Testimonianze

Shirin Ebadi: “Di sicuro non vengono per me”*

1979 Iran Rivoluzione e fondamentalismo - Shirin Ebadi
29 giugno 2009

[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59@libero.it ) per averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente brano estratto dal libro Il risveglio dell’Iran: un memoriale della rivoluzione e della speranza, di Shirin Ebadi e Azadeh Moaveni, The Random House Publishing Group, 2006; scrive la traduttrice in una nota di presentazione: “In un’intervista alla Bbc del 1999, la futura premio Nobel per la pace disse: ‘Ogni persona che lavori per i diritti umani in Iran deve vivere con la paura dalla nascita alla morte, ma io ho imparato a sconfiggere la mia paura’; in questo estratto dal terzo capitolo del libro citato, Ebadi racconta come lentamente comprese che i nuovi leader della rivoluzione l’avrebbero estromessa dal suo impiego in magistratura”.

Iran Shirin Ebadi, giurista iraniana, già magistrata, impegnata nella difesa dei diritti umani, premio Nobel per la pace nel 2003. Riportiamo di seguito alcun stralci da un articolo di Sara Sesti già riprodotto su questo foglio:
“Il 9 ottobre 2003 è stato assegnato a Oslo il Nobel per la pace all’iraniana Shirin Ebadi, 56 anni, avvocata, madre di due figlie. Il premio le è stato conferito “per il suo impegno nella difesa dei diritti umani e a favore della democrazia. Si è concentrata specialmente sulla battaglia per i diritti delle donne e dei bambini”. Ebadi è l’undicesima donna a vincere il Nobel per la pace, da quando il riconoscimento è stato istituito nel 1903, ed è la prima musulmana. Shirin Ebadi, nata nel 1947, è stata la prima donna nominata giudice prima della rivoluzione. Laureata in legge nel 1969 all’Università di Teheran, è stata nominata presidente del tribunale dal 1975, ma dopo la rivoluzione del 1979 è stata costretta a dimettersi per le leggi che limitarono autonomia e diritti civili delle donne iraniane. Con l’avvento di Khomeini al potere infatti venne decretato che le donne sono troppo emotive per poter amministrare la giustizia. Avvocato, ha difeso le famiglie di alcuni scrittori e intellettuali uccisi tra il 1998 e il 1999. È stata tra i fondatori dell’Associazione per la protezione dei diritti dei bambini in Iran, di cui è ancora una dirigente. Nel 1997 ha avuto un ruolo chiave nell’elezione del presidente riformista Khatami. È stata avvocato di parte civile nel processo ad alcuni agenti dei servizi segreti, poi condannati per aver ucciso, nel 1998, il dissidente Dariush Forouhar e sua moglie. Nel 2000 ha partecipato a una conferenza a Berlino sul processo di democratizzazione in Iran, organizzata da una fondazione vicina ai Verdi tedeschi, che provocò grande clamore e la pronta reazione dei poteri conservatori a Teheran, che arrestarono diversi dei partecipanti al loro ritorno in Iran. Perseguitata a causa delle indagini che stava svolgendo, nel 2000 è stata sottoposta a un processo segreto per aver prodotto e diffuso una videocassetta sulla repressione anti-studentesca del luglio 1999, materiale che secondo l’accusa ‘disturbava l’opinione pubblica’. Arrestata, ha subito 22 giorni di carcere. Il Comitato del Nobel è lieto di premiare ‘una donna che fa parte del mondo musulmano’, si legge nella motivazione del premio che sottolinea come Ebadi ‘non veda conflitto fra Islam e i diritti umani fondamentali’. ‘Per lei è importante che il dialogo fra culture e religioni differenti del mondo possa partire da valori condivisi’, prosegue il comitato, la cui scelta appare particolarmente mirata in un contesto storico di tensioni fra Islam e Occidente. ‘La sua arena principale è la battaglia per i diritti umani fondamentali, e nessuna società merita di essere definita civilizzata, se i diritti delle donne e dei bambini non vengono rispettati’ prosegue la nota. ‘È un piacere per il comitato norvegese per il Nobel assegnare il premio per la pace a una donna che è parte del mondo musulmano, e di cui questo mondo può essere fiero, insieme con tutti coloro che combattono per i diritti umani, dovunque vivano’”.

