Il Vangelo della pace che abbiamo ricevuto

6 luglio 2009 - Sergio Paronetto (Vice presidente Pax Christi Italia)
Fonte: L’articolo è pubblicato nel n. 69 di “Adista-Segni nuovi” del 20 giugno 2009 col titolo “Il Vangelo della pace che abbiamo ricevuto” e nel n. 72 del 27 giugno 2009 col titolo “Il metodo Roncalli contro i profeti di sventura”

Ringrazio “Adista” per la documentazione riguardante il Convegno fiorentino “Il Vangelo che abbiamo ricevuto” e, tra tutte, per la riflessione di Enrico Peyretti apparsa su “Segni dei tempi” del 30 maggio. La sento vicina al Congresso nazionale di Pax Christi di fine aprile che aveva come tema: “Concilio, stile di chiesa e di vita”, da cui è emerso un profilo al femminile (9 donne su 15 nel nuovo Consiglio Nazionale). Vorrei continuare la riflessione comune richiamandomi al nostro Congresso (di cui si può leggere un’ampia sintesi in “Mosaico di pace”, giugno 2009) che è stato aperto da aperto dalle robuste relazioni di Roberto Mancini, di Rosanna Virgili, della segretaria internazionale Claudette Werleigh, di Luigi Bettazzi e di Tommaso Valentinetti, arcivescovo di Pescara, attuale presidente. Recentemente, abbiamo inviato alcune lettere aperte: a Obama e al Governo a proposito della riconversione delle spese militari per gli F 35, a favore delle vittime del terremoto abruzzese; al presidente Napolitano, in occasione del 2 giugno, sulla deriva autoritaria italiana (“Solo il sentiero della Costituzione può garantire la pace”). Il 10 maggio, abbiamo anche diffuso il documento “Ero straniero e mi avete accolto”. Uno dei nostri cantieri di lavoro è proprio “Chiese, religioni e conflitti” che incrocerà sicuramente il cammino di tanti.
Ritornando al Convegno fiorentino, secondo me, nel variegato discorso sulla ripresa conciliare diventa centrale la questione della pace, una parola-vocabolario(diceva Tonino Bello), una tematica laica e mistica, un’idea generatrice planetaria e quotidiana, una pratica universale dalla quale partono tre strade:

La spiritualità della pace e la teologia della nonviolenza,un campo ricco di itinerari e di scoperte, che si intreccia all’educazione alla pace, all’ecumenismo, al dialogo interreligioso, all’intercultura, alla costruzione di una nuova famiglia umana. Per fare questo, noi “credenti nella pace” dovremmo sviluppare tutto ciò che nelle teologie cattoliche e cristiane, nella prassi delle comunità incarnate, nella laicità credente (sacerdotale, profetica e regale), nel Magistero della Chiesa e dei papi (da Giovanni XXIII a Benedetto XVI) va nella direzione di una teologia della nonviolenza all’altezza delle sfide della “modernità” che, come scrive René Girard, spinge la violenza “all’estremo”. Lo osservava anche il papa nella “Spe salvi”. Nell’operato del papa possiamo incontrare incertezze e contraddizioni così come nella Chiesa in generale possiamo rilevare tanti pericoli di papolatria o di clericalismo. Personalmente ritengo, però, affrettata l’osservazione di coloro che vedono il papa contrario al Concilio e schiacciato sulla cultura “occidentalista”. Chi per opposti motivi ritiene che sia così scambia alcune indicazioni parziali, la cattiva gestione del caso lefebvriano, l’infortunio della prefazione al libro di Pera con il pensiero globale o “magisteriale” del papa come guida dei credenti. Nonostante tutto, molti interventi poco conosciuti (Colonia, Vienna, Loreto, Assisi, Velletri, Lorenzago), l’angelus del 18 febbraio 2007 sulle “Beatitudini come magna carta della nonviolenza”, alcuni discorsi al Corpo diplomatico, le omelie di Natale e dell’Epifania, i messaggi per le Giornate mondiali della pace e dei migranti, il viaggio in Turchia del novembre 2006 con lo splendido “appello di Efeso”, la “Deus caritas est”, l’appoggio al forum cristiano-islamico del novembre 2008, l’umanissima “lettera ai vescovi” del 12 marzo 2009 (che ripropone la scelta prioritaria della Parola e del dialogo ecumenico e interreligioso), il viaggio in Africa (dove in ottobre si terrà il secondo Sinodo africano su riconciliazione, giustizia e pace), il viaggio in Palestina-Israele del maggio scorso… ribadiscono la scelta irrevocabile del Concilio, la visione universale della Chiesa, la centralità della famiglia umana. Penso che il papa sia più complesso dei suoi entusiasti apologeti e dei suoi permanenti contestatori. È bene strapparlo allo schematismo mediatico e alle logiche devastanti di una religione civile guerriera, dove alcuni vorrebbero collocarlo. Nel recente viaggio mediorientale spicca l’idea che i conflitti di civiltà possano essere superati, che le differenze possano diventare sorgente di unione, che il dialogo interreligioso sia parte integrante di una cultura di pace. Secondo il papa, molti sono i segnali orientati a “favorire un’alleanza di civiltà tra il mondo occidentale e quello musulmano, smentendo le predizioni di coloro che considerano inevitabili la violenza e il conflitto”. La pratica del dialogo interreligioso è fondamentale per “testimoniare il Dio della misericordia, l’amore per l’unico Dio e la carità verso il nostro prossimo, operare assieme per la giustizia, la riconciliazione e la pace”. Il 4 giugno, Obama al Cairo si è posto autonomamente su questa scia.

