Sui sentieri di Isaia
In un Paese come il nostro, in cui da tempo è prevalsa la pessima abitudine di leggere ogni avvenimento in chiave politica, riducendo a scontro ideologico di basso profilo persino le questioni eticamente più rilevanti e umanamente più delicate, è difficile, molto difficile, che quanto concerne la vita di un movimento, le sue dinamiche, alcune tappe, gli slanci più sentiti e le relative prese di posizione, possano fare eccezione. Soprattutto – e si può capire – quando alcuni eventi, decisivi per una valutazione del cammino percorso e propulsori di nuovi slanci futuri, ne mutuano la terminologia e in parte anche il modello organizzativo.
Così, nel nostro caso, già il semplice parlare di “congresso” rischiava di indurre, per quanto involontariamente, un’interpretazione distorta di quanto desideravamo realizzare, con il rischio che la ricchezza insita nella molteplicità delle sensibilità, degli interessi e anche dei carismi (per usare un termine caro alla tradizione biblica), anziché essere percepita quale dono dello Spirito, venisse sbrigativamente ridotta alla logica di un mero scontro tra opposte “correnti”, foriere di chissà quali interessi. Ebbene, negli ultimi mesi, preparandoci al congresso che Pax Christi Italia avrebbe celebrato a Pinarella di Cervia (RA), dal 24 al 26 aprile u.s., non ci siamo nascosti che tale fraintendimento avrebbe potuto condizionare la lettura di molti che, pur in buona fede, leggevano il nostro percorso dall’esterno. Di più: eravamo consapevoli che tale rischio avrebbe potuto condizionare il nostro stesso approccio, schiacciandoci su questioni tutto sommato secondarie, mentre non dubitavamo che il desiderio comune fosse piuttosto quello di camminare spediti, sui “sentieri di Isaia”. D’altra parte, fu proprio don Tonino, in occasione dell’incontro di Roma del 1989, a rammentarci che il termine congresso significa appunto “andare insieme” e questo sia possibile soltanto nella misura in cui sia stato preceduto da un vero convegno, un convenire: vale a dire, un “venire insieme”. Un venire, non dallo stesso luogo, fisico o ideale, ma dalle nostre città, dai nostri villaggi, dai nostri ambiti di appartenenza, dalle nostre infinite – piccole e grandi – originalità.
UN PICCOLO CONCILIO
Solo così si può realizzare un’autentica “Convivialità delle differenze”, contro ogni pericolo di omologazione su piattaforme precostituite. La sfida era grande, ma corrispondeva esattamente a ciò che volevamo fare. In una società ormai globalizzata, dove ogni giorno il pensiero unico sembra avere la meglio e spesso, da qualsiasi parte si guardi, il linguaggio si riduce a gergo che insidia la polifonia delle voci, riducendole a poche manciate di slogan, nostro desiderio era di prepararci a vivere un appuntamento che fungesse piuttosto da laboratorio, per noi e per gli altri. Non solo. Forse con un pizzico di presunzione, lo sognavamo come un “piccolo concilio”. Per questo, l’icona ispiratrice è stata quella comune – perlomeno così dovrebbe essere – da oltre quarant’anni, a tutta la Chiesa: il Concilio Vaticano II; e il tema prescelto conteneva anzitutto una forte indicazione di metodo: “Concilio, stile di Chiesa e di vita”. Partendo da questa ispirazione, abbiamo voluto metterci in ascolto della Parola e dei testimoni; così, per tutto il tempo dei lavori, “al piano superiore” abbiamo riservato un angolo silenzioso per la preghiera, dove a turno – soprattutto nelle ore serali e notturne – qualcuno vegliava, intercedendo come Mosè “per tutto il popolo”. “Il popolo di Dio” è stato appunto uno dei temi ispiratori del congresso, per i quali avevamo chiesto alla biblista Rosanna Virgili e al filosofo Roberto Mancini una relazione introduttiva, che disegnasse la cornice e fungesse da stimolo per le successive riflessioni.
