Alex Langer
Alexander è un uomo che si ama o non si comprende. Lo si può amare se si accetta che la purezza e la profondità dell’animo umano sa andare oltre ogni barriera, ogni egoismo, amando, rivolgendo lo sguardo soltanto verso lo scrigno custodito nel cuore dell’uomo. Nel suo pensiero, nel suo comportamento quotidiano, si realizzano splendidamente le parole di San Paolo “non c’è più giudeo nè greco; non c’è più schiavo nè libero”.
Si definiva un ponte che “si poteva percorrere in entrambe le direzioni”. Cresciuto in una regione di frontiera, ha visto nella conoscenza reciproca, nell’incontro fecondo, una ricchezza da costruire quotidianamente. Parlando di se stesso, disse “Nessuna delle bandiere che svettano davanti a ostelli o campeggi è la mia. Non ne sento la mancanza. In compenso, con il tedesco e l’italiano, riesco a farmi capire dalla Danimarca alla Sicilia”. E, facendosi comprendere, si abbandonava all’ascolto del cuore, dell’animo, della sensibilità di chi aveva di fronte.
Viaggiatore inquieto, ardente di umanità e pronto a chinarsi sulle sofferenze umane. Come il suo amato San Cristoforo, simbolo dei viandanti e dei pellegrini, splendidamente rappresentato in una chiesa di Firenze con Gesù Bambino sulle spalle. E, esattamente come lui, Alexander si caricava dei pesi e dei dolori che incontrava. Rimanendo spesso solo, incompreso anche da chi poteva, e doveva, restargli vicino.
Ha vissuto in prima persona la tragedia dei Balcani, cercando fino all’ultimo di fermare la disumana macchina della morte. Aveva preso particolarmente a cuore le sorti di Tùzla, l’enclave multietnica che tanto gli ricordava il “laboratorio di convivenza” del suo SudTirolo. Stava impegnando tutte le sue energie per tentare di fermare l’assedio della città quando, il 25 maggio 1995, una granata in pieno centro uccise 71 ragazzi. Stavano festeggiando la maturità. Un’intera generazione fu cancellata. Duro come un macigno, nei giorni successivi, arrivò il telegramma del sindaco della città, “Questi morti sono tuoi”.
Il caricarsi i pesi del prossimo, per alleviare le sue sofferenze e curare le sue ferite, l’essere portatori di speranza (come Alexander stesso si definì) e di amore, può portare a spingersi troppo avanti. Può condurre nel deserto, dove gli uomini non si amano e non parlano. Dove i pesi diventano eccessivi. Lo scrisse lui stesso nell’ottobre 1992, in ricordo dell’amica Petra Kelly, riferendosi al dramma dei “portatori di speranza” che si ritrovano “troppo grande... il carico di amore per l’umanità e di amori umani che si intrecciano e non si risolvono”. E i pesi, quel drammatico 3 luglio di quattordici anni fa, sono "diventati insostenibili", soffocando il suo animo.
“... E quando fu cessato il suo respiro, prese i suoi semplici vestiti e si mise in cammino verso il sole. E la sua lieve figura alla porta gli angeli devono aver accolto, perché non ho più potuto ritrovarla quaggiù sul versante dei mortali” (Emily Dickinson).
E di una persona come Alexander, della sua purezza, del suo candore idealistico e innamorato, oggi avremmo immensamente bisogno.
Ai piedi dell’albero dove “fu cessato il suo respiro” Alexander lasciò, ordinatamente, le sue scarpe. E allora, in conclusione, lasciatemi sperare che al termine del suo cammino abbia trovato ad attenderlo il Maestro, a braccia spalancate e tono di dolce rimprovero, per ricordargli che la frase da lui scritta nel commiatarsi “Venite a me voi tutti che siete stanchi e oppressi” si completa con la promessa d’amore “e io vi ristorerò”. Quell’amore che Alexander ha tanto donato agli altri, all’umanità sofferente e oppressa, da non averne più trovato per lui.