Il “metodo Roncalli” contro i profeti di sventura
Una prassi di sinodalità o di corresponsabilità ecclesiale. È bene che ciascuno si ponga nella prospettiva di condividere la sua originalità con tutto il popolo di Dio in cammino, senza arroganza, in un’ottica sinodale di conversione comune al Cristo “nostra pace”. Ne parlava Valentinetti a Trento nel dicembre 2006: “sinodalità significa non la somma dei pensieri, non la sommatoria, più (come diceva don Tonino Bello quando spiegava la trinità: non uno più uno più uno, ma uno per uno per uno). Realmente la sinodalità è uno per uno per uno per uno, soggetti che interagiscono all'interno del cammino di chiesa. È chiaro che dobbiamo avere il coraggio di proporre questa dimensione dentro le nostre comunità cristiane, dentro i nostri stessi gruppi, perché disarmare il gruppo, anche un punto pace, significa avere il coraggio di metterci a pensare insieme”.
A tal fine, il capitolo IV della “Lumen gentium” (“I laici”, nn. 30-38) può diventare uno dei testi base del cammino comune. Non abbiamo “nemici”. Si dialoga con tutti!. La gestione dei conflitti vale sempre e ovunque. Lentezze epocali, distrazioni clamorose, contraddizioni laceranti sono presenti ovunque nella Chiesa e nella società, anche nei gruppi che riteniamo più avanzati, anche tra noi e in noi. Adottare il “metodo Roncalli”, ricordato da Luigi Pedrazzi, vuol dire evitare presunzioni arroganti, non fare “i profeti di sventura” incapaci di vedere il bene o di cogliere il nuovo. È l’unico metodo persuasivo, fecondo, verace. Tutti noi siamo popolo di Dio. Anche noi siamo Chiesa. Ogni contributo va offerto gratuitamente come dono, senza la pretesa di possedere la verità, senza clericalismi o settarismi rovesciati. La profezia (urgente) non è monopolio di nessuno né la parresìa (necessaria) può diventare un critica automatica; essa d’altra parte, come insegnavano sia Primo Mazzolari che Tonino Bello, si intreccia alla politica. Proprio perché la pace è un vocabolario in un mondo gigantesco, il suo campo d’azione è immenso, aperto a tutti.

La profezia quotidiana. La cittadinanza attiva.
L’azione dei credenti per la pace è certo internazionale ma, contemporaneamente, è attenta ai contesti di vita, alla dimensione quotidiana e sociale dell’esistenza(discriminazioni razziali ed emarginazioni sociali, violenze in famiglia contro le donne e i bambini, morti sul lavoro, criminalità organizzata, reati ambientali, “questione morale”, evasione fiscale, morti sulle strade, suicidi). L’azione per la pace può e deve affrontare le paure diffuse nelle realtà urbane dove avviene l’incubazione di tristezze e di solitudini ai bordi della disperazione. Penso a molte città “padane” e dintorni dove si gioca il futuro della cittadinanza umana, si stanno costruendo sperimentazioni autoritarie e tribali, si agitano populismi etnici o religioni civili settarie, si scatenano periodicamente violenze familiari orribili o miniviolenze che degradano lo spirito pubblico e il clima sociale. Le nostre città hanno bisogno di buone pratiche sociali orientate al bene comune e alla sicurezza comune. E’ necessario attivare spazi e momenti di riconoscimento reciproco, servizi ecclesiali e civili per la pace e l’educazione al conflitto, forme di contemplazione e di preghiera. Associazioni e comunità, diocesi e ed enti locali dovrebbero porsi alcune domande. Quale città intendiamo costruire e abitare? Come è possibile gestire i conflitti nelle città? Come operare la liberazione dalla paura per una sicurezza comune? Esercitare una cittadinanza attiva nonviolenta? Recuperare l’identità dialogante? Che cosa vuol dire città conviviale? In fondo, siamo capaci di dialogare? Lo chiedeva il cardinal Tettamanzi ai milanesi nel dicembre 2008. Sempre Tettamanzi, nell’aprire il Convegno della Chiesa italiana nell’Arena di Verona (ottobre 2006) osservava che più che parlare di speranza è necessario “parlare con speranza”. Nello stesso luogo, sede degli incontri dei “Beati i costruttori di pace”, proprio vent’anni fa, il 30 aprile 1989, Tonino Bello ha lanciato l’idea della pace come movimento trinitario e l’appello “in piedi costruttori di pace!” che risuona sempre caro e intenso nella profondità del nostro cuore: “Invocheremo lo Spirito Santo. Non solo perché rinnovi il volto della terra. Ma perché faccia un rogo di tutte le nostre paure” (Sui sentieri di Isaia, 1999, p. 57).

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