Il sapore degli incontri inattesi
Sorride al bambino che viaggia con noi e poi gli rivolge la parola: “Come ti chiami? Anche tu stai andando in vacanza?”. Inizia un turbinio di chiacchiere allegre. Racconta dei suoi nipotini che presto potrà riabbracciare. Il tempo trascorre sereno tra aneddoti familiari, commenti sul tempo, sul clima culturale e confidenze inaspettate. Alla fine del viaggio ci salutiamo affettuosamente, anche se non ci siamo ancora presentati. Osserviamo quell’anziana signora allontanarsi tra la gente e già sentiamo un po’ di nostalgia per quella compagnia imprevista. È iniziata la nostra vacanza e con essa anche la voglia di chiacchiere. Heidegger, probabilmente, avrebbe da ridire per questo parlare impersonale e superficiale. Ma se la redenzione della parola si nascondesse anche nella leggerezza estiva di una conversazione casuale? Sembrerebbe un’ipotesi un po’ paradossale, visto che pure la Bibbia invita a evitare le chiacchiere (1Tim 6,20; 2Tim 2,16), considerata ingrediente principale del discorso dello stolto (Qo 5,1-2).
CHIACCHERE
Non abbiamo noi stessi, in questa rubrica, sostenuto proprio questo? Nel tentativo di prendere sul serio le parole, denunciandone gli abusi e promuovendone un diverso ascolto, che nasce dal desiderio di nominare la realtà e non di camuffarla, abbiamo provato a “volare alto”. Del resto, la gravità della situazione in cui versano le parole ci obbliga a prendere in considerazione cure radicali, prognosi esigenti, all’insegna di una vera e propria ascesi del dire e dell’udire. L’inflazione ha raggiunto proporzioni tali da gettare un discredito generalizzato sull’effettivo valore della parola. Ci siamo più volte detti: è necessario accendere uno sguardo diverso sulla parola, come quello reso possibile dalle Scritture o anche da quel guardare in profondità tipico della filosofia (la quale, per dirla con Adorno, se fa seriamente i conti con la disperazione, si propone come “il tentativo di considerare tutte le cose come si presenterebbero dal punto di vista della redenzione”).
Raccogliamo seriamente la duplice messa in guardia, tanto più oggi, nella società dello spettacolo, dove il gossip è diventato la lingua parlata da tutti. Tuttavia, di fronte alla crescente paura dell’altro, al clima di diffidenza diffusa, che ottenebra lo sguardo e paralizza la comunicazione, forse dobbiamo fare anche l’elogio della chiacchiera. Viviamo un tempo di barbarie. Come scriveva Lévi-Strauss, “Barbaro è anzitutto l’uomo che crede nella barbarie”: ovvero l’essere umano che non vede l’altro nella sua umanità bensì come un’anomalia da eliminare. Lo scenario in cui ci muoviamo presenta un’umanità in preda a pregiudizi (razzisti), incapace di ascoltare l’altro nella quotidianità più banale, quella in cui non si faranno grandi scoperte esistenziali ma ci si accorge che l’altro non è un mostro: parla di lavoro e di stanchezza, di calcio e televisione, di amori e di solitudine... esattamente come noi!
In un mondo di monologhi o di dialoghi esclusivamente con chi ci è simile (ovunque raggiungibile col telefonino!), il coraggio di aprire un canale di comunicazione spesso casuale con chi ci è estraneo, mediante la chiacchiera, il parlare senza troppe pretese... non è cosa da poco! Almeno nel periodo estivo, anche chi sente una responsabilità nei confronti delle parole dovrebbe concedersi il lusso necessario della chiacchiera. Sicuramente la “parola” non se la prende: la sua vocazione comunicativa sa fare breccia ovunque, se la voce nasce dal desiderio di andare oltre le chiusure e i pregiudizi.
