1978 – 1979 Sollevamento popolare in Iran*
Nel 1978, il regime totalitario dello Scià si confrontò con un formidabile movimento di opposizione che reclamava la fine della dittatura e il ritorno alla costituzione. Le manifestazioni antigovernative raggiunsero una tale ampiezza che lo Scià fu costretto ad abbandonare l’Iran nel gennaio del 1979. Questo sollevamento popolare mise in gioco molte azioni di disobbedienza civile – di cui Non-violence politique si faceva in quel momento portavoce – ma che terminarono nella violenza della guerra civile.
Lanciata nel 1963, dieci anni dopo la caduta di Mossadeq (1), la “ rivoluzione bianca” dello Scià sconvolse le strutture tradizionali del Paese. La riforma agraria, sotto spoglie di conguaglio, sostituì al diritto consuetudinario – base della solidarietà paesana – la proprietà privata degli appezzamenti. I supposti parassiti – braccianti ed artigiani – spodestati dei loro diritti, affluirono verso i centri urbani per servire all’industria da mano d’opera sovra-sfruttata. A causa della disorganizzazione agricola le importazioni alimentari furono moltiplicate rispetto agli anni sessanta. La mediocrità dei salari non permise nemmeno la formazione di un vero mercato interno, questo fece spostare il polo della politica economica del governo verso l’import-export, dove le classi capitaliste si arricchirono moltissimo. Inoltre, la reintegrazione della politica petrolifera (numero due dell’esportazione mondiale) nel libero mercato mondiale causò una modifica degli scambi commerciali a scapito dei “bazaris” (2). Il bazar di Teheran, che da solo costituiva il 70% del commercio, si ritrovò isolato e, d’un tratto, le casse clericali che esso sosteneva si esaurirono. Queste casse, a disposizione dei capi religiosi che riscuotevano e ridistribuivano imposte ed elemosine, non potevano più assicurare sussistenza agli strati sociali impoveriti. Da tutto questo nacque il malcontento crescente che non mancò d’essere galvanizzato da questi ayatollah la cui influenza sulle strutture giuridiche si indeboliva.
Questa politica di sfrenata industrializzazione e di lassismo verso i privilegiati fu all’origine della rivolta popolare.
Il dominio dell’imperialismo americano
Nuove forme d’intervento coloniale, i “mercenari dal colletto bianco” divennero “indispensabili” alle strutture militari dei paesi in via di sviluppo. Questi “esperti” (per conto delle multinazionali o dei fabbricanti d’armi) inclusero nei loro contratti i più sofisticati servizi di dopo vendita e i loro compiti andavano a volte al di là dell’ambito militare. Tale era il caso dell’Iran dove questi “esperti” si erano collocati nelle posizioni chiave dell’apparato militare iraniano. Le operazioni presero man mano il carattere di un vero piano di azione degli Stati Uniti. Nel 1978, c’erano in Iran 25.000 tecnici americani per un esercito di 400.000 uomini, ciò costituiva un solido sistema di repressione al servizio della politica estera statunitense. Facendo leva sullo spettro di un’eventuale invasione sovietica, la militarizzazione aveva quindi potuto guadagnare tutti i settori essenziali attraverso il controllo dell’economia e degli ingranaggi statali con una rete di “aiuti” militari o di civili assegnati a compiti di difesa.
Un movimento profondo
Lo Scià e la Savak (3), con l’aiuto della C.I.A., riuscirono ad annientare ogni forma di opposizione classica attraverso una spietata repressione. Tra i 180.000 mullah delle moschee, un numero in crescita, nato da un movimento popolare, (fra gli studenti influenzati da Ali Sharriati, uno dei maestri dello sciismo moderno, e i fedeli del Dr. Mofatan, professore all’Università di Teheran poi mullah) che costituiva una base religiosa contestataria radicalizzata dagli “insegnamenti” di Khomeiny, emerse un messaggio di liberazione politica e sociale. E la moschea, unico luogo per la collettività semi tollerato sotto la dittatura, divenne uno strumento di strutturazione dell’opposizione popolare radicata nell’esperienza religiosa. In un Paese di 35 milioni di abitanti, per l’85% mussulmani, essa costituì un formidabile potenziale d’azione.
