ULTIMA TESSERA

Non solo braccia

Le nuove tendenze legislative nei confronti dei migranti: il parere della magistratura.
Livio Pepino (Magistrato, componente del Consiglio Superiore della Magistratura)

L’escalation della normativa contro i migranti prosegue. Un decennio di ottuso proibizionismo, accompagnato dalla convinzione di poter “importare braccia” anziché accogliere persone, non ha impedito né limitato l’immigrazione. Semplicemente – come tutti sapevano e sanno – ha aumentato a dismisura le situazioni di irregolarità (parzialmente superate solo a seguito di ben quattro sanatorie, per complessivi due milioni di migranti), le sofferenze di donne e di uomini, le difficoltà di integrazione. Il “braccio armato” per fronteggiare (o fingere di fronteggiare) tale situazione è stato, all’inizio, il trattenimento di una quota di irregolari nei Centri di permanenza temporanea, cioè una detenzione in assenza di reato, sconosciuta al moderno Stato di diritto. Ma anche questo non è bastato, non poteva bastare. Così viene ora messo in campo l’armamentario del diritto penale: non contro il migrante che delinque (cosa da sempre prevista e del tutto ovvia) ma contro il migrante in quanto tale. Con l’introduzione del reato di “immigrazione irregolare” in una situazione di sostanziale chiusura degli ingressi, infatti, è il migrante che diventa reato. Ciò – va detto senza mezzi termini – non ha nulla a che vedere con un governo razionale e lungimirante della immigrazione, della quale non vanno ignorati i problemi ma che non può essere esorcizzata: nell’interesse di tutti, dei migranti come degli autoctoni.
Eppure, a proposito della proposta introduzione del reato di immigrazione irregolare, c’è chi minimizza e dice che avrebbe potuto andar peggio, in considerazione del fatto che, nel corso dell’iter parlamentare, si è abbandonata l’ipotesi di prevedere tale situazione come delitto e ci si è limitati a considerarla una contravvenzione punita con la sola ammenda. È una impostazione riduttiva e sbagliata. Il nuovo reato tutto è meno che un proclama dalle armi spuntate (poco più che un “buffetto”...). Esso è, al contrario, la tessera fondamentale di un mosaico inquietante. È vero, infatti, che il reato prevede esclusivamente l’ammenda, ma: a) la pena pecuniaria si aggiunge alla detenzione amministrativa, potenzialmente prorogabile fino a sei mesi e suscettibile di una pluralità di applicazioni (che sempre più si configura come sanzione della irregolarità più che come strumento per rendere possibile l’espulsione); b) l’esistenza del reato vale a legittimare, a fronte degli altrimenti evidenti profili di incostituzionalità, la cosiddetta aggravante della irregolarità, introdotta con la legge n. 125/2008, in forza della quale ove un reato sia commesso da uno straniero privo di titolo di soggiorno la pena è aumentata di un terzo (con conseguente significativo aumento del carcere per la sola condizione di “irregolarità”); c) la criminalizzazione dello status di irregolare porta con sé conseguenze gravissime per la vita del migrante privo di titolo di soggiorno, tra cui la assoluta impossibilità di sanare la propria posizione anche in caso di sopravvenienza delle condizioni che astrattamente lo consentirebbero, la sostanziale preclusione all’accesso in concreto ad alcuni servizi pubblici essenziali (anche in tema di sanità) dato l’obbligo di denuncia gravante sul pubblico ufficiale che tali servizi deve rendere, l’impossibilità di contrarre matrimonio e, addirittura, di riconoscere i figli essendo richiesta, per il compimento di tali atti, l’esibizione all’ufficio dello stato civile del titolo di soggiorno; d) al reato si accompagna una serie di previsioni accessorie in punto espulsione tali da impedire di fatto ogni reale opposizione o difesa al riguardo.
Dunque, non solo reato di immigrazione clandestina ma sistema complesso e coerente teso a realizzare una condizione permanente di inferiorità del migrante irregolare: considerato a ogni effetto un delinquente, assoggettabile ad libitum a detenzione amministrativa per mesi, privato della possibilità di regolarizzare la propria posizione, espropriato di alcuni diritti fondamentali (riconosciuti, come tali, a tutti e non ai soli cittadini). Così si porta a compimento il disegno di considerare il migrante un nemico da temere e da cacciare e, ove ciò non sia possibile (sappiamo tutti – e il Governo per primo – che l’immigrazione non si cancella con le espulsioni...), un cittadino inferiore, titolare di diritti dimezzati. Inutile dire che entrambi i profili hanno ricadute drammatiche sul sistema complessivo. Anzitutto, considerare il migrante come nemico ha un effetto devastante, descritto in maniera icastica da Primo Levi (matricola numero 174.517 del lager di Auschwitz) in Se questo è un uomo: “A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che ogni straniero è nemico. Quando questo avviene, allora, al termine della catena sta il lager…”. In secondo luogo, la inferiorizzazione del migrante comporta una grave torsione del sistema democratico e delle regole della convivenza. La modernità ha come segno caratterizzante, nel diritto, l’uguaglianza dei cittadini, scolpita nella costituzione francese del 1793 (portato della rivoluzione borghese), il cui art. 4 prevede che “è cittadino francese, al pari dei nati in Francia, ogni straniero che, domiciliato in Francia da un anno, vi viva del suo lavoro, o acquisti una proprietà, o sposi una cittadina francese, o adotti un bambino, o mantenga un vecchio o sia giudicato da Parlamento aver ben meritato nei confronti dell’umanità”.
La nuova condizione giuridica dello straniero ci riporta a situazioni premoderne caratterizzate da un doppio livello di cittadinanza, come quella dell’antica Atene in cui la piena partecipazione dei cittadini era assicurata dalla mancanza di diritti dei meteci.
V’è, dunque, molto su cui riflettere. E non solo per i migranti o per le anime belle...

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