Su Shirin Ebadi cfr. anche i profili scritti da Giuliana Sgrena e Marina Forti apparsi nei nn. 701 e 756 di questo foglio.
Maria G. Di Rienzo è una delle principali collaboratrici di questo foglio; prestigiosa intellettuale femminista, saggista, giornalista, narratrice, regista teatrale e commediografa, formatrice, ha svolto rilevanti ricerche storiche sulle donne italiane per conto del Dipartimento di Storia Economica dell’Università di Sydney (Australia); e’ impegnata nel movimento delle donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarietà e in difesa dei diritti umani, per la pace e la nonviolenza. Tra le opere di Maria G. Di Rienzo: con Monica Lanfranco (a cura di), Donne disarmanti, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2003; con Monica Lanfranco (a cura di), Senza velo. Donne nell’islam contro l’integralismo, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2005]

Il cosiddetto “invito” a mettere la sciarpa in testa fu la prima avvisaglia del fatto che la rivoluzione poteva divorare le proprie sorelle, il che era quanto le donne si dicevano l’una l’altra mentre tutto era in tumultuoso movimento per il rovesciamento dello Scià. Immaginate la scena, pochi giorni dopo la vittoria della rivoluzione. Un uomo chiamato Fathollah Bani-Sadr ebbe l’incarico provvisorio al Ministero della Giustizia. Ancora colmi d’orgoglio, in gruppo, scegliemmo un chiaro e ventoso pomeriggio per andare a congratularci con lui, nel suo ufficio.
Molti saluti affettuosi e fioriti complimenti furono scambiati. Poi gli occhi di Bani-Sadr si posarono su di me. Mi aspettavo che mi ringraziasse, oppure che esprimesse cosa aveva significato, per lui, il fatto che un’impegnata giudice donna come me avesse appoggiato la rivoluzione. Invece disse: “Non pensi che in nome del rispetto per il nostro amato imam Khomeini, che ha benedetto l’Iran con il suo ritorno, sarebbe meglio se tu ti coprissi la testa?”.
Ero sconvolta. Eccoci là, nel Ministero della Giustizia, dopo che una grande rivolta popolare aveva rimpiazzato un’antica monarchia con una repubblica moderna, e il nuovo incaricato per la giustizia parlava di capelli. Capelli!
“Non ho mai indossato una sciarpa per la testa in vita mia”, gli risposi, “E sarebbe ipocrita cominciare ora”. “Allora non essere ipocrita, e indossala con convinzione!”, disse lui, come se avesse appena risolto un mio problema. “Guarda, non essere volubile”, replicai, “Io non dovrei essere costretta a indossare un velo, e se in esso non credo, non intendo indossarlo”. “Non capisci come si sta evolvendo la situazione?”, chiese, alzando la voce. “Sì, lo capisco, ma non fingerò di essere qualcosa che non sono”, dissi io, e lasciai la stanza.
Non volevo sentire, e anzi non volevo neppure pensare, al tipo di realtà, alla “situazione” che era in serbo per noi. Ero distratta da problemi più intimi e personali. Quella primavera, dopo che l’anno prima avevo abortito spontaneamente due volte, mio marito Javad e io avevamo programmato un viaggio a New York, dove intendevamo interpellare uno specialista di problemi della fertilità. L’appuntamento era stato preso da lungo tempo, prima del massiccio rivolgimento dell’ordine sociale, e ora viaggiare era quasi impossibile. Ogni iraniano, per decreto, era “mamnoo ol-khorooj”, ovvero gli si proibiva di lasciare il suo Paese.
Mi appellai ad Abbas Amir-Entezam, il vice-primoministro, con una speciale richiesta da parte dell’ufficio del giudice capo. Amir-Entezam, che poco dopo fu arrestato e che è detenuto ancora oggi, ci diede il permesso, e in aprile volammo negli Usa. L’aeroporto Mehrabab di Teheran, di solito affollato di passeggeri diretti in Europa, sembrava una via di mezzo fra una città fantasma e una base militare. I nostri bagagli furono minuziosamente perquisiti, temendo che in essi vi fossero oggetti d’arte o soldi illeciti del precedente governo, e infine salimmo a bordo del Boeing assieme ad altri quindici passeggeri. Mentre ci stiracchiavamo nelle file di sedili vuoti, guardai dal finestrino Teheran che scompariva sotto di noi, e mi chiesi che sorta di Iran avremmo trovato al nostro ritorno. Gli specialisti di New York mi mostrarono empatia. E, forse, in quei giorni erano più franchi rispetto a ciò che l’avanzata scienza medica poteva fare per una donna sulla trentina che voleva concepire un figlio. C’era un ginecologo iraniano, nel team della clinica di Long Island, e mi spiegò la faccenda nel classico modo persiano, con una metafora sulla fioritura: “Un melo può gettare un centinaio di boccioli, ma non tutti diventano mele. Riusciamo a spiegare perchè, in presenza della stessa quantità d’acqua e dello stesso clima, alcuni dei boccioli cadono, ed altri diventano frutti? Certamente no”. Mi disse che i medici semplicemente non possono risalire alle cause di alcuni aborti, e che io avrei dovuto combattere la mia depressione, e continuare a tentare.