Un’altra logica alternativa alla violenza
È un dogma particolarmente diffamante verso l’ayatollah in esilio, che abbia dato fuoco alle polveri. In risposta a questa nuova ingiuria del potere, migliaia di fedeli manifestarono la loro indignazione e la loro collera nel bazar di Teheran, mentre su invito dell’ayatollah Rahani, i fedeli boicottarono l’Etelaat, il grande ed odioso quotidiano a favore del regime. L’esercito intervenne una prima volta, ed uccise 500 persone. A partire da questo momento, il movimento, che aveva già i suoi primi martiri, prese corpo e si sviluppò. A suon di lutti, che accompagnarono tutti i 40 giorni, ogni nuova repressione della polizia e dell’esercito dava al popolo l’occasione di manifestare nuovamente e reclamare la partenza dello Scià. Il coraggio e la determinazione di scendere nelle strade malgrado la legge marziale impose allo Scià un’altra logica da quella della violenza. Davanti al ciclo rivolta-repressione la folla oppose al fuoco delle mitragliatrici una presenza sempre più imponente. Questo movimento guadagnò tutti gli strati sociali, mobilitò un numero sempre crescente d’iraniani ed isolò l’esercito. Lo sciismo, religione del martire, favorì una solidarietà nata nella condivisione della sofferenza delle famiglie delle vittime. E si affermò un dato evidente: le armi della repressione erano diventate impotenti. Così, per un anno instancabilmente, malgrado le centinaia di vittime, la popolazione disobbedì in maniera massiccia alla proibizione di manifestare. Uno dei massimi livelli si raggiunse il giovedì 7 settembre 1978, quando un milione di persone si riunirono nel cimitero di Teheran. Il giorno seguente, il “venerdì nero”, centinaia d’iraniani caddero sotto i proiettili. Anche se la proclamazione della legge marziale frenò il movimento, non lo arrestò. Ogni giorno ed ogni notte, migliaia di giovani sfidarono apertamente il potere, superando la paura, accettando il sacrificio della loro vita e portando avanti il movimento di protesta.
Una coordinazione ramificata
Khomeiny, moltiplicando gli appelli alla resistenza contro il simbolo dell’autocrazia, dell’illegittimità e dell’anti-nazionalismo, grazie a tutta una rete d’informatori ed emissari, coordinava la lotta. Un sistema accurato di registrazione su cassette permise allo ayatollah di diffondere i suoi appelli, ascoltati attentamente in tutte le famiglie e in tutti i quartieri da piccoli gruppi, creando così una certa coesione spirituale e psicologica del popolo iraniano. Nell’altro senso i suoi informatori gli assicuravano una visione esaustiva della situazione e l’opportunità di dare l’avvio alle azioni. La sua intransigenza davanti alle pressanti richieste di negoziazione, la sua incorruttibilità e la sua immagine d’infallibilità, ne fecero un leader il cui ascendente sulle masse è paragonabile a quello di Gandhi.
La “demoralizzazione” dell’esercito
L’opposizione, cosciente dello sfaldamento all’interno dell’esercito, lanciò appelli reiterati ai soldati affinché non sparassero più sulla folla. Durante le manifestazioni, la cui ampiezza non faceva altro che allargarsi nel corso dei mesi, i soldati vennero interpellati sul ruolo che svolgevano da un movimento di fraternizzazione. Nell’esercito c’erano molti soldati provenienti dal popolo, i cui interessi erano in comune con coloro che essi erano obbligati a disperdere ed uccidere. Si sviluppò una strategia, inizialmente spontanea, (“Non sparare a tuo fratello”), per favorire la presa di coscienza di questa reale solidarietà e la rottura della loro collaborazione. L’atteggiamento dei manifestanti che brandivano i garofani verso i fucili permise di sostituire il dialogo allo scontro. Un passo avanti venne compiuto quando Khomeiny invitò ogni soldato a obiettare all’esercito dello Scià. Tutto ciò portò a molteplici atti d’insubordinazione e questo movimento culminò con il ritorno di Khomeiny.
