di rappresentanti del clero cattolico, convive con il collasso dell’etica pubblica e privata, con una esaltazione della competizione con tutti i mezzi e del successo a ogni costo che ha nel berlusconismo il modello e l’icona.
Tempo fa scriveva un altro “profeta disarmato”, Ernesto Balducci: “Siamo i giganti della tecnica e i nani dell’etica”. Gli esempi più preoccupanti sono a portata di mano: il respingimento e la criminalizzazione degli immigrati, il ritorno del razzismo, il fondamentalismo identitario che si veste di integralismo religioso e proclama un cristianesimo da crociata, la parola alle armi: la guerra dei ricchi e il terrorismo degli altri. Per uscire da questo contesto avremmo bisogno, per usare una parola del vocabolario cristiano, di una metànoia, cioè di una ridefinizione dell’etica privata e pubblica. Una sfida aperta di cui non possiamo nasconderci le difficoltà e che richiede una rottura radicale. Come quella con il padre di Peppino Impastato.

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