Il giorno dopo il nostro ritorno a Teheran, me ne andai diretta al lavoro. Eravamo stati via meno di un mese, ma era già una città differente. Le vie che attraversano Teheran, lunghi boulevard intitolati a Eisenhower, Roosevelt, la Regina Elisabetta ed il Trono del Pavone, erano stati ribattezzate con i nomi di imam sciiti, di religiosi martiri e di eroi della lotta antimperialista del terzo mondo. Durante la nostra breve assenza, la gente aveva cominciato a “indossare” il suo sostegno alla rivoluzione, letteralmente.
Mentre il mio taxi oltrepassava lentamente gli edifici governativi nella periferia di Teheran, notai che l’usuale fila di auto ministeriali era svanita, e al suo posto era apparsa una lunga linea di motociclette. Quando giunsi in tribunale passai da stanza a stanza, occhieggiando incredula in svariati uffici. Gli uomini non vestivano più giacche, pantaloni e cravatte, ma camicie sciolte senza collo, in maggioranza non stirate, e alcune persino sporche. Persino il mio naso percepì la differenza. L’odore di colonia che aleggiava nei corridoi, specialmente al mattino, era scomparso. Incontrando una collega in corridoio, le sussurrai il mio sconcerto per la subitanea trasformazione, mi sembrava che lo staff del ministero si fosse travestito per dare una recita sulla povertà urbana. In qualche momento, durante la mia breve assenza, apparentemente si era smesso di prestare attenzione ai fatti concreti, e ci si era invece preoccupati di mettere fuorilegge la cravatta all’interno delle proprietà governative. I mullah radicali avevano a lungo disprezzato i “tecnocrati occidentalizzati” chiamandoli “fokoli” dal termine francese “faux-col”, o nodo di cravatta, e ora la cravatta era considerata un simbolo dei mali occidentali, il profumare di colonia segnalava tendenze controrivoluzionarie, e guidare l’auto ministeriale era l’evidenza di un privilegio di classe. Nella nuova atmosfera, ognuno aspirava ad apparire povero, e indossare abiti sporchi era divenuto un marchio di integrità politica, il segnale della simpatia per gli spossessati.
“Cosa sono queste sedie!”. Questo fu il famoso urlo dell’ayatollah Taleghani, uno dei principali religiosi rivoluzionari, quando arrivò per riscrivere la Costituzione al palazzo del senato, e trovò una stanza piena di eleganti sedie rivestite di broccato. “Erano già qui’, gli risposero i suoi collaboratori, sulla difensiva, “Non è che siamo andati a comperarle, o cose del genere”. Per alcuni giorni, l’ayatollah e la sua assemblea vergarono la Costituzione sedendo a gambe incrociate sul pavimento, fino a che non ce la fecero più e si sistemarono sulle sedie corrotte.
C’era veramente un’aria di teatro, in quei tempi, ma io ero distratta dalle notizie che correvano negli ambienti giudiziari, notizie così sconcertanti che a ogni loro nuova ripetizione dovevo ingoiare l’aria in singulti, per cacciare indietro la mia disperazione. Si diceva infatti che l’Islam bandiva le donne dalla professione di giudice. Io tentai di riderci sopra. Contavo molti eminenti rivoluzionari fra i miei amici, e mi dicevo che i miei legami erano sicuri. Devo dire, per far capire cosa la mia potenziale rimozione avrebbe significato, che ero la giudice più nota del tribunale di Teheran. Gli articoli che avevo pubblicato mi avevano messa in vista, e oltre a ciò avevo le credenziali del mio sostegno, il sostegno di una giudice donna, alla rivoluzione.
“Di sicuro”, continuavo a pensare, “non verranno a prendere me”. Se fossero arrivati a me, avrebbe significato che tutto era perduto per tutte le donne, nel sistema giudiziario, e forse anche nel governo. Per parecchi mesi, durante i quali rimasi incinta, mantenni la mia posizione. Un giorno, il Ministro della Giustizia provvisorio Bani-Sadr, quello dell’invito a mettere la sciarpa in testa, mi convocò nel suo ufficio e suggerì di trasferirmi all’ufficio investigativo del Ministero.
Sarebbe stato un incarico prestigioso ma mi preoccupava il fatto che, se avessi rassegnato volontariamente le dimissioni, qualcuno potesse presumere che i ranghi dei giudici erano preclusi alle donne. Dissi di no. Bani-Sadr mi avvisò che un “comitato di purificazione” stava per essere formato, e che io avrei potuto essere declassata al rango di assistente. “Ma io non darò le dimissioni volontariamente”, gli risposi.

*(da “La nonviolenza è in cammino” n. 1396, del 23-8-06; nbawac@tin.it )
Arretrati in: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/maillist.html

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