L’entusiasmo che si percepiva la sera ci fece immediatamente capire che non soltanto la grande professionalità dei relatori, ma anche lo stile diretto e appassionato con cui avevano affrontato il tema, ci avevano permesso di partire nel migliore dei modi. Questioni come la “conciliarità quale metodo permanente di lavoro all’interno della Chiesa e tra le Chiese” e “la laicità come scelta, nella comune condivisione del sacerdozio battesimale” ci avrebbero aiutato ad affrontare la questione della nostra appartenenza ecclesiale, superando la superficialità di facili contrapposizioni tra esperienze di base e ministeri gerarchici. Nella consapevolezza cioè che all’interno del popolo di Dio – o meglio: di quella porzione di popolo che è la Chiesa – gli uni hanno necessariamente bisogno degli altri, perché – piaccia o dispiaccia – nessun ministero può pretendere di esaurire compiutamente la realtà ecclesiale. Da questa consapevolezza riceve più slancio anche la dimensione profetica, tanto più forte perché non si riduce a semplice denuncia o rivendicazione, ma viene compresa quale forma alta di carità e servizio, di tutti e verso tutti.
TESTIMONI FEDELI
Come già emergeva da alcuni contributi precongressuali: “la parola profezia è stata usata-abusata. Secondo noi, è bene evitare una profezia cupa e ringhiosa. Per essere credibile, la profezia deve essere mite e sobria, pronta alla conversione permanente e al servizio evangelico, fiduciosa, amica della speranza”. E se ancora ce ne fosse stato bisogno, una sicura conferma della bontà di queste intuizioni ci è infine venuta da due testimonianze, che al di là dell’indiscussa autorevolezza, godevano di un grande valore aggiunto, sul piano emozionale e affettivo. La prima di don Tonino, grazie a due raccolte di filmati, proiettati in momenti diversi; l’altra di mons. Bettazzi, in qualità di presidente emerito di Pax Christi Italia e internazionale, ma soprattutto quale testimone qualificato dell’esperienza conciliare. Forti di tali stimoli, siamo perciò entrati nella seconda fase dei lavori, che nella giornata di sabato 25 aprile hanno impegnato l’assemblea con la plenaria del mattino e i lavori di gruppo pomeridiani.
Questi, per espressa volontà del Consiglio nazionale uscente, ricalcavano i 5 ambiti di lavoro in cui è strutturata Pax Christi internazionale e cioè: Disarmo e smilitarizzazione; Sviluppo umano ed economia di giustizia; Diritti umani e stato di diritto; Chiese, religioni e conflitti; Aree internazionali. L’auspicio era che anche il lavoro futuro della sezione italiana venisse strutturato secondo questa suddivisione e, di fatto, una mozione approvata all’unanimità ha impegnato il nuovo Consiglio a istituire le relative commissioni. A tale proposito, la presenza della nuova segretaria internazionale, Claudette Antoine Werleigh, si è rivelata preziosa nell’aiutarci a comprendere (o a riscoprire) l’importanza di un lavoro comune tra le diverse sezioni sparse nel mondo. Il Congresso si è, quindi, concluso con l’adempimento degli obblighi statutari e soprattutto con l’elezione dei coordinatori interregionali e del nuovo Consiglio nazionale. Ai nuovi consiglieri sono state affidate le mozioni, nelle quali l’Assemblea ha sintetizzato le riflessioni maturate nel corso degli ultimi mesi, nei gruppi e nel congresso stesso. Saremo pertanto riusciti a compiere quanto ci eravamo proposti? È presto per dirlo. Per quanto importante, un congresso è pur sempre uno spazio fugace, in cui dar forma ai sogni più arditi e sinceri. Il resto viene dopo. Cioè adesso. Adesso dobbiamo realizzare quanto ci siamo proposti e fra quattro anni potremo valutarlo. Di certo, segni (concreti) di speranza non mancano. Uno per tutti: su quindici consiglieri, nove sono donne. Anche questa è profezia: per la Chiesa e per il mondo.