Paralisi del sistema economico
Di fronte alla repressione, il popolo doveva passare da una fase di dimostrazione di forza e di unità a una fase di coercizione, dato che le manifestazioni non toglievano allo Scià il punto d’appoggio del suo potere: il controllo della macchina economica.
Khomeiny predicò il sollevamento generale dopo il “venerdì nero”. Un’ondata di scioperi selvaggi attraversò tutti grandi servizi statali. Teheran fu semiparalizzata, il bazar e l’università chiusi e i ministeri inoperanti. I due quotidiani principali, fino ad allora portavoce del governo, cessarono di uscire. Il potere economico dello Scià ricevette il colpo di grazia quando, a metà ottobre, i responsabili religiosi e le forze laiche di opposizione, proclamarono lo sciopero come parola d’ordine.
Durante tutta la durata della resistenza, si era organizzata una rete popolare intorno ai quartieri, soprattutto a Teheran. Questo diede la possibilità di riallacciare i legami di solidarietà distrutti dall’urbanizzazione selvaggia e dall’industrializzazione. Istituzioni parallele, come cooperative di abbigliamento, comitati di protezione, centri che raggruppavano scuola, luogo di riunione ed attività culturali, banche “selvagge”… costituirono una vera organizzazione alternativa al potere centrale disgregato.
E, all’inizio di novembre, il movimento di massa guadagnò in profondità e potenza: le concessioni strappate al potere, lungi dall’indebolire la mobilitazione, agirono al contrario come lievito nella pasta. L’ondata di scioperi paralizzò tutti gli ingranaggi statali. A fine novembre Khomeiny proclamò lo sciopero fiscale e l’embargo sulle importazioni petrolifere. Egli ricordò che “gli operai e gli impiegati della compagnia dei petroli non devono permettere l’esportazione di questa ricchezza vitale” che serve a “comprare le armi che uccidono gli uomini e le donne del popolo in lotta”. Questa non-collaborazione massiccia e totale, generalizzata a tutto il Paese, della popolazione con il governo oppressore, ridusse a nulla il suo potere. A loro volta, i doganieri, i centralinisti, gli operatori telex e gli elettricisti, con molta immaginazione, impedirono al potere di divulgare la propaganda o di ricevere aiuti dall’esterno. La reazione del governo militare si rivelò insufficiente. Il generale Azhari non riuscì a mettere l’Iran al lavoro malgrado il minuzioso controllo territoriale militare di Teheran, malgrado i tentativi di sequestro degli scioperanti, e fallì nel tentativo di ristabilire un clima di terrore.
Tutti coloro che avevano sostenuto il regime, tecnici, medici, funzionari, giornalisti, magistrati, passarono all’opposizione. Durante le feste di Tassoua e Achoura (alla fine del lutto sciita di Nohamann), sei milioni d’Iraniani erano in strada. Ci vollero tuttavia ancora quattro settimane di non-collaborazione supplementare per costringere lo Scià a partire, nel gennaio 1979. Poteva domare dei rivoltosi, ma è restato impotente davanti a un popolo che ha detto no.
L’ayatollah Khomeiny, che in Francia aveva creato un consiglio provvisorio della rivoluzione iraniana, rientrò nel suo Paese, il primo febbraio 1979, accolto da milioni d’iraniani come il profeta. Il suo ritorno segnò anche la fine della rivoluzione “nonviolenta” dal momento che si evocava già la necessità di una lotta armata “per distruggere l’esercito” e il vecchio regime. Assassinii, esecuzioni sommarie tramite tribunali rivoluzionari, repressioni delle minoranze… la repubblica islamica proclamata nell’aprile del 1979 in seguito a un referendum, nasceva nel sangue e nella guerra civile.
Note
(1) Primo ministro nel 1951 fu destituito a causa della sua politica d’indipendenza nazionale. Specialmente la nazionalizzazione del petrolio aveva provocato rappresaglie economiche da parte delle potenze occidentali.(2) I bazaris sono i commercianti di bazar, in numero di circa mezzo milione, fortemente organizzati per sostenere finanziariamente gli scioperanti.
(3) Polizia politica iraniana.
* *Da Les dossiers de Non-violence politique, n. 2, 1983 (una 2^ edizione nel 1989):
Les leçons de l’histoire – Résistances civiles et defense populaire non-violente