USA

Nuovi orizzonti per l’impero

Le promesse di Obama ai musulmani e l’apertura al pluralismo religioso e culturale.
Adnane Mokrani (Teologo musulmano)

Il discorso del Presidente statunitense, Barak Hussein Obama, indirizzato ai musulmani, rappresenta un salto di qualità nello stile e nel contenuto, paragonato con i discorsi dei suoi predecessori e con la solita monotonia diplomatica. Quello che mi ha colpito di più nel discorso è la capacità di investire nel pluralismo e nella diversità del suo Paese e della sua persona.

UN PAESE MULTUCULTURALE
Gli Stati Uniti sono un Paese multireligioso e multietnico, fiero di esserlo, così come ha confermato Obama nel suo discorso inaugurale: “Siamo un Paese di cristiani, musulmani, ebrei e indù – e di non credenti; scolpiti da ogni lingua e cultura, provenienti da ogni angolo della terra”.
Obama stesso è un incrocio di religioni e culture. Egli stesso afferma al Cairo: “Sono cristiano, ma mio padre era originario di una famiglia del Kenya della quale hanno fatto parte generazioni intere di musulmani. Da bambino ho trascorso svariati anni in Indonesia, e ascoltavo al sorgere del Sole e al calare delle tenebre la chiamata dell’azaan (l’appello alla preghiera islamica). Quando ero ragazzo, ho prestato servizio nelle comunità di Chicago presso le quali molti trovavano dignità e pace nella loro fede musulmana”.
Le sue parole rappresentano un segnale che aiuta molto l’integrazione dei musulmani nella società statunitense e rappresenta una risposta positiva al sostegno che ha avuto Obama nella sua campagna elettorale da parte islamica, soprattutto dagli afro-americani musulmani. Warith Deen Mohammed, il leader moderato di The Muslim American Society, ha espresso il suo appoggio a Obama in modo esplicito nella sua ultima intervista rilasciata a Islamica Magazine, prima della sua scomparsa il 9 settembre 2008: “Ringraziamo Dio per lui, Alhamdulillah. Anche se non diventerà presidente – ma credo fortemente che lo diventerà – il suo successo ha già mandato segnali forti alle nostre anime e ai nostri sentimenti”. Louis Farrakhan, il leader dell’organizzazione rivale, The Nation of Islam, definì Obama “la speranza del mondo intero”, aggiungendo: “Un uomo nero da madre bianca è diventato un salvatore per noi”, in un tono messianico forte.
Nel discorso di Obama al mondo musulmano si nota anche la capacità di apprezzare l’altro e vedere in lui elementi di bellezza e verità, riconoscendo il ruolo dell’Islam nello sviluppo della civiltà umana, senza temere di indebolire la propria identità; anzi, quei stessi elementi diventano una base su di cui si può costruire insieme una vera pace fondata sul rispetto e sulla cooperazione. Obama ha saputo anche usare con gran rispetto i simboli religiosi islamici come il saluto assalaamu alaykum e le citazioni del Corano, scegliendo di parlare dal Cairo dove si trova Al-Azhar, una delle più antiche istituzioni islamiche.
Riconosciamo in lui un impegno solenne di lottare contro tutte le manifestazioni dell’islamofobia: “Ritengo che rientri negli obblighi e nelle mie responsabilità di presidente degli Stati Uniti lottare contro qualsiasi stereotipo negativo dell’Islam, ovunque esso possa affiorare”. Di solito questo impegno è lasciato alle associazioni impegnate nel campo del dialogo interreligioso, ma non ho mai sentito, nei limiti della mia conoscenza, che un uomo politico di questo livello facesse una promessa del genere.
Un altro punto essenziale è l’autocritica, che incoraggia il suo interlocutore a fare lo stesso, per poter così incominciare insieme un nuovo inizio. È un ideale senza idealismo né buonismo, ma che, al contrario, esprime una visione pragmatica che guarda agli interessi supremi degli Stati Uniti come prima potenza mondiale.
La pace e il dialogo servono di più gli interessi americani di quanto lo faccia la guerra e il dominio schiacciante.

LE REAZIONI
La reazione del mondo islamico è stata generalmente positiva: ad esempio, il vice-presidente dell’unione internazionale degli ulema musulmani e uno dei firmatari della lettera dei 138, lo Shaykh mauritano Abdallah Bin Bayyah, lo descrive nel suo sito ufficiale come “un discorso storico che può diventare un nuovo inizio se si trasformasse in un programma”, aggiungendo che il discorso “sembra di rappresentare una volontà sincera del cambiamento, se non politico, è almeno psicologico”.
Radwan A. Masmoudi, il fondatore e il presidente di the Center of the Study of Islam & Democracy (CSID), a Washington, in un dibattito sul contenuto del discorso organizzato con the Project on Middle East Democracy (POMED), esprime la sua soddisfazione per il fatto che Obama ha menzionato la necessità della democrazia e dei diritti umani nei Paesi a maggioranza islamica, ma avverte che “i popoli della Regione aspetterebbero una politica concreta che segue le sue parole”.
Il punto che suscita più perplessità da parte di alcuni musulmani (e non) è la capacità dell’amministrazione Obama di contribuire a una soluzione pacifica al conflitto israelo-palestinese: “Sia dunque chiara una cosa: la situazione per il popolo palestinese è insostenibile. L’America non volterà le spalle alla legittima aspirazione del popolo palestinese alla dignità, alle pari opportunità, a uno Stato proprio”.
Un’altra promessa solenne che, però, non si sa esattamente come possa essere messa in pratica. Noam Chomsky commenta, giustamente, l’appello di Obama al governo israeliano di congelare ogni attività di colonizzazione, cioè la prima fase del Road Map, “anche se Israele accettasse la fase 1, tutte le colonie [fatte in precedenza] rimarrebbero comunque al loro posto. Ed è proprio grazie a questi insediamenti che Israele mantiene il controllo sulla valle del Giordano e sulle preziose terre comprese all’interno dell’illegale muro di separazione. I palestinesi si trovano così ingabbiati in un territorio limitato, che viene poi frammentato in cantoni dall’incessante espansione verso est degli insediamenti” (Internazionale, n. 799). Questo è solamente un lato del complesso problema, senza parlare della questione di Gerusalemme, dei rifugiati, delle divisioni tra i palestinesi, la salita della dell’estrema destra israeliana ecc...
Come farà Obama?!
Sul fronte afghano, Obama ribadisce che “noi non vogliamo che le nostre truppe restino in Afghanistan. Non abbiamo intenzione di impiantarvi basi militari stabili”. E già una premessa positiva, ma come si può giustificare i così detti “danni collaterali”, in parole povere i civili, tra cui donne e bambini, uccisi nei bombardamenti contro i talebani sia in Afghanistan sia dentro la zona tribale pakistana? Avvenimenti che si pensava superati dall’eredità dell’amministrazione Bush.
Personalmente non so fino a che punto un uomo possa cambiare un sistema o il destino di un Paese – anzi di un impero – ma quello che ha detto Obama nel suo discorso è un grande segno di speranza e di riconciliazione, che conferma non solo che “America e Islam non si escludono a vicenda”, ma anche politica, etica e buon senso.
Per il momento ci accontentiamo dell’effetto “psicologico” del discorso di Obama, nella speranza che le promesse si realizzino, con una partecipazione attiva da parte nostra perché Obama non è il Messia.

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