ANCHE GESÙ
Del resto anche il predicatore di Galilea, sempre attento a parlare un linguaggio essenziale, parabolico, in grado di comunicare parole decisive, che colpiscono al cuore, non ha disdegnato la chiacchiera. Lo attesta, ad esempio, il bellissimo affresco che Giovanni offre dell’incontro con la samaritana. Togliamo subito di mezzo il possibile fraintendimento: quel brano (Gv 4) è la narrazione di un itinerario di fede; la trama è fatta di fili sottili, di parole e simboli profondi. Niente di più lontano dalla classica scena da bar, cui siamo soliti associare il genere letterario della chiacchiera! Eppure quell’acqua viva, in grado di far fronte alla sete di vita piena che Gesù promette alla donna di Samaria, sembra scaturire dal rigagnolo di una chiacchiera non evitata. E c’erano tutti i motivi per farlo. Non stava bene, infatti, che un giudeo parlasse con un samaritano, appartenente a un popolo eretico, il nemico interno, la classica serpe nutrita in seno (4, 9). Se poi il samaritano in questione era una donna, allora persino i discepoli di quello strano Maestro non potevano non stupirsi della cosa (4, 27).
Gesù non si sottrae. Del resto, come avrebbe potuto evitare il dialogo con la samaritana sopraggiunta proprio in quel momento? È mezzogiorno. Il sole è alto. Fa caldo. Stanco del viaggio, il viandante ha sete e i suoi discepoli sono andati in città a comprare da mangiare. Proprio la sete rivela Gesù come uomo, vero essere umano, con dei bisogni concreti da soddisfare. Uomo che entra in relazione con una donna, non nascondendo la propria vulnerabilità, partendo da un suo bisogno individuale e, nello stesso tempo, universalmente riconoscibile. Tutti conoscono la sete: quella fisica e quella di senso. Una sete che raramente si riesce a colmare, poiché il pozzo è profondo e non disponiamo di secchi adatti. In ogni caso, un bisogno che ci strappa alla nostra autosufficienza. La sete di Gesù interpella l’altra, sollecitandola ad azzerare la distanza culturale, sessuale, etnica e religiosa.
SUL FILO DELLA CURIOSITÀ
È lui, dunque, che prende l’iniziativa e le rivolge per primo la parola. Lei all’inizio è difensiva. Tuttavia, è anche incuriosita dallo strano comportamento di quell’uomo. La conversazione, che parte da un bisogno concreto, diventa presto profonda, coinvolgente, proprio come le confidenze che estranei viaggiatori sono in grado di scambiarsi nella casualità di un incontro.
Si parlano a cuore aperto, si mettono a nudo e non si sottraggono alle obiezioni reciproche. Il forestiero, incontrato casualmente in un normale luogo di passaggio, è portatore di bisogni concreti, come l’acqua, ma anche di novità, di sguardi diversi sulla realtà, sul mondo. Chi deforma lo straniero, l’estraneo, dietro una maschera di paura, perde l’opportunità di arricchirsi con un altro sguardo, un’altra prospettiva sulla vita. La samaritana sembra saperlo. Essa non si limita, secondo la legge dell’ospitalità, a soddisfare il bisogno fisico di Gesù. Vuole da subito confrontarsi e capire la realtà storica e religiosa che entrambi vivono. E da una conversazione casuale, estiva, apparentemente leggera, scaturisce una vera disputa teologica. Nel dialogo entrambi creano le possibilità per potersi confrontare: lui le rivolge la parola quando non dovrebbe, e lei lo interpella sul doppio conflitto etnico e sessuale che entrambi incarnano.
Si innesca tra i due una conversazione a doppio taglio, che si muove tra il concreto e il simbolico, il politico e lo spirituale.
Una donna colta, che conosce la storia del suo popolo e le sue tradizioni religiose. Fin dall’inizio trasforma la chiacchiera in opportunità di conoscenza.
Entrambi gli interlocutori escono arricchiti da quella conversazione partita apparentemente in modo casuale.
A volte, il desiderio di comunicare è dettato dalle circostanze e dal bisogno: motivi per niente nobili, ma capaci di far emergere che non siamo autosufficienti, che abbiamo bisogno dell’altro. E che l’altro ha i nostri stessi bisogni: apparteniamo alla stessa umanità assetata di vita e stanca per la fatica, spesso infruttuosa, della ricerca.
Se la chiacchiera non è giocata solo in funzione di far passare il tempo, ma veicola anche un briciolo di curiosità, un’apertura, anche solo uno spiraglio dettato dalla necessità, allora la parola saprà aprire varchi e potremo sperimentare una salvezza inattesa.